Anche il dibattito su questo piccolo blog mostra che in questi giorni alla Fiat di Pomigliano si è svolto un fatto decisivo e che è possibile e necessario favorire confronti e discussioni che, se fatti bene, possono fare cambiare e arricchire le posizioni, compresa la mia – che voleva rimarcare come i rapporti di forza erano una cosa importante, al di là di quel che si sente e si pensa ma che non ha visto altre cose.
Mi ha colpito, a tal proposito, un articolo di Guido Viale che va oltre le solite tifoserie. E che consiglio.
In generale questa vicenda è stata spesso raccontata in modo molto schematico, per slogan. Ci si è schierati, forse, ma più sulla sulla base di simpatie nuove o antiche che sulla base di informazioni nel merito.
Per questo sono contento che sia stato organizzato un seminario di approfondimento dei termini della vertenza Fiat: produzione, diritti, competizione, lavoro. Ci sarà una relazione illustrativa di Francesco Pirone (Università di Salerno) e sono previsti, tra gli altri, interventi di Davide Bubbico, Stefano Consiglio, Mario Mastrocecco, Biagio Quattrocchi, Enrico Rebeggiani, Luca Rossomando.
L'appuntamento è alla Facoltà di Sociologia di Napoli - giovedì prossimo, 1 luglio, alle ore 10:30.
29 giugno, 2010
11 giugno, 2010
I rapporti di forza e Pomigliano
Domenica scorsa sono salito sul solito treno che di notte attraversa l’Italia. I ragazzi di Napoli erano anche loro in partenza. Le mamme, le fidanzate, i fratellini più piccoli, i padri silenziosi che vanno a comprare l’acqua per non stare lì a guardarli partire, qualche nonna anche… Per una settimana, per due, per un mese staranno via. Per poi tornare un altro breve week end e ancora ripartire. Biglietto di seconda sull’espresso notturno. Raggiungono i lavori precari e mal pagati dell’Italia di oggi, in un Nord flagellato dalla cassa integrazione, dai licenziamenti nelle tante piccole aziende, dalla drammatica crisi del lavoro interinale.Sul treno parlano dei loro compagni di lavoro del Nord, diventati amici. Sono i loro coetanei appena sposati, che avevano da due o tre anni osato fare un mutuo per la casa. Casa piccola ma casa, con piccolissimi figli dentro. Che ora rischia l’ipoteca. “Lavorare in due, comprare una casa lì, poi si vede”. Questo è il programma civile e personale dei 6 napoletani per ogni mille abitanti che da quasi dieci anni vanno via dalla città. E’ il programma del decoro e della dignità del Sud. Che, nonostante la Lega, tanti coetanei dei nostri ragazzi, di Treviso o di Torino, di Piacenza o di Udine, hanno imparato ad apprezzare. E’ il programma dell’art. 1 della Costituzione: fondarsi sul lavoro. Ma oggi ripartono verso il Nord senza neanche quel programma. Perché vedono la fine di un orizzonte di speranza negli occhi dei loro coetanei settentrionali, spauriti dai morsi della crisi. Terribile, che più terribile non si può.
E in questo paesaggio, solcato da un’incertezza che investe il mondo intero, a pochi chilometri dalla nostra città - la quale non vede salvare né aprire un’industria da molti lustri, che conosce un tasso di disoccupazione, in particolare femminile, da terzo mondo e una percentuale di famiglie povere ben oltre un terzo dell’intera popolazione – si assiste da giorni alla mancata chiusura dell’accordo per lo stabilimento Fiat di Pomigliano d’Arco. Sulla cui vicenda solo qualche raro politico spende poche parole e nessun intellettuale un briciolo di attenzione. Una vergogna pari solo alla depressione civile che ci attanaglia.
Per il rispetto che si deve a quei ragazzi di Napoli in partenza e anche ai loro coetanei del Nord, vogliamo, per piacere – tutti - ricordare a noi stessi i termini nudi e crudi della vicenda di Pomigliano?
Le cose stanno come segue. La Fiat intende investire 700 milioni di euro per risanare una fabbrica da capo a piedi. E’ un’operazione che può garantire lavoro per diciotto anni. A 4700 operai. Il che significa che garantisce lavoro a altri 12.000 dell’indotto campano. Sono ventimila famiglie. Centomila persone almeno. Persone con un lavoro e una dignità qui. Che fanno il tessuto civile di un territorio. Ad altri 500 operai è stata garantita l’andata in pensione. Perché ne avevano i requisiti. A Pomigliano si vuole trasferire la produzione di massa della nuova panda, che sta per uscire, una produzione che si intende riportare in Italia dalla Polonia. Si tratta della produzione dell’utilitaria europea che ambisce al primato delle vendite continentali nella stagione della lunga crisi e della possibile ripresa. Si programmano duecento ottanta mila vetture l’anno. Vetture che promettono la migliore performance ecologica oggi a portata di mano, con motori misti, benzina, GPL, metano, a bassi costi di consumo, in molte versioni. La Fiat, per garantire queste ambizioni, di fronte a una concorrenza fortissima, chiede 280 giorni lavorati effettivi, a diciotto turni per 6 giorni a settimana. Ogni operaio avrà due giorni di riposo. L’accordo è a portata di mano. Si è già giunti a una dignitosa mediazione sulle pause passate da 40 a 30 minuti e sulla mensa a fine turno. Ora la Fiat chiede due cose. Che l’accordo sia esigibile e dunque assolutamente protetto dalle micro-conflittualità di azienda o di reparto. E che si dia un taglio all’assenteismo cosidetto anomalo. Che ha luogo quando, per esempio, c’è una partita di calcio o anche quando c’è uno sciopero in vista e all’improvviso aumentano le malattie a dismisura. Cose che rendono meno credibile la tenuta della produzione programmata.
Non è tempo di raccontare frottole sulla beltà della produzione contemporanea: la vita in fabbrica è dura, spesso insopportabile. Si esce stravolti. Ma viviamo in un tempo – è tanto brutto quanto necessario doverlo riconoscere – in cui la vita senza quel lavoro è peggio ancora. Di molto. Forse è davvero l’ora di dire che non ci sono scelte. E il mondo sindacale e politico deve saperlo dire. Forse ci sarà un nuovo ciclo espansivo. E si potranno ri-contrattare i termini delle cose. Ma non ora. Ora è il tempo della serietà davanti a quei ragazzi del Nord e del Sud. E’ il tempo di un patto forte e dichiarato tra produttori. Che salvi il lavoro e che contribuisca a rimettere il Mezzogiorno produttivo al centro della vicenda economica del Paese.
E in questo paesaggio, solcato da un’incertezza che investe il mondo intero, a pochi chilometri dalla nostra città - la quale non vede salvare né aprire un’industria da molti lustri, che conosce un tasso di disoccupazione, in particolare femminile, da terzo mondo e una percentuale di famiglie povere ben oltre un terzo dell’intera popolazione – si assiste da giorni alla mancata chiusura dell’accordo per lo stabilimento Fiat di Pomigliano d’Arco. Sulla cui vicenda solo qualche raro politico spende poche parole e nessun intellettuale un briciolo di attenzione. Una vergogna pari solo alla depressione civile che ci attanaglia.
Per il rispetto che si deve a quei ragazzi di Napoli in partenza e anche ai loro coetanei del Nord, vogliamo, per piacere – tutti - ricordare a noi stessi i termini nudi e crudi della vicenda di Pomigliano?
Le cose stanno come segue. La Fiat intende investire 700 milioni di euro per risanare una fabbrica da capo a piedi. E’ un’operazione che può garantire lavoro per diciotto anni. A 4700 operai. Il che significa che garantisce lavoro a altri 12.000 dell’indotto campano. Sono ventimila famiglie. Centomila persone almeno. Persone con un lavoro e una dignità qui. Che fanno il tessuto civile di un territorio. Ad altri 500 operai è stata garantita l’andata in pensione. Perché ne avevano i requisiti. A Pomigliano si vuole trasferire la produzione di massa della nuova panda, che sta per uscire, una produzione che si intende riportare in Italia dalla Polonia. Si tratta della produzione dell’utilitaria europea che ambisce al primato delle vendite continentali nella stagione della lunga crisi e della possibile ripresa. Si programmano duecento ottanta mila vetture l’anno. Vetture che promettono la migliore performance ecologica oggi a portata di mano, con motori misti, benzina, GPL, metano, a bassi costi di consumo, in molte versioni. La Fiat, per garantire queste ambizioni, di fronte a una concorrenza fortissima, chiede 280 giorni lavorati effettivi, a diciotto turni per 6 giorni a settimana. Ogni operaio avrà due giorni di riposo. L’accordo è a portata di mano. Si è già giunti a una dignitosa mediazione sulle pause passate da 40 a 30 minuti e sulla mensa a fine turno. Ora la Fiat chiede due cose. Che l’accordo sia esigibile e dunque assolutamente protetto dalle micro-conflittualità di azienda o di reparto. E che si dia un taglio all’assenteismo cosidetto anomalo. Che ha luogo quando, per esempio, c’è una partita di calcio o anche quando c’è uno sciopero in vista e all’improvviso aumentano le malattie a dismisura. Cose che rendono meno credibile la tenuta della produzione programmata.
Non è tempo di raccontare frottole sulla beltà della produzione contemporanea: la vita in fabbrica è dura, spesso insopportabile. Si esce stravolti. Ma viviamo in un tempo – è tanto brutto quanto necessario doverlo riconoscere – in cui la vita senza quel lavoro è peggio ancora. Di molto. Forse è davvero l’ora di dire che non ci sono scelte. E il mondo sindacale e politico deve saperlo dire. Forse ci sarà un nuovo ciclo espansivo. E si potranno ri-contrattare i termini delle cose. Ma non ora. Ora è il tempo della serietà davanti a quei ragazzi del Nord e del Sud. E’ il tempo di un patto forte e dichiarato tra produttori. Che salvi il lavoro e che contribuisca a rimettere il Mezzogiorno produttivo al centro della vicenda economica del Paese.
09 giugno, 2010
Il Sud tagliato fuori
Ho deciso di riportare questo appello urgente. Che riguarda la vita del Sud e che la riguarderà a lungo. Si chiama: “Oggi Federalismo fiscale, Sud ai margini”. E’ una lettera aperta ai Parlamentari e ai Presidenti di Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise e Puglia. E’ stata scritta dai responsabili del Mezzogiorno (Marco Esposito – Idv, Umberto Ranieri – Pd, Arturo Scotto – Sel) dei partiti dell’opposizione e da Gianni Pittella, vicepresidente del Parlamento Europeo. Che stanno assolvendo, per una volta, alla loro funzione. E’ impressionante come neanche le forme minime vengano più rispettate…
E’ in preparazione il decreto sui tributi locali che attua il federalismo fiscale. A tale appuntamento si arriva con un forte squilibrio territoriale visto che sei Regioni del Sud sono tenute ai margini del tavolo politico e di quello tecnico, nonostante lo spirito di collaborazione mostrato da forze politiche, anche di opposizione, come conferma il voto di Pd e Idv sul federalismo demaniale.
Ecco i fatti. Nella Commissione bicamerale sul federalismo i parlamentari di Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania Molise e Puglia non sono rappresentati né nel gruppo di presidenza (presidente siciliano, vicepresidenti siciliano e veneto) né nei componenti della segreteria (Lazio e Friuli). E’ noto che la Sicilia, come tutte le Regioni a statuto speciale, ha problematiche diverse, al punto che i decreti delegati non si applicano alle Regioni autonome.
Nella Copaff, la Commissione tecnica paritetica per l’attuazione del federalismo fiscale, lo squilibrio è ancora più vistoso. Le nomine del Governo vedono 14 componenti scelti da ministri del Centronord contro uno indicato da un ministro del Sud. Le nomine degli enti locali garantiscono la presenza di tre Regioni del Sud (Calabria, Campania e Molise), tuttavia al momento della nomina del Consiglio di presidenza della Copaff il Sud è azzerato mentre la Lombardia ha quattro componenti su cinque e cioè il presidente (Luca Antonini, scelto da Tremonti), il vicepresidente (il più anziano dei componenti indicati da Tremonti), il terzo rappresentante del governo (scelto da Bossi), il rappresentante delle Regioni, indicato in quello della Lombardia, mentre il rappresentante del Comuni è scelto dall’Anci di Roma. La Copaff per regolamento va convocata “almeno una volta al mese”. Tra gennaio e maggio si è invece riunita in sede plenaria, cioè con i rappresentanti del Sud, solo una volta. Le sedute del Consiglio di presidenza sono state invece otto.
La Copaff ha dato vita inoltre a sei gruppi di lavoro. Significativo il fatto che tra i componenti indicati dalle Regioni il rappresentante della Lombardia (Antonello Turturiello, consulente di Formigoni) coordina due gruppi di lavoro mentre quello della Calabria (Gaetano Stornaiuolo) non è inserito in nessun gruppo. Clamorosa, infine, è la composizione del gruppo sulla Perequazione, tema chiave per il Mezzogiorno. I coordinatori sono scelti da Tremonti e Formigoni e le Regioni rappresentate sono Liguria, Emilia Romagna e Lazio. Il Sud è assente.
E’ in preparazione il decreto sui tributi locali che attua il federalismo fiscale. A tale appuntamento si arriva con un forte squilibrio territoriale visto che sei Regioni del Sud sono tenute ai margini del tavolo politico e di quello tecnico, nonostante lo spirito di collaborazione mostrato da forze politiche, anche di opposizione, come conferma il voto di Pd e Idv sul federalismo demaniale.
Ecco i fatti. Nella Commissione bicamerale sul federalismo i parlamentari di Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania Molise e Puglia non sono rappresentati né nel gruppo di presidenza (presidente siciliano, vicepresidenti siciliano e veneto) né nei componenti della segreteria (Lazio e Friuli). E’ noto che la Sicilia, come tutte le Regioni a statuto speciale, ha problematiche diverse, al punto che i decreti delegati non si applicano alle Regioni autonome.
Nella Copaff, la Commissione tecnica paritetica per l’attuazione del federalismo fiscale, lo squilibrio è ancora più vistoso. Le nomine del Governo vedono 14 componenti scelti da ministri del Centronord contro uno indicato da un ministro del Sud. Le nomine degli enti locali garantiscono la presenza di tre Regioni del Sud (Calabria, Campania e Molise), tuttavia al momento della nomina del Consiglio di presidenza della Copaff il Sud è azzerato mentre la Lombardia ha quattro componenti su cinque e cioè il presidente (Luca Antonini, scelto da Tremonti), il vicepresidente (il più anziano dei componenti indicati da Tremonti), il terzo rappresentante del governo (scelto da Bossi), il rappresentante delle Regioni, indicato in quello della Lombardia, mentre il rappresentante del Comuni è scelto dall’Anci di Roma. La Copaff per regolamento va convocata “almeno una volta al mese”. Tra gennaio e maggio si è invece riunita in sede plenaria, cioè con i rappresentanti del Sud, solo una volta. Le sedute del Consiglio di presidenza sono state invece otto.
La Copaff ha dato vita inoltre a sei gruppi di lavoro. Significativo il fatto che tra i componenti indicati dalle Regioni il rappresentante della Lombardia (Antonello Turturiello, consulente di Formigoni) coordina due gruppi di lavoro mentre quello della Calabria (Gaetano Stornaiuolo) non è inserito in nessun gruppo. Clamorosa, infine, è la composizione del gruppo sulla Perequazione, tema chiave per il Mezzogiorno. I coordinatori sono scelti da Tremonti e Formigoni e le Regioni rappresentate sono Liguria, Emilia Romagna e Lazio. Il Sud è assente.
01 giugno, 2010
Indignazione e angoscia
Sono, ad un tempo, fortemente indignato e molto angosciato per l’attacco della marina israeliana in acque internazionali contro chi portava qualche ristoro a Gaza. La responsabilità di quanto accaduto è di Israele e solo sua. E’ giusta l’indignazione. Sono azioni abiette. E non si tratta solo di errore militare. Forse a Israele le cose sono sfuggite di mano perché ormai non fa più politica; forse, invece, stava facendo politica e voleva tenere chiuse le “proximity talks”, le timide speranze che Obama cerca di rimettere in campo fornendo, intanto, un’occasione per una prima ri-partenza del buon senso. Comunque sia, quella che Israele sta mostrando è una politica abietta.
Abietta e anche miope. Infatti questa azione dice molto sul governo di Israele attuale. Vi sono forti critiche in Israele contro questo governo. E l’opposizione va sostenuta nella sua fatica. Ma è un governo che è stato votato. Come Berlusca da noi. E vi è un legame tra una maggioranza di una nazione, per quanto non schiacciante, che vede le cose così e gli atti di un governo. Così, non solo per la Palestina e per il Medio Oriente ma anche per Israele, Netanyahu è una vera iattura. Perché raccoglie il peggio del sentire miope e lo moltiplica, impedendo una prospettiva di pace. E crea presupposti seri per l’aggravarsidell’isolamento di Israele, il quale Israele - mentre danneggia i suoi vicini e porta strazio tra i palestinesi – così contribuisce a moltiplicare, al contempo, tutte le componenti estremiste del Medio Oriente. E dà ossigeno a chi non vuole Israele e basta, toglie possibilità e prospettive evolutive al quadro per lunghi anni a venire. Come dicevano i latini: “Quos Deus vult perdere, dementat prius”. Quando il Dio vuole perderti, per prima cosa ti rende folle.
Abietta e anche miope. Infatti questa azione dice molto sul governo di Israele attuale. Vi sono forti critiche in Israele contro questo governo. E l’opposizione va sostenuta nella sua fatica. Ma è un governo che è stato votato. Come Berlusca da noi. E vi è un legame tra una maggioranza di una nazione, per quanto non schiacciante, che vede le cose così e gli atti di un governo. Così, non solo per la Palestina e per il Medio Oriente ma anche per Israele, Netanyahu è una vera iattura. Perché raccoglie il peggio del sentire miope e lo moltiplica, impedendo una prospettiva di pace. E crea presupposti seri per l’aggravarsidell’isolamento di Israele, il quale Israele - mentre danneggia i suoi vicini e porta strazio tra i palestinesi – così contribuisce a moltiplicare, al contempo, tutte le componenti estremiste del Medio Oriente. E dà ossigeno a chi non vuole Israele e basta, toglie possibilità e prospettive evolutive al quadro per lunghi anni a venire. Come dicevano i latini: “Quos Deus vult perdere, dementat prius”. Quando il Dio vuole perderti, per prima cosa ti rende folle.
So che c’è un’altra scuola di pensiero – quella che ritiene che Israele è questo e null’altro. Non la penso così. Non è tutto determinato sempre. E Israele è una società complicata e varia, con molta opposizione, anche non radicale. Fallimento, disastro, fiasco sono le parole ricorrenti sulle odierne pagine dei giornali israeliani. I punti di vista sono, certo, molteplici, spesso contrastanti ma su una cosa esperti e analisti concordano: non doveva finire in questo modo. Un´affermazione che sembra retorica quando si parla di vittime, morti e feriti ma che nasconde il problema del futuro di Israele e la sua legittimazione a usare la forza.Per esempio dalle colonne del moderato popolare Yediot Ahronot arriva la critica di Eitan Haber, noto giornalista israeliano ed esperto in questioni militari, che scrive "Israele ha sempre una sola soluzione a ogni problema: la forza, l'esercito… Ci saranno quelli che diranno `lo stato non deve esitare. Ora avranno ancora più paura di noi´. Chi pensa in questo modo e chi cede a questa tentazione vive in un epoca passata; conviene che si svegli da questi sogni devianti. Noi viviamo nel 2010 e la risposta dell´esercito di ieri mattina appartiene al secolo scorso".
Vi sono poi i difensori di Israele sempre e comunque. Assumono la posizione speculare a quella anti-israeliana “a prescindere”. Non la penso nemmeno così. Perciò: su quella nave vi erano – legittimamente - persone di pace insieme a persone non necessariamente tali. E avranno pure brandito qualche mazza ferrata per rabbia. Ma non è questa la vera questione. La vera questione è che si è trattato di un’aggressione ancora una volta sproporzionata, inaccettabile.
Ma, più ancora, la vera questione è che il popolo palestinese deve avere la sua terra e l’embargo di Gaza è intollerabile. E questa vera questione deve fare dire che - nonostante errori palestinesi nelle passate tornate della storia negoziale e nonostante le arroganze di Israele o quanto altro - la Palestina deve avere un suo stato vero e va imposto a Israele di rimettersi a un tavolo di trattativa che sia tale.
Poi non sono ingenuo. Non tutto dipende da Israele. Anche se è utile richiamare il principio secondo il quale chi è più forte deve essere colui che si muove per primo con generosità. Vi sono nemici della pace nel mondo arabo, che da decenni usano i palestinesi senza alcuno scrupolo, per nascondere e rimandare le possibili soluzioni delle contraddizioni e delle pene, sociali e civili, dentro le proprie società. I conflitti verso l’esterno da sempre servono a questo. E tali forze, oggi, sono di fatto convergenti con quanto fa Netanyahu.
Sono contro l’embargo a Gaza. E, al contempo, non ho alcuna simpatia per Hamas. So che la sua ascesa è dovuta ad errori e corruttele cresciute sotto Arafat e presenti in Fatah e in altri (ma anche all’iniziale sostegno della stessa Israele che la ha foraggiata contro l’OLP). Non ho alcuna simpatia per Hamas perché è un integralismo religioso che ripudia la cultura dei diritti e persegue finalità politiche su base messianica. E la penso così anche se so che vi è una vera azione di sviluppo locale che Hamas propone e che spiega il suo radicamento.
Così, come Netanyahu per Israele, penso che anche Hamas sia una iattura perché la sua miopia politica impedisce al popolo palestinese di avere la prospettiva che merita. La questione delle classi dirigenti – come la chiamava Gramsci – è parte della questione palestinese e così come non tutto di Israele dipende dall’estremismo degli altri nell’area, non tutto della Palestina dipende dall’oppressione di Israele.
Il mondo e questo tempo sono complessi. Ma resta il fatto che avvengono tristi e terribili cose quando la politica è povera di speranza e generosità, quando manca una politica che sappia farsi proposta, intelligenza nell’agire. E la politica è povera di speranza e di intelligenza nell’agire quando non vuole o non sa vedere l’altro da sé e non sa, perciò, individuare i legami e le prospettive che, sia pur faticosamente, possano mettere insieme il sé e l’altro da sé. Oltre l’indignazione, è questo che angoscia.
Vi sono poi i difensori di Israele sempre e comunque. Assumono la posizione speculare a quella anti-israeliana “a prescindere”. Non la penso nemmeno così. Perciò: su quella nave vi erano – legittimamente - persone di pace insieme a persone non necessariamente tali. E avranno pure brandito qualche mazza ferrata per rabbia. Ma non è questa la vera questione. La vera questione è che si è trattato di un’aggressione ancora una volta sproporzionata, inaccettabile.
Ma, più ancora, la vera questione è che il popolo palestinese deve avere la sua terra e l’embargo di Gaza è intollerabile. E questa vera questione deve fare dire che - nonostante errori palestinesi nelle passate tornate della storia negoziale e nonostante le arroganze di Israele o quanto altro - la Palestina deve avere un suo stato vero e va imposto a Israele di rimettersi a un tavolo di trattativa che sia tale.
Poi non sono ingenuo. Non tutto dipende da Israele. Anche se è utile richiamare il principio secondo il quale chi è più forte deve essere colui che si muove per primo con generosità. Vi sono nemici della pace nel mondo arabo, che da decenni usano i palestinesi senza alcuno scrupolo, per nascondere e rimandare le possibili soluzioni delle contraddizioni e delle pene, sociali e civili, dentro le proprie società. I conflitti verso l’esterno da sempre servono a questo. E tali forze, oggi, sono di fatto convergenti con quanto fa Netanyahu.
Sono contro l’embargo a Gaza. E, al contempo, non ho alcuna simpatia per Hamas. So che la sua ascesa è dovuta ad errori e corruttele cresciute sotto Arafat e presenti in Fatah e in altri (ma anche all’iniziale sostegno della stessa Israele che la ha foraggiata contro l’OLP). Non ho alcuna simpatia per Hamas perché è un integralismo religioso che ripudia la cultura dei diritti e persegue finalità politiche su base messianica. E la penso così anche se so che vi è una vera azione di sviluppo locale che Hamas propone e che spiega il suo radicamento.
Così, come Netanyahu per Israele, penso che anche Hamas sia una iattura perché la sua miopia politica impedisce al popolo palestinese di avere la prospettiva che merita. La questione delle classi dirigenti – come la chiamava Gramsci – è parte della questione palestinese e così come non tutto di Israele dipende dall’estremismo degli altri nell’area, non tutto della Palestina dipende dall’oppressione di Israele.
Il mondo e questo tempo sono complessi. Ma resta il fatto che avvengono tristi e terribili cose quando la politica è povera di speranza e generosità, quando manca una politica che sappia farsi proposta, intelligenza nell’agire. E la politica è povera di speranza e di intelligenza nell’agire quando non vuole o non sa vedere l’altro da sé e non sa, perciò, individuare i legami e le prospettive che, sia pur faticosamente, possano mettere insieme il sé e l’altro da sé. Oltre l’indignazione, è questo che angoscia.
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