Sono stati resi disponibili al Sud, fra il 2000 e il 2006, cento miliardi di euro per progetti della UE.
Il 30% non è stato speso. Il divario Nord-Sud è comunque cresciuto. Questo è, in gran sintesi, quanto è emerso dalla convention tenuta a Napoli sulle politiche europee e il Mezzogiorno.
Le liste per le primarie del Pd in Campania non sono regolari. E’ l’ennesima eccezione grave rispetto al resto del Paese. E che non rende credibile una scommessa già molto ardua. I 5 commissari in forza alle aree di Bassolino e di De Mita, le cui liste erano irregolari, in particolare per il rapporto candidati uomini e donne, si sono barricati con le schede per non consentire neanche la più blanda e normale azione di controllo decisa a livello nazionale e sulla base del regolamento. Si è minacciato di fare arrivare i carabinieri pur di poter almeno fare opera di constatazione delle irregolarità. La pre-potenza (potere che viene da prima) è più forte della procedura che è il sale di ogni aspirazione e processo democratico. E De Mita da Nusco fa pure il vecchio savio democratico, il padre della patria mentre don Antonio, da S. Lucia, raccomanda di andare avanti comunque, senza badare a queste sciocchezze…
Li accomuna la convinzione che tanto a portare i voti alle loro liste sono le truppe cammellate di sempre ma soprattutto l’idea che il come si costruisce un partito è roba seconda a quella politica vera, hard, cinica e bara, di cui essi sono i depositari eterni e che credere a una cosa democratica autentica e battersi perché sia tale è esercizio da illusi, da cretini….
Così abbiamo, per l’ennesima volta, amare conferme: la politica nel Sud è fallimentare eppure immutabile: disastrosa rispetto alle possibilità di sviluppo anche lì dove l’Europa ne fornisce le occasioni e arrogante ed attrezzatissima a impedire anche piccoli passi in avanti nel come si esercita la democrazia.
E’ per questo che la guerra è di lunga durata e che non bisogna cedere di un millimetro e continuare, testardi, a provare ad aprire spazi e battaglie ovunque.
30 settembre, 2007
28 settembre, 2007
Un eroismo silente e non riconosciuto
Ieri i giornali raccontano dei due ragazzi, una volta amici per la pelle, morti ammazzati a poche ore di distanza su fronti rivali al rione Berlinghieri e ad Arzano, numero 77 e 78 dall’inizio di quest’anno, quasi tutti tra i 20 e i 28 anni, carnefici e vittime della eterna guerra di camorra che si riaccende ora. Uno ha ucciso l’altro come prova di fedeltà al nuovo boss per essere a sua volta ucciso. Ai transfughi da clan a clan viene chiesto di uccidere i vecchi amici con cui avevano passato decine di serate in pizzeria o giocato a calcetto nella stessa squadra di quartiere…
Ho scritto l'articolo che segue per Repubblica Napoli del 25 settembre, dopo la ennesima sparatoria di strada nel mio quartiere.
L’altro ieri due persone hanno sparato con una 7.65 e una calibro 9 e ferito di striscio in pieno giorno Francesca, una ragazza del mio quartiere. All’altezza del bimbo che spesso porta per mano. Ma che per un caso non era con lei. Era già successo che sparassero di domenica così. Avevo sentito i colpi secchi dal mio balcone meno di un mese fa.
Riprende, pericolosa, la guerra tra bande al centro della nostra città. E entra nel nostro dì di festa. E tutto intorno a questa guerra, dichiarata e strisciante - che si è preparata nelle nuove spartizioni di camorra, che si è nutrita dei mercati delle droghe, del controllo su mille commerci, del voto di scambio – c’è un più largo, diffuso modo di fare, pronto alla violenza, che porta la nostra vita quotidiana ad accettare ciò che non dovrebbe.
La scena non l’ho vista. Ma chiunque abita nei quartieri la sa immaginare. Si torna dal passeggio in villa per la domenica ecologica. Magari con i bambini, i pattini, la bici, il pallone. Si sale verso casa. C’è il pranzo della domenica e c’è il Napoli in tv che finalmente sa giocare a calcio. Passano in motorino due ragazzi. Veloci. Non pensi neanche che stanno per sparare, magari solo per dare un segnale o per sfregio. Siamo abituati o, per meglio dire, assuefatti allo sfrecciare incosciente delle moto. Eppure dà sempre un po’ fastidio questo tagliare, oltraggioso, le curve dei vicoli con un veicolo usato come arma impropria. Perché è un luogo dove si vive in tanti, il mio quartiere, il tuo quartiere. E ci appartiene e noi vi apparteniamo: insegnanti, commercianti, operai, artigiani, gente che, in assoluta maggioranza, vive di onesto lavoro. Faticosamente. E perché corrono di domenica mattina, incuranti dell’anziana che fatica a salire per il vicolo, del venditore che sbaracca il banco dei frutti di mare o del pane fresco, del bimbo che attraversa, della signora che si è fermata distratta proprio sull’angolo dove svoltano. Ma siamo abituati, appunto. Neanche più gli gridiamo dietro. E non solo perché capita ogni giorno, molte volte. Ma perché potrebbero essere anche imbottiti di coca, arrabbiati per fatti loro, magari armati. Meglio lasciare correre… Una volta ho riconosciuto un ragazzo che correva così. Era una sera prima di Natale. Tanta gente per strada. E gli ho gridato. Mi si è avvicinato. Con uno sguardo disposto a tutto, che non ricordavo avesse mai avuto. Ma mi ha riconosciuto. Mi ha stretto con tutta la forza che aveva pur di arginare la voglia di aggredire. E se ne è andato. Sono ragazzi che cadono dentro a un giro perché è lì dinanzi e offre loro un’identità e un mondo. E se ci cadi, il giro è il giro. Cambi i tuoi modi. E prendi i ritmi, pronunci le parole, segui le regole e sei spinto ai comportamenti, alle reazioni, alle pattuizioni e agli impegni di quel giro. Ne fai parte. Ma moltissimi nel giro non cadono. Con un eroismo silente e non riconosciuto. I giornalisti amano narrare le perdite. Più raramente le piccole, difficili conquiste di chi resiste. E’ una via d’uscita fatta di cose normali: uno zio che ti prende a bottega, la fidanzata che ti contiene, una fabbrichetta o un bar al nero, un imbarco su una nave container trovato tramite amicizie, un impiego precario in una ditta di pulizie ottenuto dopo una campagna elettorale al servizio di tizio o caio, dei compagni da raggiungere a Verona o Reggio Emilia o Torino, tutti in una casa, tutti a co.co.co., finché dura, finché non vuoi tornare dalla ragazza, da mamma, ai tuoi luoghi; poi un nuovo lavoro in un ristorante, una stagione a Riccione o a Sorrento, un giro di prodotti per la casa da vendere porta a porta, le scale da lavare nei palazzi, il parcheggio abusivo.
Sì, è un eroismo incerto e non sempre lecito. Ma produttore di beni e servizi e non criminale. Che salva. La politica ne dovrebbe fare il centro delle sue attenzioni. E sostenerne lo sviluppo legale, l’intreccio con nuove opportunità formative, le implicite potenzialità di impresa sana. Con la repressione vera del malaffare. E la contestuale promozione di un esercito competente di agenti di sviluppo locale e civile. E, parrà strano: è un esercito che già c’è e che è in campo. Ma che è fiaccato. Basti pensare ai tanti lacci e impedimenti per supportare i nidi di mamme nei Quartieri o per dare un po’ di continuità ai percorsi formativi per adolescenti o sedi degne di questo nome a chi lì si danna ogni giorno o gli stipendi certi agli operatori. Le politiche non possono essere a misura dei ritmi e degli equilibri di palazzo o dei tempi degli uffici ma al ritmo di vita reale delle persone. Che, spesso giovanissime, conducono una vita dura e onesta mentre gli si spara attorno la domenica mattina.
Ho scritto l'articolo che segue per Repubblica Napoli del 25 settembre, dopo la ennesima sparatoria di strada nel mio quartiere.
L’altro ieri due persone hanno sparato con una 7.65 e una calibro 9 e ferito di striscio in pieno giorno Francesca, una ragazza del mio quartiere. All’altezza del bimbo che spesso porta per mano. Ma che per un caso non era con lei. Era già successo che sparassero di domenica così. Avevo sentito i colpi secchi dal mio balcone meno di un mese fa.
Riprende, pericolosa, la guerra tra bande al centro della nostra città. E entra nel nostro dì di festa. E tutto intorno a questa guerra, dichiarata e strisciante - che si è preparata nelle nuove spartizioni di camorra, che si è nutrita dei mercati delle droghe, del controllo su mille commerci, del voto di scambio – c’è un più largo, diffuso modo di fare, pronto alla violenza, che porta la nostra vita quotidiana ad accettare ciò che non dovrebbe.
La scena non l’ho vista. Ma chiunque abita nei quartieri la sa immaginare. Si torna dal passeggio in villa per la domenica ecologica. Magari con i bambini, i pattini, la bici, il pallone. Si sale verso casa. C’è il pranzo della domenica e c’è il Napoli in tv che finalmente sa giocare a calcio. Passano in motorino due ragazzi. Veloci. Non pensi neanche che stanno per sparare, magari solo per dare un segnale o per sfregio. Siamo abituati o, per meglio dire, assuefatti allo sfrecciare incosciente delle moto. Eppure dà sempre un po’ fastidio questo tagliare, oltraggioso, le curve dei vicoli con un veicolo usato come arma impropria. Perché è un luogo dove si vive in tanti, il mio quartiere, il tuo quartiere. E ci appartiene e noi vi apparteniamo: insegnanti, commercianti, operai, artigiani, gente che, in assoluta maggioranza, vive di onesto lavoro. Faticosamente. E perché corrono di domenica mattina, incuranti dell’anziana che fatica a salire per il vicolo, del venditore che sbaracca il banco dei frutti di mare o del pane fresco, del bimbo che attraversa, della signora che si è fermata distratta proprio sull’angolo dove svoltano. Ma siamo abituati, appunto. Neanche più gli gridiamo dietro. E non solo perché capita ogni giorno, molte volte. Ma perché potrebbero essere anche imbottiti di coca, arrabbiati per fatti loro, magari armati. Meglio lasciare correre… Una volta ho riconosciuto un ragazzo che correva così. Era una sera prima di Natale. Tanta gente per strada. E gli ho gridato. Mi si è avvicinato. Con uno sguardo disposto a tutto, che non ricordavo avesse mai avuto. Ma mi ha riconosciuto. Mi ha stretto con tutta la forza che aveva pur di arginare la voglia di aggredire. E se ne è andato. Sono ragazzi che cadono dentro a un giro perché è lì dinanzi e offre loro un’identità e un mondo. E se ci cadi, il giro è il giro. Cambi i tuoi modi. E prendi i ritmi, pronunci le parole, segui le regole e sei spinto ai comportamenti, alle reazioni, alle pattuizioni e agli impegni di quel giro. Ne fai parte. Ma moltissimi nel giro non cadono. Con un eroismo silente e non riconosciuto. I giornalisti amano narrare le perdite. Più raramente le piccole, difficili conquiste di chi resiste. E’ una via d’uscita fatta di cose normali: uno zio che ti prende a bottega, la fidanzata che ti contiene, una fabbrichetta o un bar al nero, un imbarco su una nave container trovato tramite amicizie, un impiego precario in una ditta di pulizie ottenuto dopo una campagna elettorale al servizio di tizio o caio, dei compagni da raggiungere a Verona o Reggio Emilia o Torino, tutti in una casa, tutti a co.co.co., finché dura, finché non vuoi tornare dalla ragazza, da mamma, ai tuoi luoghi; poi un nuovo lavoro in un ristorante, una stagione a Riccione o a Sorrento, un giro di prodotti per la casa da vendere porta a porta, le scale da lavare nei palazzi, il parcheggio abusivo.
Sì, è un eroismo incerto e non sempre lecito. Ma produttore di beni e servizi e non criminale. Che salva. La politica ne dovrebbe fare il centro delle sue attenzioni. E sostenerne lo sviluppo legale, l’intreccio con nuove opportunità formative, le implicite potenzialità di impresa sana. Con la repressione vera del malaffare. E la contestuale promozione di un esercito competente di agenti di sviluppo locale e civile. E, parrà strano: è un esercito che già c’è e che è in campo. Ma che è fiaccato. Basti pensare ai tanti lacci e impedimenti per supportare i nidi di mamme nei Quartieri o per dare un po’ di continuità ai percorsi formativi per adolescenti o sedi degne di questo nome a chi lì si danna ogni giorno o gli stipendi certi agli operatori. Le politiche non possono essere a misura dei ritmi e degli equilibri di palazzo o dei tempi degli uffici ma al ritmo di vita reale delle persone. Che, spesso giovanissime, conducono una vita dura e onesta mentre gli si spara attorno la domenica mattina.
26 settembre, 2007
Le porte del saloon
Cos’è politica? Ho già citato, dal punto di vista della funzione dei partiti, l’articolo 49 della Costituzione. Ma la discussione da tempo – e anche nei commenti qui – è più larga. Si incentra sul rapporto tra partecipazione reale e rappresentanza. E sulla constatazione della ormai tragica separazione della politica dalla società e dalla cittadinanza intesa in senso pieno. E’ una separazione che ha una lunga storia. Nel campo del centro-sinistra è una storia sempre più triste e allarmante di “partecipazione alla casta”, in concorso e in competizione con il centro-destra. Ed è anche la storia di tante occasioni mancate di ascoltare, aprirsi, modificarsi, lasciare entrare forze nuove, avvicinarsi a pratiche deliberative e partecipative più varie, autentiche. “La politica è un’altra cosa” – si è sostanzialmente risposto così. Una cosa separata. Con lessico, metodiche, personale, stili, ritmi, interessi suoi propri – codificati entro uno specialismo chiuso - e da difendere e consolidare ogni volta.
Occasioni mancate e negate, che ci accompagnano da molto tempo e che giungono ora fino a Grillo. Grillo è sintomo e al contempo risposta. Arriva come una febbre dopo che le cure sono state da anni negate. Non è il rimedio. Anche perché sta nel solco del sovversivismo italico: affidamento a un capo, fastidio per la complessità e per le procedure democratiche, predilezione per gli slogan e per l’essere contro piuttosto che per le proposte. Ma il male – sono d’accordo – non è Grillo ma chi lo ha creato negando alla politica ogni dignità democratica per troppo tempo.
Il quesito è: basta Grillo? Perché se basta, allora la questione è risolta. Personalmente non credo, appunto, che basti. Si tratta di una indignazione, una cosa che è valida come pre-condizione ma non come condizione per ricostruire la politica. Bisogna, invece - con Grillo, col Pd, con molto altro ancora – riaprire la porta tra politica e società, forzarla. E, anzi, fare di più: sostituirla con qualcosa che assomigli alle porte dei saloon attraverso le quali si entra e si esce facilmente e non sempre come desidera il padrone del saloon. Se non si imprime una radicale accelerazione al processo di rigenerazione della politica in questa direzione, l’antipolitica è certamente destinata a crescere e rapidamente. E’ per questo che mi batto per un drastico mutamento di approccio, ben oltre la vicenda – che mi coinvolge, per quel che vale – nella costituzione del Pd.
Ben oltre. Ci vuole un mutamento di approccio radicale nel rapporto tra partiti e cittadini e società. Un mutamento - inteso come processo aperto, vario, non già controllato e guidato - che ridia piena forza ai tanti modi della azione e della riflessione pubblica (nel Pd, nella cosa di sinistra, nei sindacati, nelle istituzioni nazionali e locali, nei processi decisionali diffusi ecc.).
Insomma, per me il 14 ottobre è un’ennesima occasione per spingere in questa direzione. Democratica. In un Paese che è bloccato, stretto tra disillusione, fastidio per ogni politica, appartenenza separata alla stessa politica.
Il cammino, iniziato ventuno mesi fa - quando a Napoli annunciarono le primarie per sindaco a cui diedi la mia adesione ma che poi vennero annullate - è ancora solo agli inizi. E - lo ripeto - sarà una battaglia lunga e ardua.
E chiedo il voto il 14 ottobre per proseguire, insieme a altri, dentro o fuori il Pd, questa battaglia.
Occasioni mancate e negate, che ci accompagnano da molto tempo e che giungono ora fino a Grillo. Grillo è sintomo e al contempo risposta. Arriva come una febbre dopo che le cure sono state da anni negate. Non è il rimedio. Anche perché sta nel solco del sovversivismo italico: affidamento a un capo, fastidio per la complessità e per le procedure democratiche, predilezione per gli slogan e per l’essere contro piuttosto che per le proposte. Ma il male – sono d’accordo – non è Grillo ma chi lo ha creato negando alla politica ogni dignità democratica per troppo tempo.
Il quesito è: basta Grillo? Perché se basta, allora la questione è risolta. Personalmente non credo, appunto, che basti. Si tratta di una indignazione, una cosa che è valida come pre-condizione ma non come condizione per ricostruire la politica. Bisogna, invece - con Grillo, col Pd, con molto altro ancora – riaprire la porta tra politica e società, forzarla. E, anzi, fare di più: sostituirla con qualcosa che assomigli alle porte dei saloon attraverso le quali si entra e si esce facilmente e non sempre come desidera il padrone del saloon. Se non si imprime una radicale accelerazione al processo di rigenerazione della politica in questa direzione, l’antipolitica è certamente destinata a crescere e rapidamente. E’ per questo che mi batto per un drastico mutamento di approccio, ben oltre la vicenda – che mi coinvolge, per quel che vale – nella costituzione del Pd.
Ben oltre. Ci vuole un mutamento di approccio radicale nel rapporto tra partiti e cittadini e società. Un mutamento - inteso come processo aperto, vario, non già controllato e guidato - che ridia piena forza ai tanti modi della azione e della riflessione pubblica (nel Pd, nella cosa di sinistra, nei sindacati, nelle istituzioni nazionali e locali, nei processi decisionali diffusi ecc.).
Insomma, per me il 14 ottobre è un’ennesima occasione per spingere in questa direzione. Democratica. In un Paese che è bloccato, stretto tra disillusione, fastidio per ogni politica, appartenenza separata alla stessa politica.
Il cammino, iniziato ventuno mesi fa - quando a Napoli annunciarono le primarie per sindaco a cui diedi la mia adesione ma che poi vennero annullate - è ancora solo agli inizi. E - lo ripeto - sarà una battaglia lunga e ardua.
E chiedo il voto il 14 ottobre per proseguire, insieme a altri, dentro o fuori il Pd, questa battaglia.
23 settembre, 2007
Difficile ma da provare: cambiare la politica
Si fa quel che si può - dice Norberto (#). So che ha ragione e lo ringrazio per le lenti, spesso argute e sempre spiritose, che mi ha prestato più volte per guardare le vicende di questi giorni. Le mie non sono pessime. Ma da sole non bastano. Mi piacerebbe che in tanti ci prestassimo lenti. Per cambiare la politica, facendo, appunto, quel che si può. La politica dovrebbe e potrebbe essere anche questo scambio.
Ormai sono in gioco. Sono candidato capolista per Bindi nel collegio Napoli - Arenella. E darò battaglia.
Ecco alcune cose che penso:
1 – Non sono mai stato iscritto a un partito e non mi iscriverò al Pd se non mi convincerà quando esce da questa fase costituente. Ma per quanto difficile ora è un momento in cui è bene provare a cambiare la politica. E questo implica un impegno diretto. E’ questo che sto facendo. Non aspiro a cooptazioni e, caro Adriano Celentano (#), questo tentativo non è antitetico alle molte forme di attivizzazione e alle azioni partecipative tipo D.I.; non penso in termini o/o ma piuttosto e/e. E’ una storia difficile e che si ripete: fare politica fuori dai partiti e provocarne anche i mutamenti. Sto in un terreno di mezzo, voglio esplorarlo e confrontarmi su questo.
2 – La questione qui da noi è molto chiara, è quella che ho ripetuto più volte: il Pd non deve essere come quello che ha governato la Campania negli ultimi tredici anni. Punto.
3 - C’è, al contempo, in Italia, da fare una seria, aperta battaglia contro la tenaglia che ci sta stringendo e che vede da un lato la casta e dall’altra la demagogia. Concordo con Nazarin (#) che la prima responsabilità per l’anti-politica la hanno i partiti - l’ho scritto ieri l’altro su la Repubblica Napoli (in questa pagina, dove è in ordine cronologico al 22 set) citando la Costituzione e constatando quanto i partiti sono distanti da quello spirito e quanto sono stati affossatori di innovazioni. Ma se la casta nutre l’antipolitica, poi, è pur vero che il “sovversivismo della piccola borghesia” è, in forme sempre cangianti, la malattia anti-liberale dell’Italietta di ieri e di oggi che si nutre, caro Franco (#), di alcune costanti: facili slogan, riduzione della complessità, odio per le procedure democratiche sia rappresentative che deliberative, affidamento a un capo.
3 – Sto con Bindi perché vuole contrastare più degli altri la deriva della odierna politica-partitica, pensa in termini di inclusione sociale ed è la più innovativa e democratica dei candidati; ma so che in Campania sto in compagnia di persone che rispetto ma che certo non hanno il mio approccio, che sono, in questo, assai poco bindiane, che non pensano affatto che ci voglia una radicale discontinuità con il governo che il centro-sinistra ha qui espresso; e dunque la fatica sarà maggiore.
4 – Sono in buona sostanza d’accordo con la linea proposta da Giovanna (#): dovrò - con la lista Bindi - essere un megafono dell'agenda delle grandi tematiche che abbiamo faticosamente snocciolato in occasione delle ultime elezioni napoletane a Napoli e in Campania e trovare tracce comuni anche altrove nel Sud.
5 – Dunque la mia agenda deve subito tornare sui contenuti: camorra, rifiuti, sviluppo mancato e esclusione sociale di massa, assenza di spazio pubblico democratico.
Nella foto Aung San Suu Kyi, una persona che ha impegnato la propria vita per cambiare la politica del suo paese. E' bene tenere allenato il senso delle proporzioni.
Ormai sono in gioco. Sono candidato capolista per Bindi nel collegio Napoli - Arenella. E darò battaglia.
Ecco alcune cose che penso:
1 – Non sono mai stato iscritto a un partito e non mi iscriverò al Pd se non mi convincerà quando esce da questa fase costituente. Ma per quanto difficile ora è un momento in cui è bene provare a cambiare la politica. E questo implica un impegno diretto. E’ questo che sto facendo. Non aspiro a cooptazioni e, caro Adriano Celentano (#), questo tentativo non è antitetico alle molte forme di attivizzazione e alle azioni partecipative tipo D.I.; non penso in termini o/o ma piuttosto e/e. E’ una storia difficile e che si ripete: fare politica fuori dai partiti e provocarne anche i mutamenti. Sto in un terreno di mezzo, voglio esplorarlo e confrontarmi su questo.
2 – La questione qui da noi è molto chiara, è quella che ho ripetuto più volte: il Pd non deve essere come quello che ha governato la Campania negli ultimi tredici anni. Punto.
3 - C’è, al contempo, in Italia, da fare una seria, aperta battaglia contro la tenaglia che ci sta stringendo e che vede da un lato la casta e dall’altra la demagogia. Concordo con Nazarin (#) che la prima responsabilità per l’anti-politica la hanno i partiti - l’ho scritto ieri l’altro su la Repubblica Napoli (in questa pagina, dove è in ordine cronologico al 22 set) citando la Costituzione e constatando quanto i partiti sono distanti da quello spirito e quanto sono stati affossatori di innovazioni. Ma se la casta nutre l’antipolitica, poi, è pur vero che il “sovversivismo della piccola borghesia” è, in forme sempre cangianti, la malattia anti-liberale dell’Italietta di ieri e di oggi che si nutre, caro Franco (#), di alcune costanti: facili slogan, riduzione della complessità, odio per le procedure democratiche sia rappresentative che deliberative, affidamento a un capo.
3 – Sto con Bindi perché vuole contrastare più degli altri la deriva della odierna politica-partitica, pensa in termini di inclusione sociale ed è la più innovativa e democratica dei candidati; ma so che in Campania sto in compagnia di persone che rispetto ma che certo non hanno il mio approccio, che sono, in questo, assai poco bindiane, che non pensano affatto che ci voglia una radicale discontinuità con il governo che il centro-sinistra ha qui espresso; e dunque la fatica sarà maggiore.
4 – Sono in buona sostanza d’accordo con la linea proposta da Giovanna (#): dovrò - con la lista Bindi - essere un megafono dell'agenda delle grandi tematiche che abbiamo faticosamente snocciolato in occasione delle ultime elezioni napoletane a Napoli e in Campania e trovare tracce comuni anche altrove nel Sud.
5 – Dunque la mia agenda deve subito tornare sui contenuti: camorra, rifiuti, sviluppo mancato e esclusione sociale di massa, assenza di spazio pubblico democratico.
Nella foto Aung San Suu Kyi, una persona che ha impegnato la propria vita per cambiare la politica del suo paese. E' bene tenere allenato il senso delle proporzioni.
19 settembre, 2007
Concorrere con metodo democratico?
Fa bene Paul Ginsborg a dire che il movimento dei girotondi era stato troppo buono. Perché lo era stato. Cercava il dialogo appena dietro un po’ di conflitto. Certo, c’era Berlusconi al governo. Ci si metteva d’accordo per amor di patria. Qualche lista civica seria – a Firenze – l’ha fatta quel movimento. E’ stata strapazzata.
Adesso quasi tutte le nomenclature di partito attaccano la società in quanto tale, senza ombra di distinzioni. A difesa della politica così com’è. Il presidente del consiglio in testa. Brutta storia. Non c’è alcuna prudenza. Che sarebbe auspicabile. Bertinotti difende pure i 200 euro dati ai deputati per l’aumento della vita. Roba da matti. Prestando così il fianco al crescente delirio di Grillo, il nuovo diciannovista. Viene attaccato tutto quel che non è stato sotto il diretto controllo degli apparati di partito. E ciò fornisce benzina alla demagogia dall’altra parte. Siamo tra incudine e martello. E né l’una né l’altra cosa mi sembrano ispirate all’articolo 49 della Costituzione: “Tutti i cittadini hanno il diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale.”
E Napolitano? Il presidente è troppo attempato per capire che l’esasperazione deriva in gran misura dalla incontenuta follia della politica di casta in questo decennio e, al contempo, è troppo sapiente per non annusare pericoli veri.
Ma ancora una volta esce dal solco delle sue competenze per commentare tutto in presa diretta. Troppa fretta. E perde un’occasione di autorevolezza. Che servirebbe. E che servirà.
Si deve rompere l’accerchiamento. Provare qualcosa che vada nella direzione del testo della Costituzione. Perciò ripeto quel che vado dicendo. Questa fase costituente del PD, per quanto non è come noi la volevamo, è forse l’ultima sponda per provare a mettere insieme l’idea costruttiva di politica e i cittadini, la rappresentanza e la effettiva spinta partecipativa. E su tale crinale Rosy Bindi tiene meglio.
Ma c’è bisogno di maggiore conflittualità verso la politica. In particolare in Campania. Subito. Perché noi viviamo la forma estrema di tutto questo.
Perciò voglio fare una battaglia aperta.
E presentarmi in un collegio contro De Mita o Sassolino, dove si possa esprimere in modo diretto, chiaro, evidente che ci sono due modi di intendere questo PD: uno è quello che sta davanti agli occhi e l’altro, difficile, è quello partecipativo, costitutivo di proposte per migliorare la vita quotidiana, apertamente agli antipodi di una politica fondata solo sul controllo di potere.
Candidarsi per dire questo, renderlo ancor più visibile. Oppure trarre le conseguenze della situazione e non presentarsi. Semplicemente.
Un po’ di radicalità ci vuole. Non si può essere troppo buoni, appunto.
Ma per quanto riguarda il domani temo che saremo davvero stretti tra due mali: una ulteriore sclerosi auto-referenziale dei partiti, che sempre più tradiscono la funzione che la Costituzione attribuisce loro e la crescita del populismo e dei caudillo di turno, quali che siano. In fondo Berlusconi lo abbiamo avuto. E non siamo certi di non riaverlo o di dover subire qualcos’altro. E sarà dura scegliere tra rincorrere gli apparati della casta e cercare di moderare le escandescenze populiste. Molto dura.
17 settembre, 2007
Il diciannovismo e il patrimonio di Decidiamo insieme
Ringrazio Norberto Gallo per la bella lettera aperta. Dove mi propone di salvare il patrimonio comune di Decidiamo Insieme e di questo anno e passa di faticose battaglie e riflessioni candidandomi contro Bassolino o Iervolino o De Mita nei collegi da loro scelti. Perché altrimenti getto via una speranza. Perché così non si fa nessun Pd e non si affronta - anzi! - la crisi a Napoli e in Campania.
Poi mi guardo in giro e vedo sempre di più che qualcosa si muove fuori dal giro dei partiti. La gente non ne può più.
E ieri Beppe Grillo ha dichiarato che certifica lui le liste civiche future. A che titolo? Noi abbiamo fatto, insieme, una lista civica. Noi non avevamo un duce che diceva se era buona o no. Abbiamo aperto uno spazio sul programma e sui nomi.
Una volta quel modo di fare si chiamava diciannovismo. Bellissime le pagine di Salvemini su ciò. Il sovversivismo della piccola borghesia. Eterno in Italia. E che è l’opposto della deliberazione partecipativa che si affianca alla rappresentanza.
Ma poi hanno anche molte ragioni i grillini e altri. Perché non se ne può davvero più. Ecco il punto. E la politica-politica non pare avere più la cultura, l’autorevolezza, il coraggio e le proposte per uscirne. Bindi, in verità, aveva risposto assai bene a Grillo in una intervista a Repubblica. E anche Bertinotti (a me non sempre simpatico) non aveva detto male. Tagliare subito i privilegi. Rendere rigorosa la politica. Ricambiare ora. Aumentare la partecipazione.
A chi spetta questa battaglia? Spetta a altri da noi? Chi? Quando? La gente fatta come noi sta in campo? Come? O resta sull'Aventino? O aderisce al diciannovismo? O prova a piegarlo in senso meno demagogico?
Questa questione crescerà.
Ritorno alla proposta di Norberto. Sì. Una sfida propositiva su un altro modo di fare politica e di intendere anche il Pd qui a Napoli e in Campania va lanciata. Ora. E se lo si fa candidandosi in collegi dove ci sono i big, francamente, è faticoso e rischioso… ma in fondo perché no?
Domanda a Norberto, a me stesso e “da open space”, per discuterne: dove, a chi, come lanciare il guanto di questo genere di sfida?
Poi mi guardo in giro e vedo sempre di più che qualcosa si muove fuori dal giro dei partiti. La gente non ne può più.
E ieri Beppe Grillo ha dichiarato che certifica lui le liste civiche future. A che titolo? Noi abbiamo fatto, insieme, una lista civica. Noi non avevamo un duce che diceva se era buona o no. Abbiamo aperto uno spazio sul programma e sui nomi.
Una volta quel modo di fare si chiamava diciannovismo. Bellissime le pagine di Salvemini su ciò. Il sovversivismo della piccola borghesia. Eterno in Italia. E che è l’opposto della deliberazione partecipativa che si affianca alla rappresentanza.
Ma poi hanno anche molte ragioni i grillini e altri. Perché non se ne può davvero più. Ecco il punto. E la politica-politica non pare avere più la cultura, l’autorevolezza, il coraggio e le proposte per uscirne. Bindi, in verità, aveva risposto assai bene a Grillo in una intervista a Repubblica. E anche Bertinotti (a me non sempre simpatico) non aveva detto male. Tagliare subito i privilegi. Rendere rigorosa la politica. Ricambiare ora. Aumentare la partecipazione.
A chi spetta questa battaglia? Spetta a altri da noi? Chi? Quando? La gente fatta come noi sta in campo? Come? O resta sull'Aventino? O aderisce al diciannovismo? O prova a piegarlo in senso meno demagogico?
Questa questione crescerà.
Ritorno alla proposta di Norberto. Sì. Una sfida propositiva su un altro modo di fare politica e di intendere anche il Pd qui a Napoli e in Campania va lanciata. Ora. E se lo si fa candidandosi in collegi dove ci sono i big, francamente, è faticoso e rischioso… ma in fondo perché no?
Domanda a Norberto, a me stesso e “da open space”, per discuterne: dove, a chi, come lanciare il guanto di questo genere di sfida?
16 settembre, 2007
Ben altro
Alla fine, con tutti i dubbi e i contorcimenti che condivido con tante persone a cui non piace la politica così com’è, si andrà a votare per la costituente del Pd. Persone, proposte, attivizzazioni le più varie e differenti, idee intorno a un nuovo soggetto politico saranno messe in campo. Il movimento intorno a come si fa il Pd, con tutti i suoi difetti d’origine e non, comunque sarà un moto, molto presente sui media e soprattutto nelle menti di tante ottime persone, su cosa può o potrebbe essere la politica, l’avvicinarsi di cittadini e decisioni collettive. Il Pd non è né sarà forse l’unica cosa in giro che farà questo. E non è detto che ci riesca affatto. Ma muta così poco e raramente in Italia. Per questo ho sostenuto il Pd come ipotesi già venti mesi fa. Non perché sia perfetto o ottimo. E in attenta attesa di altri auspicabili rinnovamenti – compresa la cosa di sinistra o la costruzione di moti dal basso che siano dirompenti ma anche un po’ propositivi, intanto c’è il Pd.
E nel Pd la posizione di Rosy Bindi è quella nettamente più vicina a un effettivo rinnovamento nel metodo, nel lessico, molto attenta a non slittare verso il neo-centrismo, che guarda a chi è socialmente escluso e a una modernizzazione che non sia solo per chi già sta bene.
Ora, però, a Napoli c’è davvero una smaccata smentita di ogni idea di Pd nuova e promettente. E’ uno spettacolo miserrimo. Come ho detto, scritto e ripetuto tante volte. Questi candidati a segretario regionale, il come se ne è discusso e deciso, l’asse bassolino- De Mita in sella come sempre e nonostante tutto, sempre diviso tra unità e competizione ma solo intorno al controllo, al dominio. E poi: l’assenza, così imposta a tutti, dei temi-chiave per la città e la regione che sono invivibili, mal governati da anni proprio da chi formerà il Pd. E nessun confronto di merito, il ritorno dei signori delle tessere e delle clientele, tutti in campo a sostegno di questa o quello cordata: insopportabile.
Una roba che allontana.
Che fare?
Andarsene, fuggir via? Sostenere la Bindi per le sue posizioni nazionali ma non battersi dicendo cosa non va e da dove cominciare qui proprio qui?
Oppure stare nel processo per il Pd e sostenere la Bindi ma dire – e dire forte, esplicito e chiaro a lor signori campani – che così proprio non va, che così non sarà proprio partito democratico qui da noi. E proporre alcune cose dirimenti e avviare, di nuovo, una battaglia dura, lunga, difficile. Dagli esiti assai incerti e non a portata di mano. Per altro, ben altro.
Faticoso.
(In foto l'altro Ben, quello che qui non è.)
E nel Pd la posizione di Rosy Bindi è quella nettamente più vicina a un effettivo rinnovamento nel metodo, nel lessico, molto attenta a non slittare verso il neo-centrismo, che guarda a chi è socialmente escluso e a una modernizzazione che non sia solo per chi già sta bene.
Ora, però, a Napoli c’è davvero una smaccata smentita di ogni idea di Pd nuova e promettente. E’ uno spettacolo miserrimo. Come ho detto, scritto e ripetuto tante volte. Questi candidati a segretario regionale, il come se ne è discusso e deciso, l’asse bassolino- De Mita in sella come sempre e nonostante tutto, sempre diviso tra unità e competizione ma solo intorno al controllo, al dominio. E poi: l’assenza, così imposta a tutti, dei temi-chiave per la città e la regione che sono invivibili, mal governati da anni proprio da chi formerà il Pd. E nessun confronto di merito, il ritorno dei signori delle tessere e delle clientele, tutti in campo a sostegno di questa o quello cordata: insopportabile.
Una roba che allontana.
Che fare?
Andarsene, fuggir via? Sostenere la Bindi per le sue posizioni nazionali ma non battersi dicendo cosa non va e da dove cominciare qui proprio qui?
Oppure stare nel processo per il Pd e sostenere la Bindi ma dire – e dire forte, esplicito e chiaro a lor signori campani – che così proprio non va, che così non sarà proprio partito democratico qui da noi. E proporre alcune cose dirimenti e avviare, di nuovo, una battaglia dura, lunga, difficile. Dagli esiti assai incerti e non a portata di mano. Per altro, ben altro.
Faticoso.
(In foto l'altro Ben, quello che qui non è.)
11 settembre, 2007
Battagliero pessimismo
Cara Lunanera, anche io ero per la storia ciclica e ricorrente, mi sono battuto, ho perso su ciò. Franco, certo che conosco quel testo di Benjamin. Le scuole del mondo vivono di cose effettive, vive; a volte buone altre no. E hanno anche bisogno di programmi… che non determinano, certo. Ma aiutano. E se sono accettabili o pessimi non è indifferente. E poi ognuno ha il suo mestiere e si affeziona al lavoro ben fatto anche se sempre ce ne è di migliore, com’è in ogni procedura artigianale… di cui la vita è fatta.
Molti per strada mi fermano e chiedono del PD. Quello che penso – in senso battagliero ma pessimista - della sfiancante fatica per provare a far diventare un po’ vero il PD lo ho scritto su Repubblica di Napoli di domenica 9 e lo propongo di nuovo qui sotto.
Intanto, a 36 ore dalla scadenza ultima, in Campania continua la rissa sui candidati segretario fatta solo di nomi legati a vecchi (Bassolino e De Mita) e nuovi potentati (ne parla Macry, più in fondo a questa rassegna sul tema curata da d.l.) senza mai una sola parola su metodo, contesto, bilancio politico delle esperienze, proposte, merito delle cose. Insopportabile.
Ho molto apprezzato la posizione di Bindi sul V day di Grillo e sui lavavetri. E’ l’unica che parla al mondo e del mondo. La sosterrò col voto. Invito a votarla. Se mi candido o meno nelle sue liste nazionali si vedrà.
Spero che la lista Bindi in Campania riesca a proporre un candidato per segretario regionale – meglio sarebbe una candidata (almeno una donna in Campania). Per ora vedo un’organizzazione ancora debole. Il suo profilo? Donna, appunto, che sia fuori dai palazzi, chiaramente laica, nota perché sa fare qualcosa nella vita oltre al bla bla della politica-politica, capace di pensare da sola, ascoltare molto, garantire a tutti una fase costituente.
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La stancante schermaglia sui nomi
di Marco Rossi-Doria
Il partito democratico dichiara in ogni occasione che vuole nascere in modo “aperto”. E i suoi promotori lo spiegano dicendo di voler favorire un processo e non chiedere una semplice adesione a qualcosa di già confezionato. Ma la domanda che spesso viene loro rivolta - a volte con autentica curiosità e buona disposizione e altre volte con scetticismo o una certa distanza - è: “aperto a chi”? E la risposta che si sente dalla voce dei promotori, Ds e Margherita, nazionali e locali, suona troppo spesso letteralmente così: “Aperto ai cittadini, anche a chi non è mai stato iscritto a un partito o non vi è più iscritto da tempo”.
A chi riceve questa risposta – e che si trova esattamente nella posizione da essa indicata – viene ogni volta da soffermarsi sulla parola “anche” sulla quale, peraltro, spesso insiste la voce. Perché ha un valore più aggiuntivo che connotativo di piena appartenenza a un processo. “Aperto anche”… “alla festa, al campeggio, alla riunione puoi venire anche tu”. Non suona bene questo anche. Se davvero si vuole un processo aperto. E parlando con tanti mi sono accorto quanto sia diffusa tale sensazione, non gradevole. E quanto crei diffidenza e allontani.
“Ma a chi è aperto questo Pd, in concreto?” – ho visto chiedere da una ragazza impegnata nel mio quartiere a un giovane esponente di partito. E la risposta mi ha colpito per la sua articolazione: “Ai giovani. Alle persone che per anni hanno interpretato la parola ‘politica´ come altro dalla frequenza dei luoghi della politica comunemente intesa. A chi lavora nel sociale o fa volontariato. A chi interpreta le funzioni pubbliche con spirito di servizio. Ai tecnici, a chi è impegnato nella cultura o a scuola o nelle professioni. A tutti”. Ascoltavo. E la risposta mi è parsa convincente. Ma non così alla ragazza, che pure sosteneva l´Ulivo.
Molte altre volte mi capitano scene simili. Perché avviene ciò? Forse almeno per due ragioni. In primo luogo perché le persone che non sono di partito sono attratte solo a condizione che siano garantite e curate l´accoglienza autentica, l´ascolto, il non dover rispondere a prospettive e decisioni pre-confezionate e poi le procedure, tali da includere persone nuove. E ancora: il metodo, lo stile, il linguaggio, che devono bandire gli stereotipi da ceto politico e ritornare alle cose da fare, alla soluzione dei problemi propri della vita comune, ricercate insieme ai cittadini. Questo è un processo aperto. Altrimenti il partito non è democratico perché non è offerto a tutti ma solo a chi c´è già, magari con l´aggiunta di qualche cooptazione. Per esempio, se – come si dice - si tratta di un processo in cui si vota per mandare a una convenzione nazionale delle persone che scriveranno statuto e programma del nuovo partito, perché si devono chiedere 5 euro e non 1? Infatti non ci si sta iscrivendo già al partito. Che non c´è ancora. Che non ha ancora una ragione sociale codificata. Ma al processo, appunto. E perché l´elezione dei delegati deve avvenire su liste bloccate la cui formazione non è regolata da una procedura partecipativa che preveda l´esposizione di posizioni, sensibilità, storie e competenze delle persone che chiedono la delega? Non assomiglia questo alla nefasta legge elettorale?
In secondo luogo, in Campania e a Napoli, persiste una questione che non può più essere elusa né rimandata a un dopo che non viene mai. Se si vuole aprire a tutti la costruzione di un partito nuovo con l´ambizione di governare questo nostro territorio, allora deve essere garantita a tutti, anche a chi è lontano dai circuiti interni e limitrofi ai partiti, di poter davvero partecipare finalmente a una discussione sul bilancio di questi dieci anni di governo di centrosinistra: cosa è andato male nel metodo e nel merito per produrre la crisi civile che viviamo e quali sono le condizioni per cambiare. Questa discussione – franca, argomentata e aperta - dovrebbe avvenire prima dell´elezione di un segretario regionale. Perché il suo stesso profilo personale e ogni suo compito futuro ne dipende. Com´è del tutto evidente. Certo non aiuta l´elezione contemporanea del segretario nazionale e di quello regionale. Ma il personale politico nostrano ci mette tutto il suo nell´esasperare la tendenza a dedicarsi solo all´asfittica rissa su nomi e schieramenti o su segrete mediazioni nel chiuso dei palazzi. In fondo è solo questo che vediamo da settimane. Per chi vuole davvero un processo aperto che avvicini società e politica è una battaglia davvero dura.
Molti per strada mi fermano e chiedono del PD. Quello che penso – in senso battagliero ma pessimista - della sfiancante fatica per provare a far diventare un po’ vero il PD lo ho scritto su Repubblica di Napoli di domenica 9 e lo propongo di nuovo qui sotto.
Intanto, a 36 ore dalla scadenza ultima, in Campania continua la rissa sui candidati segretario fatta solo di nomi legati a vecchi (Bassolino e De Mita) e nuovi potentati (ne parla Macry, più in fondo a questa rassegna sul tema curata da d.l.) senza mai una sola parola su metodo, contesto, bilancio politico delle esperienze, proposte, merito delle cose. Insopportabile.
Ho molto apprezzato la posizione di Bindi sul V day di Grillo e sui lavavetri. E’ l’unica che parla al mondo e del mondo. La sosterrò col voto. Invito a votarla. Se mi candido o meno nelle sue liste nazionali si vedrà.
Spero che la lista Bindi in Campania riesca a proporre un candidato per segretario regionale – meglio sarebbe una candidata (almeno una donna in Campania). Per ora vedo un’organizzazione ancora debole. Il suo profilo? Donna, appunto, che sia fuori dai palazzi, chiaramente laica, nota perché sa fare qualcosa nella vita oltre al bla bla della politica-politica, capace di pensare da sola, ascoltare molto, garantire a tutti una fase costituente.
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La stancante schermaglia sui nomi
di Marco Rossi-Doria
Il partito democratico dichiara in ogni occasione che vuole nascere in modo “aperto”. E i suoi promotori lo spiegano dicendo di voler favorire un processo e non chiedere una semplice adesione a qualcosa di già confezionato. Ma la domanda che spesso viene loro rivolta - a volte con autentica curiosità e buona disposizione e altre volte con scetticismo o una certa distanza - è: “aperto a chi”? E la risposta che si sente dalla voce dei promotori, Ds e Margherita, nazionali e locali, suona troppo spesso letteralmente così: “Aperto ai cittadini, anche a chi non è mai stato iscritto a un partito o non vi è più iscritto da tempo”.
A chi riceve questa risposta – e che si trova esattamente nella posizione da essa indicata – viene ogni volta da soffermarsi sulla parola “anche” sulla quale, peraltro, spesso insiste la voce. Perché ha un valore più aggiuntivo che connotativo di piena appartenenza a un processo. “Aperto anche”… “alla festa, al campeggio, alla riunione puoi venire anche tu”. Non suona bene questo anche. Se davvero si vuole un processo aperto. E parlando con tanti mi sono accorto quanto sia diffusa tale sensazione, non gradevole. E quanto crei diffidenza e allontani.
“Ma a chi è aperto questo Pd, in concreto?” – ho visto chiedere da una ragazza impegnata nel mio quartiere a un giovane esponente di partito. E la risposta mi ha colpito per la sua articolazione: “Ai giovani. Alle persone che per anni hanno interpretato la parola ‘politica´ come altro dalla frequenza dei luoghi della politica comunemente intesa. A chi lavora nel sociale o fa volontariato. A chi interpreta le funzioni pubbliche con spirito di servizio. Ai tecnici, a chi è impegnato nella cultura o a scuola o nelle professioni. A tutti”. Ascoltavo. E la risposta mi è parsa convincente. Ma non così alla ragazza, che pure sosteneva l´Ulivo.
Molte altre volte mi capitano scene simili. Perché avviene ciò? Forse almeno per due ragioni. In primo luogo perché le persone che non sono di partito sono attratte solo a condizione che siano garantite e curate l´accoglienza autentica, l´ascolto, il non dover rispondere a prospettive e decisioni pre-confezionate e poi le procedure, tali da includere persone nuove. E ancora: il metodo, lo stile, il linguaggio, che devono bandire gli stereotipi da ceto politico e ritornare alle cose da fare, alla soluzione dei problemi propri della vita comune, ricercate insieme ai cittadini. Questo è un processo aperto. Altrimenti il partito non è democratico perché non è offerto a tutti ma solo a chi c´è già, magari con l´aggiunta di qualche cooptazione. Per esempio, se – come si dice - si tratta di un processo in cui si vota per mandare a una convenzione nazionale delle persone che scriveranno statuto e programma del nuovo partito, perché si devono chiedere 5 euro e non 1? Infatti non ci si sta iscrivendo già al partito. Che non c´è ancora. Che non ha ancora una ragione sociale codificata. Ma al processo, appunto. E perché l´elezione dei delegati deve avvenire su liste bloccate la cui formazione non è regolata da una procedura partecipativa che preveda l´esposizione di posizioni, sensibilità, storie e competenze delle persone che chiedono la delega? Non assomiglia questo alla nefasta legge elettorale?
In secondo luogo, in Campania e a Napoli, persiste una questione che non può più essere elusa né rimandata a un dopo che non viene mai. Se si vuole aprire a tutti la costruzione di un partito nuovo con l´ambizione di governare questo nostro territorio, allora deve essere garantita a tutti, anche a chi è lontano dai circuiti interni e limitrofi ai partiti, di poter davvero partecipare finalmente a una discussione sul bilancio di questi dieci anni di governo di centrosinistra: cosa è andato male nel metodo e nel merito per produrre la crisi civile che viviamo e quali sono le condizioni per cambiare. Questa discussione – franca, argomentata e aperta - dovrebbe avvenire prima dell´elezione di un segretario regionale. Perché il suo stesso profilo personale e ogni suo compito futuro ne dipende. Com´è del tutto evidente. Certo non aiuta l´elezione contemporanea del segretario nazionale e di quello regionale. Ma il personale politico nostrano ci mette tutto il suo nell´esasperare la tendenza a dedicarsi solo all´asfittica rissa su nomi e schieramenti o su segrete mediazioni nel chiuso dei palazzi. In fondo è solo questo che vediamo da settimane. Per chi vuole davvero un processo aperto che avvicini società e politica è una battaglia davvero dura.
06 settembre, 2007
Pubbliche riforme e personali soddisfazioni
Ieri sono stato molto contento, soddisfatto per i risultati, presentati in pubblico dal ministro e oggi sui giornali (un po’ troppo in forma di spot), di un lavoro tecnico complesso che ho condiviso quale membro della commissione nazionale che ha elaborato le indicazioni (programmi si chiamavano un tempo) della nostra scuola dell’infanzia, della scuola primaria (elementare) e della scuola media. Arriveranno a ogni docente a scuola in forma di libretto. Chi vuole può leggere le indicazioni qui.
Ho dato e soprattutto ho imparato molto dai miei compagni di viaggio in questo lavoro. Ora è cassata l’epoca Moratti. E le nostre scuole hanno programmi seri e anche belli – anche a confronto con quelli degli altri paesi d’Europa e oltre. E innovativi. Perché per la prima volta stanno insieme i programmi dai 3 ai 14 anni, pur nelle distinzioni E una maestra elementare può vedere la continuità con le medie e con la scuola d’infanzia e viceversa. Perché sono stati scritti anche con il documento su competenze e saperi fino a 16 – nuovo obbligo – a cui pure ho lavorato (che potete trovare sul sito del Vice-Ministro Bastico). Perché la commissione che li ha scritti per la prima volta non sparisce ma accompagna, insieme alle scuole, per due anni, la loro prima applicazione, recependo modifiche e miglioramenti entro un processo partecipativo a cui ora dovremo lavorare. Perché sono stati costruiti traguardi e obiettivi chiari, con lessico comprensibile su cui le scuole possono lavorare senza intrusioni dall’alto per elaborare dei curricoli veri e funzionali per i ragazzi e i bambini.
Per me è stato il miglior frutto di trentadue anni di lavoro e riflessione nella scuola pubblica.
04 settembre, 2007
A proposito di lavavetri e in difesa del benaltrismo
Il sindaco di Firenze insiste contro i lavavetri e attacca il “benaltrismo”.
Quando guido anche a me i lavavetri rompono le scatole. Ma si può dire no. Si possono, più aggressivamente, fare muovere i tergicristallo. Si può adottare un solo lavavetri e disdegnare gli altri.
E poi: potrei fare un elenco assai lungo di cose più fastidiose. Chi supera in tripla fila, per esempio. Chi corre in auto come un dannato e per mero divertimento in luoghi abitati da pedoni di ogni età.
E oltre il mondo dell'auto, penso alle paturnie che vengono per le inefficienze colpose e continue che fanno piangere dall'esasperazione vecchi, giovani e non, bambini, per diritti dichiarati ma non reali a scuola, per strada, nelle banche, negli uffici, negli ospedali, nelle stazioni. C'è qualche audace amministratore di sinistra che propone una qualche forma di tolleranza zero o uno o due per lavori stradali mal fatti e che procurano incidenti o per i caffè nelle città d’arte che costano quanto un paio di scarpe o perché oltre i 70 anni o con la gamba rotta non si riesce a salire su un tram o perché ci vogliono giorni per avere un rimborso qualsiasi pubblico o privato che sia o perché se non hai chi ti raccomanda ti operi di cancro oltre il tempo massimo o perché chi sta in sedia a rotelle non è cittadino nel 90% del nostro territorio o perché gli studenti fuorisede devono dormire in quattro in quattro metri e pagare prezzi da capogiro a benpensanti che non dichiarano affitti? Per non parlare di mafie, racket e dintorni.
E poi esistono o no le povertà? E' mai possibile che non si riesca ad aprire - da Firenze a ovunque - uno straccio di dibattito sui redditi di sussistenza. Che riguardano oltre 7 milioni di individui, italiani e stranieri, che abitano le nostre città di ogni grandezza, l'11% della popolazione, il 19% al Sud. Di cui i simil lavavetri sono lo 0,6% max. E sono per lo più i senza fissa dimora dei quali le politiche europee comunque raccomandano di occuparsi con tanto di note di indirizzo e voci dei fondi sociali. E c’è qualche indignato governante che nomina l’altro 99% dei nostri poveri che sono produttori di ricchezza ed erogatori di servizi? Ne parla con simile veemenza qualche amministratore dei nostri? Eppure non stanno bene nelle città e al nero o a contratti brevi puliscono palazzi, uffici e fabbriche e lavorano in ogni tipo di manifattura e servizi e puliscono il culo ai nostri vecchi e ai nostri pargoli e fanno i braccianti e i pescatori e fanno le bocche di rosa a milioni di italici uomini ecc., ecc.
Insomma: non è solo che ci sono ben altri reati da punire e eventi fastidiosi da reprimere. E' che c'è l'esclusione sociale e l'urgenza di un nuovo welfare da inventare. Ma evidentemente nel comune sentire dell'italietta filistea conta il fastidio per il lavavetri e non l'indignazione per la povertà. Riflettere, in modo costruttivo e non declamatorio, sull'esclusione è, infatti, la cosa più faticosa di tutte. Perché ci vuole tenace fantasia e vera invenzione e costanza nella costruzione sociale... Ci fosse un sindaco che dicesse cosa farebbe fare in vece di lavare i vetri!... cosa, come, quando, con quali fondi non assistenzialmente intesi. Lo fanno in Bengladesh dopo tutto. Ma qui no. Qui abbiamo o gli sceriffi un po' vigliacchetti che si accaniscono sugli ultimi o gli sterili denunciatori delle ingiustizie del mondo, i declamatori.
Quando guido anche a me i lavavetri rompono le scatole. Ma si può dire no. Si possono, più aggressivamente, fare muovere i tergicristallo. Si può adottare un solo lavavetri e disdegnare gli altri.
E poi: potrei fare un elenco assai lungo di cose più fastidiose. Chi supera in tripla fila, per esempio. Chi corre in auto come un dannato e per mero divertimento in luoghi abitati da pedoni di ogni età.
E oltre il mondo dell'auto, penso alle paturnie che vengono per le inefficienze colpose e continue che fanno piangere dall'esasperazione vecchi, giovani e non, bambini, per diritti dichiarati ma non reali a scuola, per strada, nelle banche, negli uffici, negli ospedali, nelle stazioni. C'è qualche audace amministratore di sinistra che propone una qualche forma di tolleranza zero o uno o due per lavori stradali mal fatti e che procurano incidenti o per i caffè nelle città d’arte che costano quanto un paio di scarpe o perché oltre i 70 anni o con la gamba rotta non si riesce a salire su un tram o perché ci vogliono giorni per avere un rimborso qualsiasi pubblico o privato che sia o perché se non hai chi ti raccomanda ti operi di cancro oltre il tempo massimo o perché chi sta in sedia a rotelle non è cittadino nel 90% del nostro territorio o perché gli studenti fuorisede devono dormire in quattro in quattro metri e pagare prezzi da capogiro a benpensanti che non dichiarano affitti? Per non parlare di mafie, racket e dintorni.
E poi esistono o no le povertà? E' mai possibile che non si riesca ad aprire - da Firenze a ovunque - uno straccio di dibattito sui redditi di sussistenza. Che riguardano oltre 7 milioni di individui, italiani e stranieri, che abitano le nostre città di ogni grandezza, l'11% della popolazione, il 19% al Sud. Di cui i simil lavavetri sono lo 0,6% max. E sono per lo più i senza fissa dimora dei quali le politiche europee comunque raccomandano di occuparsi con tanto di note di indirizzo e voci dei fondi sociali. E c’è qualche indignato governante che nomina l’altro 99% dei nostri poveri che sono produttori di ricchezza ed erogatori di servizi? Ne parla con simile veemenza qualche amministratore dei nostri? Eppure non stanno bene nelle città e al nero o a contratti brevi puliscono palazzi, uffici e fabbriche e lavorano in ogni tipo di manifattura e servizi e puliscono il culo ai nostri vecchi e ai nostri pargoli e fanno i braccianti e i pescatori e fanno le bocche di rosa a milioni di italici uomini ecc., ecc.
Insomma: non è solo che ci sono ben altri reati da punire e eventi fastidiosi da reprimere. E' che c'è l'esclusione sociale e l'urgenza di un nuovo welfare da inventare. Ma evidentemente nel comune sentire dell'italietta filistea conta il fastidio per il lavavetri e non l'indignazione per la povertà. Riflettere, in modo costruttivo e non declamatorio, sull'esclusione è, infatti, la cosa più faticosa di tutte. Perché ci vuole tenace fantasia e vera invenzione e costanza nella costruzione sociale... Ci fosse un sindaco che dicesse cosa farebbe fare in vece di lavare i vetri!... cosa, come, quando, con quali fondi non assistenzialmente intesi. Lo fanno in Bengladesh dopo tutto. Ma qui no. Qui abbiamo o gli sceriffi un po' vigliacchetti che si accaniscono sugli ultimi o gli sterili denunciatori delle ingiustizie del mondo, i declamatori.
03 settembre, 2007
Scommessa arrischiata e altre risposte
Sì Franco… è triste ed è – convengo - faticosissimo accompagnare persone care, vicine che perdono memoria… ma ogni tanto a me capita vedere, sentire delle verità forti in questo confuso smarrimento triste. E mi appaiono come frammenti poetici. Ma forse sbaglio. Lo so quel che dici su Alimuri e il resto… ma comunque penso che sia importante continuare, negli anni, a fare così le cose e intendere in tal modo la politica.
Cara Lucia, grazie per la stima che mi esprime. Francamente, anche io ho problemi con la politica e non perché avrei dovuto pretendere di più ma perché è davvero fatta male. Eppure lo spazio tra società e decisione va colmato certamente dalla costruzione di proposte partecipative dei cittadini e con i cittadini (è questa la funzione che attribuisco alla costruzione sociale in generale: dalla scuola al lavoro di quartiere, al privato sociale con e per i ragazzi esclusi all’associazione Decidiamo Insieme a tante altre cose che si fanno). Ma va fatta o no anche, in aggiunta una faticosissima azione tesa a migliorare la rappresentanza? Oltre al “se farlo” – che Lei pone, Lucia – c’è anche il “come farlo”? Questa questione esiste, è aperta o no?
Per esempio, sul suo sito – e riferendosi alla Campania – Norberto Gallo, che pure ha qui commentato, reclama una rottura netta con tutto il PD e il centro-sinistra campano. In fondo – dice – ridiamo senso all’opposizione di centro-destra, dato che vi è l’alternanza… invece di dare ossigeno a chi (centro-sinistra) ha solo espresso un terribile sistema di potere. Riconosco da tempo una grande pertinenza a questo argomento. Peccato che io di destra non sono e che la destra in Italia e in Campania non ha nulla di meglio da offrire, anzi.
Ombelicale – come Lei scrive - e ben educato e civicissimo sono stato dal 1975 al dicembre del 2005 – proprio in modo immanente e dunque intensamente politico ma ben distinto dalla politica-politica. Trentanni così. La sua età. Con gli altri che decidono al posto tuo. Senza che si possa o sappia o voglia dire bu o ba. Per una volta sola vorrei provare a fare altrimenti. Per questo – molto guardingo e disilluso, certo – vado a “vedere le carte” del PD. Perché il PD dice di volere che lo si prenda in parola. E’ una scommessa arrischiata? Probabile. Ma voglio perseguirla. Tanto è a termine. E se va male tornerò a fare quel che ho fatto finora.
E, intanto, continuerò a raccontare ogni passaggio. Tutto qui.
Cara Lucia, grazie per la stima che mi esprime. Francamente, anche io ho problemi con la politica e non perché avrei dovuto pretendere di più ma perché è davvero fatta male. Eppure lo spazio tra società e decisione va colmato certamente dalla costruzione di proposte partecipative dei cittadini e con i cittadini (è questa la funzione che attribuisco alla costruzione sociale in generale: dalla scuola al lavoro di quartiere, al privato sociale con e per i ragazzi esclusi all’associazione Decidiamo Insieme a tante altre cose che si fanno). Ma va fatta o no anche, in aggiunta una faticosissima azione tesa a migliorare la rappresentanza? Oltre al “se farlo” – che Lei pone, Lucia – c’è anche il “come farlo”? Questa questione esiste, è aperta o no?
Per esempio, sul suo sito – e riferendosi alla Campania – Norberto Gallo, che pure ha qui commentato, reclama una rottura netta con tutto il PD e il centro-sinistra campano. In fondo – dice – ridiamo senso all’opposizione di centro-destra, dato che vi è l’alternanza… invece di dare ossigeno a chi (centro-sinistra) ha solo espresso un terribile sistema di potere. Riconosco da tempo una grande pertinenza a questo argomento. Peccato che io di destra non sono e che la destra in Italia e in Campania non ha nulla di meglio da offrire, anzi.
Ombelicale – come Lei scrive - e ben educato e civicissimo sono stato dal 1975 al dicembre del 2005 – proprio in modo immanente e dunque intensamente politico ma ben distinto dalla politica-politica. Trentanni così. La sua età. Con gli altri che decidono al posto tuo. Senza che si possa o sappia o voglia dire bu o ba. Per una volta sola vorrei provare a fare altrimenti. Per questo – molto guardingo e disilluso, certo – vado a “vedere le carte” del PD. Perché il PD dice di volere che lo si prenda in parola. E’ una scommessa arrischiata? Probabile. Ma voglio perseguirla. Tanto è a termine. E se va male tornerò a fare quel che ho fatto finora.
E, intanto, continuerò a raccontare ogni passaggio. Tutto qui.
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