I risultati ufficiali delle primarie sul sito nazionale del Pd sono scandalosamente lenti. Queste lentezze purtroppo a noi campani ci ricordano la disastrosa vicenda delle nostre primarie di due anni fa, i cui risultati non arrivarono mai e mai furono riportati come ufficiali…
Comunque, i dati della provincia di Mantova ci sono. La lista della mozione di Ignazio Marino per l’assemblea nazionale del Pd – per la quale sono stato capolista - ha ottenuto 2.698 voti, pari al 13,13 %. Contro il 56,13% della lista di Bersani e il 31,75% di quella di Franceschini. La lista Marino ha preso il 14,79% nell’Alto Mantovano dove soffia forte il vento della Padania che costringe il Pd a misurarsi con le ragioni che hanno spinto verso la Lega una parte del suo elettorato. E invece ha preso tra l’11% e il 12% nelle aree “emiliane”, lì dove il PCI prendeva il 70% e i Ds comunque la maggioranza assoluta, che, però, si sta erodendo lentamente. Bersani dunque ottiene più nel Sud e meno nel Nord della provincia.
Nella città di Mantova – dove si respira una crescente critica ai vecchi modi della politica – la lista per Marino ha preso un bel 19,20% con una punta del 24% circa nel centro.
Il sistema di rappresentanza all’assemblea nazionale è proporzionale e secondo tutte le componenti si ottiene uno dei delegati a Mantova se si è oltre l’8%, per questo dovrei essere stato eletto all’assemblea che si riunirà per la prima volta il giorno 7 di novembre.
28 ottobre, 2009
27 ottobre, 2009
North Country 3
Postino che suona in una band. Psicanalista. Tecnico all’Eni che organizza i mantovani nel mondo. Antropologa. Pedagogista. Imprenditore. Rappresentante. Informatico. Altro informatico. Lavoratore in pensione e guida per passione. Gestora di un bed & breakfast. Prof. Farmacista. Sindaco. Operai di fabbrica. Muratori. Impiegati. Di famiglie contadine o cittadine o emigrate.
Persone che lavorano e fanno volontariato. All’Arci. Nel centro di lettura del quartiere. Con gli stranieri di ogni luogo del pianeta. Per mostrare le cose belle delle loro città. Per denunciare misfatti e disastri ambientali.
Persone per le quali si fa politica non per guadagno. Che vogliono un’Italia dove il merito conta. E l’ambiente pure. Che vivono in quartieri dormitorio anche qui. Accanto alle città meravigliose. Che sono solidali. Simpatici. Che s’interrogano. Sui perché. Sui figli. Sul da fare. Sulla crisi e le vie d’uscita possibili, concrete. Su quale politica vale davvero la pena e che perciò questa volta hanno sostenuto Marino, lontano dalla politica stantia.
Persone divertenti, aperte, che cazzeggiano. Simili a tanti di noi che a Napoli abbiamo fatto e facciamo le buone battaglie. Che chiedono delle nostre battaglie e tragedie. Ma che vivono in un tessuto che tiene di più. Fino a quando? – si chiedono. E c’è da chiederselo. Anche nella North County. Che è più civile delle nostre terre, in senso proprio: civic. Da chiederselo onestamente, ora che anche qui la crisi disgrega sempre più i tessuti connettivi. Perciò: c’è da pensare e agire di nuovo – tra Nord e Sud. Tanto.
24 ottobre, 2009
North country 2
la Questione Meridionale è ancora questione nazionale
Da martedì a oggi ho girato la provincia di Mantova a sostegno della mozione Marino. L’ho fatto parlando del Sud, di Napoli, della crisi economica e sociale da noi. Ma anche del come morde diversamente ma comunque morde a Sud e a Nord. E di come anche a Nord colpisce i più giovani, gli operai, le donne, gli immigrati stranieri e quelli che sono da poco venuti dal Mezzogiorno. Parlando e ascoltando. Con un’attenzione comune alla devastante bancarotta della politica e delle amministrazioni di centro-sinistra a Napoli e nel Mezzogiorno e al come il loro terribile fallimento storico abbia danneggiato anche il molto buono del centro-sinistra al Nord; e al come, al contempo, faccia da monito, da campanello d’allarme per atteggiamenti e metodi di governo che portano alla disfatta.
Nei prossimi giorni racconterò le storie che ho incontrato.
Non mitizzo questa iniziativa di Marino. Ma penso che sia un piccolo, incerto segno di speranza nel deprimente scenario politico. Ed è tale perché è una posizione di decenza e di competenza. Nella situazione in cui si trova il Paese è il caso che si vada a votare per queste primarie e votare Marino.
Intanto solo una prima impressione. Il Pd di Mantova e del Mantovano – nelle persone appartenenti alle tre mozioni che ho potuto incontrare – mi hanno colpito per due ragioni.
La prima: mi hanno chiesto conto del perché ero venuto lì a fare campagna ma poi hanno ascoltato e partecipato di ragionamenti comuni su come il Paese è diviso a metà, sul cosa fare e sul cosa non fare come centro-sinistra. Mi hanno chiesto conto e poi sono stato accolto. Perché la vicenda meridionale – nella percezione di questa parte di società – è ancora questione nazionale.
La seconda: è da tempo che tantissimi in tutto il Nord si chiedono quando il Pd si sbarazzerà dell’ingombro del ceto dirigente fallito nel Mezzogiorno, dei Loiero, dei Bassolino. Che vengono considerati – in area Bersani o Franceschini o Marino e ben oltre – come zavorra intollerabile e pericolosa, che sì porta voti ma voti avvelenati, che hanno fatto perdere credibilità e consenso a Pd e sinistra ovunque nel centro-Nord. Le notizie da Castellamare di Stabia, le vicende della signora Mastella, le indagini ulteriori su Bassolino, il numero incredibile delle tessere sono altrettante coltellate alla fatica della buona politica nelle aree del Paese dove il Pd è in prima linea contro l’onda xenofoba della Lega e il berlusconismo diffuso. Insomma la domanda è: ma com’è che voi onesti del Sud non riuscite a mandarli a casa?
Da martedì a oggi ho girato la provincia di Mantova a sostegno della mozione Marino. L’ho fatto parlando del Sud, di Napoli, della crisi economica e sociale da noi. Ma anche del come morde diversamente ma comunque morde a Sud e a Nord. E di come anche a Nord colpisce i più giovani, gli operai, le donne, gli immigrati stranieri e quelli che sono da poco venuti dal Mezzogiorno. Parlando e ascoltando. Con un’attenzione comune alla devastante bancarotta della politica e delle amministrazioni di centro-sinistra a Napoli e nel Mezzogiorno e al come il loro terribile fallimento storico abbia danneggiato anche il molto buono del centro-sinistra al Nord; e al come, al contempo, faccia da monito, da campanello d’allarme per atteggiamenti e metodi di governo che portano alla disfatta.
Nei prossimi giorni racconterò le storie che ho incontrato.
Non mitizzo questa iniziativa di Marino. Ma penso che sia un piccolo, incerto segno di speranza nel deprimente scenario politico. Ed è tale perché è una posizione di decenza e di competenza. Nella situazione in cui si trova il Paese è il caso che si vada a votare per queste primarie e votare Marino.
Intanto solo una prima impressione. Il Pd di Mantova e del Mantovano – nelle persone appartenenti alle tre mozioni che ho potuto incontrare – mi hanno colpito per due ragioni.
La prima: mi hanno chiesto conto del perché ero venuto lì a fare campagna ma poi hanno ascoltato e partecipato di ragionamenti comuni su come il Paese è diviso a metà, sul cosa fare e sul cosa non fare come centro-sinistra. Mi hanno chiesto conto e poi sono stato accolto. Perché la vicenda meridionale – nella percezione di questa parte di società – è ancora questione nazionale.
La seconda: è da tempo che tantissimi in tutto il Nord si chiedono quando il Pd si sbarazzerà dell’ingombro del ceto dirigente fallito nel Mezzogiorno, dei Loiero, dei Bassolino. Che vengono considerati – in area Bersani o Franceschini o Marino e ben oltre – come zavorra intollerabile e pericolosa, che sì porta voti ma voti avvelenati, che hanno fatto perdere credibilità e consenso a Pd e sinistra ovunque nel centro-Nord. Le notizie da Castellamare di Stabia, le vicende della signora Mastella, le indagini ulteriori su Bassolino, il numero incredibile delle tessere sono altrettante coltellate alla fatica della buona politica nelle aree del Paese dove il Pd è in prima linea contro l’onda xenofoba della Lega e il berlusconismo diffuso. Insomma la domanda è: ma com’è che voi onesti del Sud non riuscite a mandarli a casa?
19 ottobre, 2009
Braciere e povertà
Bimbo e mamma morti a Napoli: da giorni no corrente elettrica in casa (ansa) - Napoli, 19 ott - il bimbo di nove anni ritrovato oggi morto a Napoli, secondo le prime notizie, viveva insieme con la mamma in un'abitazione del Rione Sanità dove da circa due settimane era stata staccata la corrente elettrica.La casa è molto piccola, quando sono arrivati i vigili del Fuoco era tutto chiuso: ritrovato un braciere che ha probabilmente causato l'intossicazione dei due.
Questo accade a Napoli oggi e quello che segue è il mio commento che dovrebbe uscire su Repubblica Napoli di domani.
Ieri una mamma e un bimbo di Capo Verde sono morti per le esalazioni di un braciere nel quartiere Sanità. C’è chi dirà che è la cattiva sorte. E lo è … anche se da poco era stata staccata la corrente a quella abitazione povera e non vi era possibilità di accendere la stufa elettrica per difendersi da questo primo freddo.
Ma la verità è che ogni statistica e studio di questo mondo spiegano che è la povertà che porta con sé rischi e sfortune. Sempre. Chi è povero si ammala di più, muore prima, subisce maggiori incidenti, ha più probabilità di essere vittima dei disastri cosidetti naturali, incorre di più nelle dipendenze, ha maggiori problemi con le burocrazie e la giustizia. Certo, la sfortuna esiste. Ma l’esclusione sociale ne è un potente moltiplicatore. Del resto – a riprova - è vero anche il contrario. Vi sono molte maggiori protezioni contro la cattiva sorte lì dove c’è più occupazione, lavoro legale, efficaci ammortizzatori sociali, dove sia gli adulti poveri che i loro figli riescono a studiare e continuare a formarsi nel corso della vita, dove i servizi alle persone sono più affidabili, dove è più facile l’accesso alle informazioni, ai diritti, alle reti sociali fondate sulla cittadinanza.
Perciò queste ennesime morti ci angosciano. Perché ci interrogano su quale solidarietà siamo disposti ad attivare come cittadini e come persone. E perché ci chiamano a domandarci dove viviamo. E a farlo con onestà intellettuale e civile. Ma dove e come sono state spese le somme ingenti attivate contro l’esclusione sociale nella nostra regione nei venti anni passati? Non è forse tempo di chiedere conto, di reclamare un consuntivo dettagliato? E’ sempre e solo colpa di qualche cattivone del governo nazionale se c’è tanto concentrato di esclusione qui da noi? O è giunto il tempo per farsi spiegare com’è che, ben prima di questa grande crisi, il nostro specifico tasso di occupazione era solo al 43,2% in Campania e al 39,8% nella provincia di Napoli, il più basso di tutte le province d’Italia. Perché e come è accaduto che - secondo la Banca d’Italia - nell’ultimo decennio, nonostante gli aiuti europei, la produttività del lavoro nell’industria nella nostra regione è stata di oltre il 20% inferiore di quella nel Centro-Nord e di oltre l’8% in meno rispetto alla media del Mezzogiorno? Certo, ora gli occupati sono 33 mila in meno secondo l’Istat e l’aumento delle ore di cassa integrazione è stato di oltre otto volte. Ma il Pil campano era fermo da anni, si era ridotto l’anno prima della crisi del - 2,8% secondo la Svimez o del –1,6% secondo Prometeia, una riduzione ampiamente superiore al dato medio del Paese. E perché il tasso di disoccupazione è secondo solo a Palermo? E perché solo una donna in età di lavoro su quattro (24,2%) è occupata? E – ritornando a chi è povero – perché già sei anni fa nella sola regione Campania risiedeva quasi lo stesso numero di persone povere presenti in tutte le regioni del Nord: rispettivamente 1.339.601 e 1.382.782? E perché le famiglie povere o quasi povere, secondo l’Istat, oggi ammontano almeno a una su tre?
Non è più tempo di cautele. I papaveri della nostra politica locale possono dir quel che vogliono sui destini del Sud incompreso e “piangere e fottere” come sempre hanno fatto i notabili del Mezzogiorno. Ma se sono solo persone dignitose, queste ennesime morti li chiamano a dar conto di ciò che essi hanno fatto o non fatto e ad aprire un serio confronto pubblico su un terribile fallimento che coinvolge le vite e le speranze delle nuove generazioni della nostra terra.
Questo accade a Napoli oggi e quello che segue è il mio commento che dovrebbe uscire su Repubblica Napoli di domani.
Ieri una mamma e un bimbo di Capo Verde sono morti per le esalazioni di un braciere nel quartiere Sanità. C’è chi dirà che è la cattiva sorte. E lo è … anche se da poco era stata staccata la corrente a quella abitazione povera e non vi era possibilità di accendere la stufa elettrica per difendersi da questo primo freddo.
Ma la verità è che ogni statistica e studio di questo mondo spiegano che è la povertà che porta con sé rischi e sfortune. Sempre. Chi è povero si ammala di più, muore prima, subisce maggiori incidenti, ha più probabilità di essere vittima dei disastri cosidetti naturali, incorre di più nelle dipendenze, ha maggiori problemi con le burocrazie e la giustizia. Certo, la sfortuna esiste. Ma l’esclusione sociale ne è un potente moltiplicatore. Del resto – a riprova - è vero anche il contrario. Vi sono molte maggiori protezioni contro la cattiva sorte lì dove c’è più occupazione, lavoro legale, efficaci ammortizzatori sociali, dove sia gli adulti poveri che i loro figli riescono a studiare e continuare a formarsi nel corso della vita, dove i servizi alle persone sono più affidabili, dove è più facile l’accesso alle informazioni, ai diritti, alle reti sociali fondate sulla cittadinanza.
Perciò queste ennesime morti ci angosciano. Perché ci interrogano su quale solidarietà siamo disposti ad attivare come cittadini e come persone. E perché ci chiamano a domandarci dove viviamo. E a farlo con onestà intellettuale e civile. Ma dove e come sono state spese le somme ingenti attivate contro l’esclusione sociale nella nostra regione nei venti anni passati? Non è forse tempo di chiedere conto, di reclamare un consuntivo dettagliato? E’ sempre e solo colpa di qualche cattivone del governo nazionale se c’è tanto concentrato di esclusione qui da noi? O è giunto il tempo per farsi spiegare com’è che, ben prima di questa grande crisi, il nostro specifico tasso di occupazione era solo al 43,2% in Campania e al 39,8% nella provincia di Napoli, il più basso di tutte le province d’Italia. Perché e come è accaduto che - secondo la Banca d’Italia - nell’ultimo decennio, nonostante gli aiuti europei, la produttività del lavoro nell’industria nella nostra regione è stata di oltre il 20% inferiore di quella nel Centro-Nord e di oltre l’8% in meno rispetto alla media del Mezzogiorno? Certo, ora gli occupati sono 33 mila in meno secondo l’Istat e l’aumento delle ore di cassa integrazione è stato di oltre otto volte. Ma il Pil campano era fermo da anni, si era ridotto l’anno prima della crisi del - 2,8% secondo la Svimez o del –1,6% secondo Prometeia, una riduzione ampiamente superiore al dato medio del Paese. E perché il tasso di disoccupazione è secondo solo a Palermo? E perché solo una donna in età di lavoro su quattro (24,2%) è occupata? E – ritornando a chi è povero – perché già sei anni fa nella sola regione Campania risiedeva quasi lo stesso numero di persone povere presenti in tutte le regioni del Nord: rispettivamente 1.339.601 e 1.382.782? E perché le famiglie povere o quasi povere, secondo l’Istat, oggi ammontano almeno a una su tre?
Non è più tempo di cautele. I papaveri della nostra politica locale possono dir quel che vogliono sui destini del Sud incompreso e “piangere e fottere” come sempre hanno fatto i notabili del Mezzogiorno. Ma se sono solo persone dignitose, queste ennesime morti li chiamano a dar conto di ciò che essi hanno fatto o non fatto e ad aprire un serio confronto pubblico su un terribile fallimento che coinvolge le vite e le speranze delle nuove generazioni della nostra terra.
North country
Da febbraio vivo a Trento. Non volevo stare appresso ai baracconi partenopei della formazione in cambio di una strisciante cooptazione da parte dei nostri “lor signori”. La libertà è un bene inalienabile. E ha i suoi costi. Ma anche i suoi vantaggi. E’ una straordinaria occasione per mettersi in gioco, apprendere anche alla mia età. Sì, per conoscere e ri-conoscere e per cambiare sguardo: altri posti, altre modalità e persone che fanno, pensano, parlano diversamente e, dunque, che smontano, dall’interno, le categorie attraverso le quali uno è abituato a guardare le cose.
Mi occupo di ragazzini e docenti che cercano di contenere il disagio del crescere che investe l’intero nostro Paese, anche il Nord – dove, in modi diversi che da noi, pure c’è esclusione sociale e crisi educativa. Però è vero che il mio lavoro qui è sostenuto da un sistema di welfare che funziona e che mi insegna come potrebbe essere fatto un buon sistema di protezione, capace di promuovere educazione, formazione, sviluppo locale. Perché si rivolge con competenza sia a ragazzi italiani che stranieri. Sia al produrre che al sapere. Sia al dare che al chiedere conto.
Da ancor più tempo giro per il Nord – lo faccio da quando stavo al Ministero, impegnato, durante la breve stagione del governo Prodi, sul nuovo obbligo di istruzione e sulle indicazioni per il curricolo della scuola di base. Il Nord. E’ un insieme di moltissime realtà diverse. Ma che hanno in comune l’essere un normale contesto europeo. Mi viene da dire: luoghi europei dove si parla italiano. Fa strano camminarci in mezzo per chi è di Napoli. Sono luoghi segnati, tuttavia, dalle solite anomalie italiane e, in particolare, da quella cosa insopportabile che è la vigliaccheria: l’essere forti con i deboli e deboli con i forti. Ma, nonostante questa “italica persistenza”, vi è un tessuto di cose faticosamente normali, che a noi del Sud manca. Tanto che noi quasi non ci rendiamo più conto che esistono in Italia. E che ci fanno meraviglia: strade pulite, uffici funzionanti, dibattito sui diritti, partecipazione a occasioni pubbliche nelle quali si decide del piano regolatore o della proposta fatta dalla municipalità, persone che si guadagnano il pane perché fanno il loro mestiere (veramente) e poi fanno anche politica, sindaci e assessori – di sinistra e di destra - che parlano con le persone e ascoltano pure, collegi docenti dove si lavora sul merito e non si urla, librerie piene di gente che compra perché legge e che non ha sempre la stessa faccia, treni pieni di persone che sono venute qui dal mondo intero e che hanno lo sguardo, il ritmo, le parole di chi lavora normalmente e non a schiavitù e che conosce doveri e diritti, come gli altri e che – pure nelle lande della leganord – paga un affitto secondo le norme e lavora secondo quanto stabilisce il contratto nazionale e si iscrive al sindacato, all’associazione culturale, fianco a fianco a amici italiani…
Nei Quartieri Spagnoli, dove torno spesso per lunghi week-end, vedo ancor più di ieri quanto la situazione dei ragazzi è disperata. E rabbrividisco più di ieri nel riconoscere le colpe della classe politica locale, che ha gettato via risorse per decenni. Risorse minori di quelle disponibili al Nord? Certamente. Ma comunque ingenti risorse gettate via.
Seguo da prima di questa mia emigrazione i ragazzi napoletani emigrati. So da tempo – con tristezza immensa – che i nostri ragazzini poveri che si salvano sono quelli che emigrano al Nord. Cambiano il loro sguardo. Come lo cambio io. Carmine mi parla di una fabbrica e non più di una fabbrichetta al nero, della busta paga vera, del sindacato, della casa affittata con un regolare contratto insieme agli amici, della palestra frequentata la sera. Anna mi dice della freddezza che trova ma anche di come è fatto l’asilo nido dove porta sua figlia e del lavoro del marito che “ha tanti compagni di fatica neri”. Antonio è preoccupato per la crisi come i suoi compagni di lavoro: “qui la cosa è seria, il lavoro c’era e oggi non c’è; non è come da noi che eravamo abituati che non c’era e basta; ognuno c’ha il mutuo, c’ha le sue cose fatte bene; è un casino qui…”
Quando mi fermo con le persone di centro-sinistra al Nord mi chiedono del centro sinistra napoletano. E quasi ogni volta, con rabbia, mi raccontano di quanti voti hanno perso per colpa della monnezza, di Bassolino e della sua arroganza senza contenuti e senza modi. O mi domandano del suo sistema, di quella montagna di tessere incredibile… un terzo di tutte le tessere d’Italia. Mi chiedono come è stato e come è possibile. Rispondo loro come si può immaginare ma con fatica. Confesso che sono orgoglioso di non aver mai fatto parte di quella roba lì, di cui loro mi parlano con dolore, incredulità e rabbia. Questo mi dà forza. Ma non basta. Mi chiedono se a sinistra del Pd c’è qualcuno che critica, che esce dalle giunte. Scuoto la testa. Mi chiedono come andrà adesso. E dico loro che il centro-sinistra inevitabilmente perderà. Contro la peggiore destra che esiste. E che se per caso, invece, vince, è una roba nella quale loro non potrebbero mai ma proprio mai riconoscersi. Mi chiedono di fare degli esempi, perché stentano a credermi. Con vera pena dico loro di Castellamare di Stabia, del morto e dell’uccisore iscritti entrambi al Pd. Sgranano gli occhi. Non capiscono.
O parlo delle inchieste attuali sui rifiuti o del come queste inchieste sono parte di un’idea aberrante di territorio e di cittadinanza, che persone serie criticano, in modo costante e documentato, ma come voci nel deserto. O racconto loro delle concrete vicende della gestione della cosa pubblica a Napoli. Proprio ieri ho parlato con due segretari di sezioni del Pd e con un ragazzo di Rifondazione della vicenda del Forum delle culture del 2013 e dell’assessore Oddati.
Finché non ho aperto il computer e mostrato loro i dati di fatto si sono rifiutati di credermi. Dopo mi hanno guardato con tristezza. Hanno ammesso che anche da loro succedono cose brutte. Ma non queste enormità. Già, le enormità…
Così il Nord oggi fa parte del mio paesaggio. E’ una dimensione, per me nuova, entro la quale domandarmi dove va il mio Paese, una dimensione della politica che si affianca a quella napoletana. Per questo ho accettato di candidarmi a Mantova – provincia molto varia, con più di cento diverse etnie immigrate e molti clandestini, con diffusi problemi di nuove sofferenze a scuola, con zone di chiusure traumatiche di fabbriche e di nuove povertà – come capolista alle primarie di domenica prossima per l’assemblea nazionale del Pd, per la mozione di Ignazio Marino.
E così martedì sarò con Pippo Civati a Pegognaga a riflettere su lavoro e i giovani. Mercoledì sarò a Montecchi sui temi dei diritti civili, di equità e diversità. E giovedì sarò al teatro comunale di Mendola nell’alto mantovano dove la crisi morde duramente. Spero di raccontare qui quello che incontro.
Mi occupo di ragazzini e docenti che cercano di contenere il disagio del crescere che investe l’intero nostro Paese, anche il Nord – dove, in modi diversi che da noi, pure c’è esclusione sociale e crisi educativa. Però è vero che il mio lavoro qui è sostenuto da un sistema di welfare che funziona e che mi insegna come potrebbe essere fatto un buon sistema di protezione, capace di promuovere educazione, formazione, sviluppo locale. Perché si rivolge con competenza sia a ragazzi italiani che stranieri. Sia al produrre che al sapere. Sia al dare che al chiedere conto.
Da ancor più tempo giro per il Nord – lo faccio da quando stavo al Ministero, impegnato, durante la breve stagione del governo Prodi, sul nuovo obbligo di istruzione e sulle indicazioni per il curricolo della scuola di base. Il Nord. E’ un insieme di moltissime realtà diverse. Ma che hanno in comune l’essere un normale contesto europeo. Mi viene da dire: luoghi europei dove si parla italiano. Fa strano camminarci in mezzo per chi è di Napoli. Sono luoghi segnati, tuttavia, dalle solite anomalie italiane e, in particolare, da quella cosa insopportabile che è la vigliaccheria: l’essere forti con i deboli e deboli con i forti. Ma, nonostante questa “italica persistenza”, vi è un tessuto di cose faticosamente normali, che a noi del Sud manca. Tanto che noi quasi non ci rendiamo più conto che esistono in Italia. E che ci fanno meraviglia: strade pulite, uffici funzionanti, dibattito sui diritti, partecipazione a occasioni pubbliche nelle quali si decide del piano regolatore o della proposta fatta dalla municipalità, persone che si guadagnano il pane perché fanno il loro mestiere (veramente) e poi fanno anche politica, sindaci e assessori – di sinistra e di destra - che parlano con le persone e ascoltano pure, collegi docenti dove si lavora sul merito e non si urla, librerie piene di gente che compra perché legge e che non ha sempre la stessa faccia, treni pieni di persone che sono venute qui dal mondo intero e che hanno lo sguardo, il ritmo, le parole di chi lavora normalmente e non a schiavitù e che conosce doveri e diritti, come gli altri e che – pure nelle lande della leganord – paga un affitto secondo le norme e lavora secondo quanto stabilisce il contratto nazionale e si iscrive al sindacato, all’associazione culturale, fianco a fianco a amici italiani…
Nei Quartieri Spagnoli, dove torno spesso per lunghi week-end, vedo ancor più di ieri quanto la situazione dei ragazzi è disperata. E rabbrividisco più di ieri nel riconoscere le colpe della classe politica locale, che ha gettato via risorse per decenni. Risorse minori di quelle disponibili al Nord? Certamente. Ma comunque ingenti risorse gettate via.
Seguo da prima di questa mia emigrazione i ragazzi napoletani emigrati. So da tempo – con tristezza immensa – che i nostri ragazzini poveri che si salvano sono quelli che emigrano al Nord. Cambiano il loro sguardo. Come lo cambio io. Carmine mi parla di una fabbrica e non più di una fabbrichetta al nero, della busta paga vera, del sindacato, della casa affittata con un regolare contratto insieme agli amici, della palestra frequentata la sera. Anna mi dice della freddezza che trova ma anche di come è fatto l’asilo nido dove porta sua figlia e del lavoro del marito che “ha tanti compagni di fatica neri”. Antonio è preoccupato per la crisi come i suoi compagni di lavoro: “qui la cosa è seria, il lavoro c’era e oggi non c’è; non è come da noi che eravamo abituati che non c’era e basta; ognuno c’ha il mutuo, c’ha le sue cose fatte bene; è un casino qui…”
Quando mi fermo con le persone di centro-sinistra al Nord mi chiedono del centro sinistra napoletano. E quasi ogni volta, con rabbia, mi raccontano di quanti voti hanno perso per colpa della monnezza, di Bassolino e della sua arroganza senza contenuti e senza modi. O mi domandano del suo sistema, di quella montagna di tessere incredibile… un terzo di tutte le tessere d’Italia. Mi chiedono come è stato e come è possibile. Rispondo loro come si può immaginare ma con fatica. Confesso che sono orgoglioso di non aver mai fatto parte di quella roba lì, di cui loro mi parlano con dolore, incredulità e rabbia. Questo mi dà forza. Ma non basta. Mi chiedono se a sinistra del Pd c’è qualcuno che critica, che esce dalle giunte. Scuoto la testa. Mi chiedono come andrà adesso. E dico loro che il centro-sinistra inevitabilmente perderà. Contro la peggiore destra che esiste. E che se per caso, invece, vince, è una roba nella quale loro non potrebbero mai ma proprio mai riconoscersi. Mi chiedono di fare degli esempi, perché stentano a credermi. Con vera pena dico loro di Castellamare di Stabia, del morto e dell’uccisore iscritti entrambi al Pd. Sgranano gli occhi. Non capiscono.
O parlo delle inchieste attuali sui rifiuti o del come queste inchieste sono parte di un’idea aberrante di territorio e di cittadinanza, che persone serie criticano, in modo costante e documentato, ma come voci nel deserto. O racconto loro delle concrete vicende della gestione della cosa pubblica a Napoli. Proprio ieri ho parlato con due segretari di sezioni del Pd e con un ragazzo di Rifondazione della vicenda del Forum delle culture del 2013 e dell’assessore Oddati.
Finché non ho aperto il computer e mostrato loro i dati di fatto si sono rifiutati di credermi. Dopo mi hanno guardato con tristezza. Hanno ammesso che anche da loro succedono cose brutte. Ma non queste enormità. Già, le enormità…
Così il Nord oggi fa parte del mio paesaggio. E’ una dimensione, per me nuova, entro la quale domandarmi dove va il mio Paese, una dimensione della politica che si affianca a quella napoletana. Per questo ho accettato di candidarmi a Mantova – provincia molto varia, con più di cento diverse etnie immigrate e molti clandestini, con diffusi problemi di nuove sofferenze a scuola, con zone di chiusure traumatiche di fabbriche e di nuove povertà – come capolista alle primarie di domenica prossima per l’assemblea nazionale del Pd, per la mozione di Ignazio Marino.
E così martedì sarò con Pippo Civati a Pegognaga a riflettere su lavoro e i giovani. Mercoledì sarò a Montecchi sui temi dei diritti civili, di equità e diversità. E giovedì sarò al teatro comunale di Mendola nell’alto mantovano dove la crisi morde duramente. Spero di raccontare qui quello che incontro.
18 ottobre, 2009
Commenti, sms e telefonate
Grazie per i commenti, per gli sms e … le telefonate, anche quella del sindaco
Intanto sono contento che questo posto abbia potuto ospitare divergenze.
Ai ragazzi della scuola di Francesco – da “vecchio insegnante” - mi piace dire questo: continuate a litigare ma portate anche argomenti e studiate affinché siano ricchi, molteplici. E, se vi è possibile, nutrite il dubbio insieme alla passione. Per esempio: la studentessa onesta è proprio sicura che il “mettere sotto pressione” in un posto x o y faccia parte di quello che si deve auspicare sia il funzionamento della polizia? E l’anonimo del 15 ottobre ha letto proprio bene il mio articolo sulle case abitate da Ezra Pound ed è proprio sicuro sicuro che io abbia scelto di non parteggiare? O forse sto dicendo alla mia parte che il mondo cambia e gli strumenti di analisi e di azione possono mutare rispetto ai modelli del secolo scorso?
E’, insomma, auspicabile interrogarsi, ognuno come crede. Ma intanto, ragazzi, vogliamo chiederci: come diavolo sia possibile - nel 2009 e con la città con i problemi che ha - essere aggrediti da più persone che nascondono il viso e finire feriti perché si pensa una cosa anziché un’altra? Insomma: io ho banalmente scritto che a me non piacciono le aggressioni e la spirale che ne può derivare. E che dissento anche dai cortei minacciosi perché non rispondono alla situazione. Non concordo con i cortei di quel tipo. Concordo con la maratona anti-omofobia promossa oggi, per esempio.
Apprezzo le sollecitazioni di Franco Cuomo sul fatto che spesso – non sempre - in Italia si è fermi a categorie di analisi che sono vetuste.
Condivido, poi, molti argomenti di Pietro Spina. Sì, la povertà che non si riesce a estirpare, l’esclusione culturale, la mancanza di occasioni di partecipazione alle scelte collettive, il parlare dei personaggi sempre gli stessi anziché delle proposte stanno riducendo la politica a qualcosa di inutilizzabile.
Ringrazio poi i molti, anche da fuori Napoli, che mi hanno inviato sms e telefonato a sostegno di questi due articoli. E ringrazio anche il sindaco Rosa Iervolino Russo – con cui ho avuto una quantità invidiata di conflitti politici duri e alla luce del sole – che mercoledì 14, dopo essere andata di persona a trovare la signora Lisa Norall, ha chiamato sul mio cellulare mentre stavo al lavoro in un istituto professionale di Trento per ringraziarmi per “gli argomenti seri ed equilibrati che hai portato a questo passaggio della vita cittadina”, semplicemente.
Intanto sono contento che questo posto abbia potuto ospitare divergenze.
Ai ragazzi della scuola di Francesco – da “vecchio insegnante” - mi piace dire questo: continuate a litigare ma portate anche argomenti e studiate affinché siano ricchi, molteplici. E, se vi è possibile, nutrite il dubbio insieme alla passione. Per esempio: la studentessa onesta è proprio sicura che il “mettere sotto pressione” in un posto x o y faccia parte di quello che si deve auspicare sia il funzionamento della polizia? E l’anonimo del 15 ottobre ha letto proprio bene il mio articolo sulle case abitate da Ezra Pound ed è proprio sicuro sicuro che io abbia scelto di non parteggiare? O forse sto dicendo alla mia parte che il mondo cambia e gli strumenti di analisi e di azione possono mutare rispetto ai modelli del secolo scorso?
E’, insomma, auspicabile interrogarsi, ognuno come crede. Ma intanto, ragazzi, vogliamo chiederci: come diavolo sia possibile - nel 2009 e con la città con i problemi che ha - essere aggrediti da più persone che nascondono il viso e finire feriti perché si pensa una cosa anziché un’altra? Insomma: io ho banalmente scritto che a me non piacciono le aggressioni e la spirale che ne può derivare. E che dissento anche dai cortei minacciosi perché non rispondono alla situazione. Non concordo con i cortei di quel tipo. Concordo con la maratona anti-omofobia promossa oggi, per esempio.
Apprezzo le sollecitazioni di Franco Cuomo sul fatto che spesso – non sempre - in Italia si è fermi a categorie di analisi che sono vetuste.
Condivido, poi, molti argomenti di Pietro Spina. Sì, la povertà che non si riesce a estirpare, l’esclusione culturale, la mancanza di occasioni di partecipazione alle scelte collettive, il parlare dei personaggi sempre gli stessi anziché delle proposte stanno riducendo la politica a qualcosa di inutilizzabile.
Ringrazio poi i molti, anche da fuori Napoli, che mi hanno inviato sms e telefonato a sostegno di questi due articoli. E ringrazio anche il sindaco Rosa Iervolino Russo – con cui ho avuto una quantità invidiata di conflitti politici duri e alla luce del sole – che mercoledì 14, dopo essere andata di persona a trovare la signora Lisa Norall, ha chiamato sul mio cellulare mentre stavo al lavoro in un istituto professionale di Trento per ringraziarmi per “gli argomenti seri ed equilibrati che hai portato a questo passaggio della vita cittadina”, semplicemente.
09 ottobre, 2009
Lisa Norall è una signora
La storia di casaPound a Materdei si sta trascinando pericolosamente in una scia di aggressioni, che va spezzata. Oggi esce su LaRepubblica di Napoli questo mio pezzo.
Il vigliacco ferimento davanti a scuola di Francesco Traetta da parte di un gruppo di fascisti avviene in una città che vive da anni un clima di insopportabile aggressività e divisioni profondissime, che vanno ben oltre la questione dei fascisti. E che chiamano a una riflessione ampia sulla politica e il confronto.
Intanto Napoli continua ad essere drammaticamente divisa in due: da un lato i protetti, dall’altro gli esclusi. Le due città non si parlano e quasi non si conoscono. E’ una condizione persistente lungo i decenni, che ci offende ma che colpisce innanzitutto i più deboli e i ragazzi. Ciascuno dei nostri figli, ognuno a suo modo – quelli che lavorano al nero come quelli che studiano, quelli schierati nel campo progressista e quelli conservatori, quelli attivi nelle parrocchie, quelli non impegnati e quelli dei centri sociali di sinistra e anche di destra, quelli che sono emigrati per lavoro o per studio – sentono questa condizione come un macigno che uccide la speranza. Quando ci parli per strada o a scuola, al lavoro o sul treno che va a Nord, ogni loro parola dice questo. E’ l’insieme delle occasioni perse per un nostro riscatto economico, sociale e civile, è la persistenza della povertà, è il cadere delle opportunità collettive e individuali che ne attaccano le certezze, le volontà e anche le ragionevolezze. E’ più difficile crescere qui, pensare a una vita in una città divisa. Perché la mancanza di coesione sociale alimenta sospetto, sfiducia, aggressività, paura, risentimento. E produce dipendenze, liti, ruberie, il moltiplicarsi delle violenze anche gratuite e le morti terribili come quella di Petru. La cultura di camorra, sostenuta dal diffondersi dell’economia del malaffare, spinge queste infamie nel novero delle cose ordinarie. Ma è il mancato sviluppo e l’assenza di politica nuova - capace di riscatto - che ne sono le cause profonde. Tutto questo è ulteriormente aggravato da spinte xenofobe e razziste – in tutto simili al resto del Paese - che hanno moltiplicato gli attacchi ai singoli in quanto “diversi da me” – la donna africana che partorisce, la bambina rom sospettata di essere positiva alla tbc, la persona gay. Ma da noi tali spinte hanno, al contempo e più che altrove, fornito nuova benzina all’astio dei molti poveri contro altri poveri, fino ai terribili attacchi di massa ai rom e agli immigrati. Così, le aggressioni sospinte dalle condizioni materiali di esclusione si intrecciano con quelle aizate dalle nuove sirene dell’odio.
A questo clima cittadino si aggiunge il clima politico nazionale. Che, però, ricade più pericolosamente che altrove sulla nostra città. Perché essa è ben più povera di lavoro, di reti protettive, di presidio dei limiti e di abitudini al rispetto di diritti e doveri. Perciò: fa più male di quanto già faccia agli altri che un uomo che ha vinto le elezioni e gode di una legittima e schiacciante maggioranza, che gli consentirebbe di governare con sicurezza e anche con garbo, non riesce a farlo e, invece, urla e strepita. Fa più male a noi vedere il capo del governo maniacalmente preso dalla difesa dei suoi interessi privati, che confonde con le questioni pubbliche. E fa male perché – in un luogo più povero e dove è più difficile difendere le ragioni dell’interesse generale – offende di più l’accecamento che non si placa neanche dinanzi alla propria età e alla certezza di una fortuna enorme che permetterà una vita da ricchi ai figli, ai nipoti e ai pronipoti. E poi fa male la mancanza di auto-disciplina nell’uomo che ha la prima responsabilità del Paese, la sua incapacità di misurare le parole, controllare i gesti, distinuguere i diversi contesti entro i quali muoversi, il suo non sapere negoziare con l’altro da sé, il suo aggressivo fastidio per le procedure e l’arbitraggio, che sono il sale delle democrazie.
Ma va detto. Da tutto questo nessuno di noi può sentirsi immune. Siamo tutti a rischio di contagio. E viene alla mente il passaggio dei Promessi Sposi, quando Manzoni commenta l’ira di Renzo per il torto subito: “i soverchiatori, tutti coloro che in qualunque modo fanno torto altrui sono rei non solo del male che commettono ma del pervertimento ancora a cui portano l’animo degli offesi”. Si sta facendo strada, infatti, un’assuefazione generalizzata al fatto che, nel dibattito pubblico, le posizioni altrui siano inaccettabili e dunque sia normale stravolgerne i termini per attaccarle meglio o che le negoziazioni vengano escluse come opzioni possibili o che si disprezzino le posizioni intermedie, i toni pacati, i ripensamenti, le proposte di confronto aperto, le disponibilità a parlarsi. Non vi è temperanza. E ogni volta, anche nella nostra povera politica locale, qualcuno si incarica di chiamare a schierarsi contro qualcun altro o a urlare al tradimento, per ribadire il primato dell’appartenenza. Che, così, si rende nemica della cittadinanza.
E’ per queste considerazioni – e non per una mia inclinazione verso il revisionismo storico, che notoriamente aborro – che ho usato la metafora della vita di Pound per ricordare le cose terribili che ereditiamo dal secolo passato e che dobbiamo pur superare.
O davvero pensiamo che - oltre a tutto il resto - i nostri figli debbano rivivere adesso in questa città ciò che noi abbiamo vissuto oltre trentanni fa? Vogliamo davvero le sprangate subite e poi date, i cortei attrezzati per lo scontro militare, gli attacchi alle sedi altrui come cemento per la propria identità, gli agguati sotto casa, i ferimenti o peggio?
Oggi sono rafforzato nella mia convinzione di andare oltre gli steccati. Lo sono grazie al potente gesto – insieme umano e politico – della signora Lisa Norall, la mamma di Francesco. Che è andata a casaPound e ha chiesto conto. “Cosa state facendo veramente qui?” E non penso sia un caso che sia stata una donna a fare questo passo. E sarebbe bene che, colpevoli o no, le ragazze e i ragazzi di casaPound andassero a visitare Francesco e chiarissero i loro intenti in città. Ma ci vuole anche di più, ci vuole una moratoria vera. Questo giornale può chiedere al sindaco di farsene promotore e garante: convochi tutti i centri sociali, chiami a sottoscrivere un patto di comportamento, basato sulla rinuncia assoluta alla violenza reciproca, sull’apertura delle sedi alla cittadinanza, sul dibattito plurale intorno ai temi dello sviluppo, dell’eguaglianza, della differenza e dell’identità – che sono i grandi temi comuni della città e del villaggio globale.
Finiamo questa spirale finché siamo in tempo. Abbiamo bisogno di pace per pensare alla rinascita di Napoli.
Il vigliacco ferimento davanti a scuola di Francesco Traetta da parte di un gruppo di fascisti avviene in una città che vive da anni un clima di insopportabile aggressività e divisioni profondissime, che vanno ben oltre la questione dei fascisti. E che chiamano a una riflessione ampia sulla politica e il confronto.
Intanto Napoli continua ad essere drammaticamente divisa in due: da un lato i protetti, dall’altro gli esclusi. Le due città non si parlano e quasi non si conoscono. E’ una condizione persistente lungo i decenni, che ci offende ma che colpisce innanzitutto i più deboli e i ragazzi. Ciascuno dei nostri figli, ognuno a suo modo – quelli che lavorano al nero come quelli che studiano, quelli schierati nel campo progressista e quelli conservatori, quelli attivi nelle parrocchie, quelli non impegnati e quelli dei centri sociali di sinistra e anche di destra, quelli che sono emigrati per lavoro o per studio – sentono questa condizione come un macigno che uccide la speranza. Quando ci parli per strada o a scuola, al lavoro o sul treno che va a Nord, ogni loro parola dice questo. E’ l’insieme delle occasioni perse per un nostro riscatto economico, sociale e civile, è la persistenza della povertà, è il cadere delle opportunità collettive e individuali che ne attaccano le certezze, le volontà e anche le ragionevolezze. E’ più difficile crescere qui, pensare a una vita in una città divisa. Perché la mancanza di coesione sociale alimenta sospetto, sfiducia, aggressività, paura, risentimento. E produce dipendenze, liti, ruberie, il moltiplicarsi delle violenze anche gratuite e le morti terribili come quella di Petru. La cultura di camorra, sostenuta dal diffondersi dell’economia del malaffare, spinge queste infamie nel novero delle cose ordinarie. Ma è il mancato sviluppo e l’assenza di politica nuova - capace di riscatto - che ne sono le cause profonde. Tutto questo è ulteriormente aggravato da spinte xenofobe e razziste – in tutto simili al resto del Paese - che hanno moltiplicato gli attacchi ai singoli in quanto “diversi da me” – la donna africana che partorisce, la bambina rom sospettata di essere positiva alla tbc, la persona gay. Ma da noi tali spinte hanno, al contempo e più che altrove, fornito nuova benzina all’astio dei molti poveri contro altri poveri, fino ai terribili attacchi di massa ai rom e agli immigrati. Così, le aggressioni sospinte dalle condizioni materiali di esclusione si intrecciano con quelle aizate dalle nuove sirene dell’odio.
A questo clima cittadino si aggiunge il clima politico nazionale. Che, però, ricade più pericolosamente che altrove sulla nostra città. Perché essa è ben più povera di lavoro, di reti protettive, di presidio dei limiti e di abitudini al rispetto di diritti e doveri. Perciò: fa più male di quanto già faccia agli altri che un uomo che ha vinto le elezioni e gode di una legittima e schiacciante maggioranza, che gli consentirebbe di governare con sicurezza e anche con garbo, non riesce a farlo e, invece, urla e strepita. Fa più male a noi vedere il capo del governo maniacalmente preso dalla difesa dei suoi interessi privati, che confonde con le questioni pubbliche. E fa male perché – in un luogo più povero e dove è più difficile difendere le ragioni dell’interesse generale – offende di più l’accecamento che non si placa neanche dinanzi alla propria età e alla certezza di una fortuna enorme che permetterà una vita da ricchi ai figli, ai nipoti e ai pronipoti. E poi fa male la mancanza di auto-disciplina nell’uomo che ha la prima responsabilità del Paese, la sua incapacità di misurare le parole, controllare i gesti, distinuguere i diversi contesti entro i quali muoversi, il suo non sapere negoziare con l’altro da sé, il suo aggressivo fastidio per le procedure e l’arbitraggio, che sono il sale delle democrazie.
Ma va detto. Da tutto questo nessuno di noi può sentirsi immune. Siamo tutti a rischio di contagio. E viene alla mente il passaggio dei Promessi Sposi, quando Manzoni commenta l’ira di Renzo per il torto subito: “i soverchiatori, tutti coloro che in qualunque modo fanno torto altrui sono rei non solo del male che commettono ma del pervertimento ancora a cui portano l’animo degli offesi”. Si sta facendo strada, infatti, un’assuefazione generalizzata al fatto che, nel dibattito pubblico, le posizioni altrui siano inaccettabili e dunque sia normale stravolgerne i termini per attaccarle meglio o che le negoziazioni vengano escluse come opzioni possibili o che si disprezzino le posizioni intermedie, i toni pacati, i ripensamenti, le proposte di confronto aperto, le disponibilità a parlarsi. Non vi è temperanza. E ogni volta, anche nella nostra povera politica locale, qualcuno si incarica di chiamare a schierarsi contro qualcun altro o a urlare al tradimento, per ribadire il primato dell’appartenenza. Che, così, si rende nemica della cittadinanza.
E’ per queste considerazioni – e non per una mia inclinazione verso il revisionismo storico, che notoriamente aborro – che ho usato la metafora della vita di Pound per ricordare le cose terribili che ereditiamo dal secolo passato e che dobbiamo pur superare.
O davvero pensiamo che - oltre a tutto il resto - i nostri figli debbano rivivere adesso in questa città ciò che noi abbiamo vissuto oltre trentanni fa? Vogliamo davvero le sprangate subite e poi date, i cortei attrezzati per lo scontro militare, gli attacchi alle sedi altrui come cemento per la propria identità, gli agguati sotto casa, i ferimenti o peggio?
Oggi sono rafforzato nella mia convinzione di andare oltre gli steccati. Lo sono grazie al potente gesto – insieme umano e politico – della signora Lisa Norall, la mamma di Francesco. Che è andata a casaPound e ha chiesto conto. “Cosa state facendo veramente qui?” E non penso sia un caso che sia stata una donna a fare questo passo. E sarebbe bene che, colpevoli o no, le ragazze e i ragazzi di casaPound andassero a visitare Francesco e chiarissero i loro intenti in città. Ma ci vuole anche di più, ci vuole una moratoria vera. Questo giornale può chiedere al sindaco di farsene promotore e garante: convochi tutti i centri sociali, chiami a sottoscrivere un patto di comportamento, basato sulla rinuncia assoluta alla violenza reciproca, sull’apertura delle sedi alla cittadinanza, sul dibattito plurale intorno ai temi dello sviluppo, dell’eguaglianza, della differenza e dell’identità – che sono i grandi temi comuni della città e del villaggio globale.
Finiamo questa spirale finché siamo in tempo. Abbiamo bisogno di pace per pensare alla rinascita di Napoli.
04 ottobre, 2009
Saluto al comandante
L’altro ieri è morto a novantanni Marek Edelman.
Ebreo laico, giovane militante socialista del Bund, comandante militare dell’insurrezione del ghetto di Varsavia, combattente per la libertà contro il fascismo e poi contro lo stalinismo e il socialismo reale che socialismo non è mai stato, molte volte incarcerato e pacatamente indomito, medico bravo e generoso, consigliere testardamente laico del movimento operaio polacco egemonizzato dal cattolicesimo, uomo capace di tenere insieme forza e temperanza.
“Guardiano dei morti” – così chiamò se stesso nelle memorie, è stato soprattutto un grande amante della vita, della solidarietà tra le persone e verso ogni luogo oppresso, dell’amicizia, della passione amorosa.
02 ottobre, 2009
Le case di Ezra Pound
Ancora un pezzo che è uscito su Repubblica Napoli, stavolta in occasione di un corteo antifascista contro un centro di casapound e che è finito in modo violento.
Mentre i cortei si muovono tra le grida che evocano il ricordo delle Quattro Giornate, Erri De Luca chiama all’antifascismo militante anni settanta, i responsabili di causapound si proclamano oscuramente fascisti della terza generazione e il comune intende far disoccupare con la forza gli spazi da loro occupati intitolati al grande poeta americano, può capitare di pensare alle case di Ezra Pound, quelle vere, dove egli visse. E che forse potrebbero suggerirci qualcosa.
Sì, le case. Quella dove nacque in mezzo agli spazi vuoti e sotto il cielo largo dell’Idaho, quelle dove approdò, ancora ragazzo, nelle grandi città, dove poteva condurre la vita sregolata che desiderava, lontana dalla sua bigotta provincia. E dove accumulava i libri dei poeti antichi e medioevali o iniziava l’amicizia con T. S. Eliot o pranzava con William Carlos Williams o amoreggiava con Hilda Doolittle grande poetessa e donna apertamente bisessuale. Quelle inglesi o parigine dove studiava il teatro Nò giapponese con Yeats, imparava la boxe da Hemingway o da cui scendeva per presentare James Joyce alla sua futura editrice. O quelle italiane degli anni trenta dove scriveva versi di innovativa potenza, studiava le musiche rinascimentali e giocava a tennis. Ma dove iniziarono i segni di un lucido e terribile delirio. Infatti prese una vera fissazione contro le banche in quanto tali. Sposò le teorie sulla superiorità della razza ariana denigrando i neri d’America come inferiori mentre, al contempo, esaltava Thomas Jefferson come possibile ispiratore di Mussolini, dimenticando gli scritti sulla democrazia del fondatore degli Stati Uniti o il fatto che avesse vissuto e fatto molti figli con una donna nera dopo la morte di sua moglie. Poi vennero le case del tempo di guerra. Dove Pound continuò a difendere il regime anche durante la repubblica di Salò, facendosi portavoce del nazi-fascismo alla radio con parole incancellabili: “Se mai vi è stata nazione che ha prodotto efficiente democrazia, questa è stata la Germania. Eliminate Roosvelt e i suoi ebrei o gli ebrei e il loro Roosvelt”. E la casa della prigionia – che casa non era ma una gabbia all’aperto e poi una tenda – dove fu rinchiuso nel campo americano di Pisa, accusato di alto tradimento. O la prigione dove soggiornò durante il processo e dove si salvò dalla pena capitale solo perché quasi tutta l’avanguardia artistica del Novecento che aveva avversato il nazi fascismo si mobilitò generosamente per lui e perché, grazie alle garanzie liberali, i più grandi psichiatri d’America ne riconobbero la effettiva infermità mentale. Primo Levi un quarto di secolo dopo il processo scrisse: “Forse il tribunale americano che giudicò Pound mentalmente infermo aveva ragione: scrittore d'istinto, doveva essere un pessimo ragionatore e lo confermano il suo comportamento politico ed il suo odio maniacale per i banchieri. Ora, chi non sa ragionare deve essere curato, e nei limiti del possibile rispettato, anche se, come Ezra Pound, si induce a fare propaganda nazista contro il proprio paese in guerra contro la Germania di Hitler”. O l’altra casa di Pound che casa non era – ma stanza di ospedale psichiatrico – dove, nonostante tutto, continuava a incontrare i capi segregazionisti e a proclamare un testardo razzismo: “E’ una missione quella di lavar via dalla razza anglo-sassone gli elementi che la infangano, i negracci e gli ebreacci”. O l’ultima casa, a Venezia, dove un giorno del 1967 andò a trovarlo il poeta Allen Ginsberg. Lì salutandosi sull’uscio della porta - in risposta al “grazie per le sue poesie” del poeta della beat generation, ebreo fiero di esserlo – Ezra Pound timidamente disse con un fil di voce: “Il mio più grave errore è stato il mio stupido pregiudizio antisemita da sobborgo, una roba che ha rovinato tutto”.
Che dire allora di e su casapound? Sono figlio di un antifascista condannato a venti anni dal tribunale speciale. Da ragazzo facevo antifascismo militante per le strade di questa città ma leggevo con ammirazione i Cantos di Ezra Pound. E forse iniziavo a capire che si è chiamati a vivere in un mondo complicato, che ereditiamo da un secolo che è finito ma sul cui senso ci si deve interrogare ancora e con lo spirito del ventunesimo secolo che ha evocato Obama pochi giorni fa alle Nazioni Unite. E che si fonda sulla necessità imperativa di superare la paura dell’altro e di andare oltre gli steccati e parlare del merito delle cose. No, io non manderei la polizia a sgombrare casapound e tanto meno ci andrei io con i miei compagni. Ci andrei sì. Ma per parlare. E domanderei: quali delle case di Ezra Pound vi ispirerà in questo luogo? Quella dei poeti di ogni cultura e inclinazione sessuale? Quella dei proclami di odio? Quella della riflessione sugli errori? Perché - come ha scritto Paola Concia, donna di sinistra che lotta per la causa di ogni diversità e che si reca in questi giorni a casapound di Roma - la paura del diverso si annida in ogni cultura, a destra e a sinistra. E noi lo sappiamo nelle vicende quotidiane di razzismo e di omofobia che ci stanno opprimendo. E non basta il proclama antifascista: un nostro quartiere che è insorto contro i carri armati nazisti durante le Quattro Giornate, che sempre è restato fedele all’antifascismo, ha anche cacciato vecchi e bambini rom a suon di molotov. Sì, io andrei innanzitutto a parlare. Perché la città è satura di aggressività; c’è un bisogno immenso di parole scambiate, anche se sono difficili.
Mentre i cortei si muovono tra le grida che evocano il ricordo delle Quattro Giornate, Erri De Luca chiama all’antifascismo militante anni settanta, i responsabili di causapound si proclamano oscuramente fascisti della terza generazione e il comune intende far disoccupare con la forza gli spazi da loro occupati intitolati al grande poeta americano, può capitare di pensare alle case di Ezra Pound, quelle vere, dove egli visse. E che forse potrebbero suggerirci qualcosa.
Sì, le case. Quella dove nacque in mezzo agli spazi vuoti e sotto il cielo largo dell’Idaho, quelle dove approdò, ancora ragazzo, nelle grandi città, dove poteva condurre la vita sregolata che desiderava, lontana dalla sua bigotta provincia. E dove accumulava i libri dei poeti antichi e medioevali o iniziava l’amicizia con T. S. Eliot o pranzava con William Carlos Williams o amoreggiava con Hilda Doolittle grande poetessa e donna apertamente bisessuale. Quelle inglesi o parigine dove studiava il teatro Nò giapponese con Yeats, imparava la boxe da Hemingway o da cui scendeva per presentare James Joyce alla sua futura editrice. O quelle italiane degli anni trenta dove scriveva versi di innovativa potenza, studiava le musiche rinascimentali e giocava a tennis. Ma dove iniziarono i segni di un lucido e terribile delirio. Infatti prese una vera fissazione contro le banche in quanto tali. Sposò le teorie sulla superiorità della razza ariana denigrando i neri d’America come inferiori mentre, al contempo, esaltava Thomas Jefferson come possibile ispiratore di Mussolini, dimenticando gli scritti sulla democrazia del fondatore degli Stati Uniti o il fatto che avesse vissuto e fatto molti figli con una donna nera dopo la morte di sua moglie. Poi vennero le case del tempo di guerra. Dove Pound continuò a difendere il regime anche durante la repubblica di Salò, facendosi portavoce del nazi-fascismo alla radio con parole incancellabili: “Se mai vi è stata nazione che ha prodotto efficiente democrazia, questa è stata la Germania. Eliminate Roosvelt e i suoi ebrei o gli ebrei e il loro Roosvelt”. E la casa della prigionia – che casa non era ma una gabbia all’aperto e poi una tenda – dove fu rinchiuso nel campo americano di Pisa, accusato di alto tradimento. O la prigione dove soggiornò durante il processo e dove si salvò dalla pena capitale solo perché quasi tutta l’avanguardia artistica del Novecento che aveva avversato il nazi fascismo si mobilitò generosamente per lui e perché, grazie alle garanzie liberali, i più grandi psichiatri d’America ne riconobbero la effettiva infermità mentale. Primo Levi un quarto di secolo dopo il processo scrisse: “Forse il tribunale americano che giudicò Pound mentalmente infermo aveva ragione: scrittore d'istinto, doveva essere un pessimo ragionatore e lo confermano il suo comportamento politico ed il suo odio maniacale per i banchieri. Ora, chi non sa ragionare deve essere curato, e nei limiti del possibile rispettato, anche se, come Ezra Pound, si induce a fare propaganda nazista contro il proprio paese in guerra contro la Germania di Hitler”. O l’altra casa di Pound che casa non era – ma stanza di ospedale psichiatrico – dove, nonostante tutto, continuava a incontrare i capi segregazionisti e a proclamare un testardo razzismo: “E’ una missione quella di lavar via dalla razza anglo-sassone gli elementi che la infangano, i negracci e gli ebreacci”. O l’ultima casa, a Venezia, dove un giorno del 1967 andò a trovarlo il poeta Allen Ginsberg. Lì salutandosi sull’uscio della porta - in risposta al “grazie per le sue poesie” del poeta della beat generation, ebreo fiero di esserlo – Ezra Pound timidamente disse con un fil di voce: “Il mio più grave errore è stato il mio stupido pregiudizio antisemita da sobborgo, una roba che ha rovinato tutto”.
Che dire allora di e su casapound? Sono figlio di un antifascista condannato a venti anni dal tribunale speciale. Da ragazzo facevo antifascismo militante per le strade di questa città ma leggevo con ammirazione i Cantos di Ezra Pound. E forse iniziavo a capire che si è chiamati a vivere in un mondo complicato, che ereditiamo da un secolo che è finito ma sul cui senso ci si deve interrogare ancora e con lo spirito del ventunesimo secolo che ha evocato Obama pochi giorni fa alle Nazioni Unite. E che si fonda sulla necessità imperativa di superare la paura dell’altro e di andare oltre gli steccati e parlare del merito delle cose. No, io non manderei la polizia a sgombrare casapound e tanto meno ci andrei io con i miei compagni. Ci andrei sì. Ma per parlare. E domanderei: quali delle case di Ezra Pound vi ispirerà in questo luogo? Quella dei poeti di ogni cultura e inclinazione sessuale? Quella dei proclami di odio? Quella della riflessione sugli errori? Perché - come ha scritto Paola Concia, donna di sinistra che lotta per la causa di ogni diversità e che si reca in questi giorni a casapound di Roma - la paura del diverso si annida in ogni cultura, a destra e a sinistra. E noi lo sappiamo nelle vicende quotidiane di razzismo e di omofobia che ci stanno opprimendo. E non basta il proclama antifascista: un nostro quartiere che è insorto contro i carri armati nazisti durante le Quattro Giornate, che sempre è restato fedele all’antifascismo, ha anche cacciato vecchi e bambini rom a suon di molotov. Sì, io andrei innanzitutto a parlare. Perché la città è satura di aggressività; c’è un bisogno immenso di parole scambiate, anche se sono difficili.
01 ottobre, 2009
Gli spazi dell'infanzia
La Questura di Napoli ha reso noto i primi risultati di una vasta operazione di indagine su video poker e slot machine. Centinaia di macchine, trovate manomesse, sono state sequestrate con multe per migliaia di euro. Nel corso dell’inchiesta è emerso che decine di ragazzini commettevano reati quali scippi e rapine, a Pianura, nei Quartieri Spagnoli, nella Sanità per rispondere al bisogno di giocare a soldi con questi arnesi. Ho commentato questa notizia su Repubblica Napoli di oggi con l'articolo che segue.
Alcuni video giochi - slot machine e video-poker - sono osservati da tempo da chi si occupa di povertà perché sono creatori di dipendenza, capaci di sottrarre soldi a chi ne ha già pochi. Accade nel nord come nel sud di vedere un uomo terminare una giornata di lavoro in cantiere, una donna che finisce un turno delle pulizie, una casalinga con la busta della spesa, un giovane disoccupato fermarsi in un caffè e ogni volta immettere in queste macchine quattro o cinque euro almeno e magari vincere e rigiocare fino a che perde ancora. Chi gestisce questi arnesi ha, dunque, molto da guadagnare. E da noi è la camorra che ha i liquidi e la rete organizzativa per l´acquisto e il controllo di questo vasto mercato, che permette riciclaggio di denaro e nuovo profitto.
Così il monopolio di Stato sul gioco viene espropriato, a maggior ragione in quanto le macchine vengono taroccate: promettono vincite superiori ai limiti fissati dalla legge, mentre in realtà diminuiscono le probabilità di vincita. Questo ha scoperto un lungo e puntiglioso lavoro investigativo della questura di Napoli. Ma l´indagine ha soprattutto confermato quanto molti operatori sociali intuiscono da tempo: sono aumentate le rapine di minorenni anche perché c´è crescente dipendenza dei ragazzi dalle slot e video-poker. Il gioco, le sale gioco sono da decenni occasioni di aggregazione tra ragazzi. Ciò non è un male in sé. Può esserlo o no. Infatti ogni esperienza adolescenziale comporta rischi. Girare tutta la notte in auto può favorire sano divertimento e amicizia o essere pericoloso. Fermarsi le ore dinanzi ai bar può costituire la base per relazioni e progetti costruttivi o la premessa per avventure rischiose. Anche la sala giochi può essere luogo di socialità e apprendimento o di dipendenza e pericolo. A Napoli come a Milano, Londra, Nuova Delhi ogni volta che capita di entrare in un bar o in un luna park ci si rende conto come i ragazzini si mettono alla prova in molte cose contemporaneamente.
Mentre manovrano con velocità sconvolgente i videogiochi, spesso in gruppo, inviano messaggi sms per confrontarsi sul da fare o ascoltano musiche. Intrattengono conversazioni su punteggi o record o tecniche di gestione dei giochi. Ma le parole rimandano al governo delle relazioni, all´instaurarsi di gerarchie basate su abilità, conoscenza e competenza, a promesse di insegnamento. E, intanto, si fanno strada altri temi di conversazione: commenti su film, riflessioni sui corteggiamenti propri o altrui, opinioni sulla domenica sportiva o sui fatti di quartiere, organizzazione delle partite di calcio, finanche pensieri sulla scuola. Da sempre intorno ai giochi prende forma la costruzione della vita sociale. Accade sulle spiagge, negli oratori, nei centri giovanili. Dunque si tratta di esperienze che in sé non vanno demonizzate. Perché la crescita ha luogo lì dove ogni generazione si misura con la costruzione dei suoi linguaggi, dei gusti e dei modi, fuori da casa, lontano da noi genitori. C´è il rischio di dipendenza? Certo che sì. Ma c´è anche quando il gioco avviene in casa.
Però l´inchiesta della polizia rivela la novità del gioco d´azzardo di minorenni con le macchine mangiasoldi. Se questa novità coinvolge anche ragazzini di famiglie bene non lo si sa. Alcune segnalazioni ci sono state in città del nord. Ma l´allarme sociale nasce quando sono i ragazzini poveri ad essere presi da questa dipendenza perché ne nascono scippi, rapine con coltelli sempre più diffusi, aggressioni di gruppo. Come accade per altre dipendenze. Sono atti che vanno repressi. Ma attenzione: le città sicure non sono quelle che promettono un controllo totale sui ragazzi chiusi dinanzi al video-gioco di casa. Sono quelle che reprimono il grande malaffare e che, al contempo, favoriscono libertà di movimento sicuro in città e spazi molteplici per chi è ragazzo. È una città dei bambini e dei ragazzi che fu promessa per Napoli, che altrove esiste, che si può riprendere a cercare, nonostante tutto.
Alcuni video giochi - slot machine e video-poker - sono osservati da tempo da chi si occupa di povertà perché sono creatori di dipendenza, capaci di sottrarre soldi a chi ne ha già pochi. Accade nel nord come nel sud di vedere un uomo terminare una giornata di lavoro in cantiere, una donna che finisce un turno delle pulizie, una casalinga con la busta della spesa, un giovane disoccupato fermarsi in un caffè e ogni volta immettere in queste macchine quattro o cinque euro almeno e magari vincere e rigiocare fino a che perde ancora. Chi gestisce questi arnesi ha, dunque, molto da guadagnare. E da noi è la camorra che ha i liquidi e la rete organizzativa per l´acquisto e il controllo di questo vasto mercato, che permette riciclaggio di denaro e nuovo profitto.
Così il monopolio di Stato sul gioco viene espropriato, a maggior ragione in quanto le macchine vengono taroccate: promettono vincite superiori ai limiti fissati dalla legge, mentre in realtà diminuiscono le probabilità di vincita. Questo ha scoperto un lungo e puntiglioso lavoro investigativo della questura di Napoli. Ma l´indagine ha soprattutto confermato quanto molti operatori sociali intuiscono da tempo: sono aumentate le rapine di minorenni anche perché c´è crescente dipendenza dei ragazzi dalle slot e video-poker. Il gioco, le sale gioco sono da decenni occasioni di aggregazione tra ragazzi. Ciò non è un male in sé. Può esserlo o no. Infatti ogni esperienza adolescenziale comporta rischi. Girare tutta la notte in auto può favorire sano divertimento e amicizia o essere pericoloso. Fermarsi le ore dinanzi ai bar può costituire la base per relazioni e progetti costruttivi o la premessa per avventure rischiose. Anche la sala giochi può essere luogo di socialità e apprendimento o di dipendenza e pericolo. A Napoli come a Milano, Londra, Nuova Delhi ogni volta che capita di entrare in un bar o in un luna park ci si rende conto come i ragazzini si mettono alla prova in molte cose contemporaneamente.
Mentre manovrano con velocità sconvolgente i videogiochi, spesso in gruppo, inviano messaggi sms per confrontarsi sul da fare o ascoltano musiche. Intrattengono conversazioni su punteggi o record o tecniche di gestione dei giochi. Ma le parole rimandano al governo delle relazioni, all´instaurarsi di gerarchie basate su abilità, conoscenza e competenza, a promesse di insegnamento. E, intanto, si fanno strada altri temi di conversazione: commenti su film, riflessioni sui corteggiamenti propri o altrui, opinioni sulla domenica sportiva o sui fatti di quartiere, organizzazione delle partite di calcio, finanche pensieri sulla scuola. Da sempre intorno ai giochi prende forma la costruzione della vita sociale. Accade sulle spiagge, negli oratori, nei centri giovanili. Dunque si tratta di esperienze che in sé non vanno demonizzate. Perché la crescita ha luogo lì dove ogni generazione si misura con la costruzione dei suoi linguaggi, dei gusti e dei modi, fuori da casa, lontano da noi genitori. C´è il rischio di dipendenza? Certo che sì. Ma c´è anche quando il gioco avviene in casa.
Però l´inchiesta della polizia rivela la novità del gioco d´azzardo di minorenni con le macchine mangiasoldi. Se questa novità coinvolge anche ragazzini di famiglie bene non lo si sa. Alcune segnalazioni ci sono state in città del nord. Ma l´allarme sociale nasce quando sono i ragazzini poveri ad essere presi da questa dipendenza perché ne nascono scippi, rapine con coltelli sempre più diffusi, aggressioni di gruppo. Come accade per altre dipendenze. Sono atti che vanno repressi. Ma attenzione: le città sicure non sono quelle che promettono un controllo totale sui ragazzi chiusi dinanzi al video-gioco di casa. Sono quelle che reprimono il grande malaffare e che, al contempo, favoriscono libertà di movimento sicuro in città e spazi molteplici per chi è ragazzo. È una città dei bambini e dei ragazzi che fu promessa per Napoli, che altrove esiste, che si può riprendere a cercare, nonostante tutto.
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