19 dicembre, 2008

Cinquecentoottantaquattro ragioni per andarsene

Ieri c’è stata una buona occasione pubblica di confronto, teso ma sempre civile. Abbiamo fatto bene a organizzare questa prima piccola cosa perché la città ha disperato bisogno di parola, di politica vera, di esplorare, sia pure faticosamente, possibilità. Vi è e vi sarà un lutto da superare, delle rovine da rimuovere prima di ricostruire. E per fare queste cose ci vogliono spazi per le parole e gesti di civile confronto e anche di gentilezza e di rispetto nel normale conflitto tra persone tra loro diverse. Spazi lontani da interessi incombenti e dall’ossessione dell’appartenenza e della fedeltà.

Ho letto, saltando qui e lì, le 584 pagine (che sono sul corriere in pdf)
dell’ordinanza di rinvio a giudizio degli amministratori della giunta Iervolino e dei loro supposti amici in affari di cui tutta Italia parla, che è prima notizia su ogni media e che ha spinto l’acceleratore sulla crisi apicale del primo partito di opposizione di questo nostro povero Paese.
Ne traggo per ora alcune considerazioni:
1 – Sono tutti innocenti fino a prova contraria. Ma altrettanto fino a prova contraria l’articolo 54 della Costituzione – che recita “i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore” - era l’ultimo dei loro pensieri perché da quelle carte si evince, al di là di ogni ragionevole dubbio, che l’interesse generale e l’onore non sono mai state cose presenti nella loro testa e nel loro agire. Mai.
2 – Un sindaco, eletto dal popolo in via diretta e che sceglie i suoi assessori e ci lavora, che non capisce o non vuole comprendere che un numero che si avvicina a metà della sua giunta è composto da persone che disonorano la funzione – per come parlano, per come considerano le cose del mondo e della città per come sono abituati a ragionare, ben al di là della questione penale e dunque della colpa o innocenza - oggi, di fronte a cotanta evidenza, deve lasciare il campo e subito. E quanto più questo sindaco è personalmente estranea e onesta tanto più rapidamente deve andarsene.
3 – Dinanzi a cose così macroscopiche c’è il dovere di dare priorità al metodo che è alla base della sostanza stessa della democrazia. I ragionamenti che leggo e sento sul fatto che se ci si dimette ora vincerebbe la destra o altre cose del genere sono fuori dalla cultura costituzionale. Il sindaco è una giurista. Conosce queste cose bene.
4 – Quando vi è anche solo il sospetto – e in quelle carte vi è ben più di questo - che è in gioco la credibilità e l’onorabilità delle istituzioni, il ragionar sulla convenienza partitica è cosa fuori luogo. Non si va a Roma a decidere nel chiuso delle stanze di partito.
Non si va a ragionare con altre cariche istituzionali quali il presidente della regione su cosa sia più conveniente. E non si cerca appoggio qui o lì. Se anche la scelta fosse quella di restare, in ogni caso la si prende misurandosi con i cittadini della città che ti hanno eletto e con nessun altro.
5 – Ciò significa anche che se prevale da parte della cittadinanza, al di là di ogni appartenenza, un senso di distanza dalle istituzioni cittadine e dal tuo operare e di disperazione o addirittura di profonda mortificazione e vergogna per lo stato in cui versa la città che tu hai governato per molti anni e comunque non si manifesta certo un senso di speranza né di rinnovata fiducia in te, ebbene è a queste cose che devi rispondere in un tal momento. E anche qui: a maggior ragione se sei personalmente estranea alle specifiche e gravi ragioni della crisi.

15 dicembre, 2008

Ma dopo ci sarà il futuro?

E' confermato: ci potremo vedere per discutere giovedì prossimo.

Come uscire dal disastro? Quale futuro politico per Napoli?

Decidiamo Insieme organizza un dibattito pubblico.

Interverranno tra gli altri: Enzo Amendola, coordinatore di Red; Aldo Policastro magistratura democratica, segnali di fumo; Maurizio Zanardi, filosofo della politica; Leonardo Impegno, presidente del consiglio comunale e il soprascritto.
Seguirà dibattito.

Giovedì 18 dicembre dalle 17,30 alle 20,00
Sala della seconda Municipalità in piazza Dante

Siamo tutti invitati. Invitate tutti.

14 dicembre, 2008

due pensieri su Napoli

E’ un po’ di giorni che non mi faccio sentire. Alle volte si è stanchi.
E nei prossimi giorni dirò qualcosa del ‘ritiro della Gelmini’.
Intanto due pensieri su Napoli.
Il primo mi viene dal fatto che una persona senza fissa dimora è morta per strada nella ‘umanissima’ Napoli. Dove non c’è alcuna politica né alcun percorso amministrativo sensato verso i più poveri tra i poveri.
La seconda riguarda l’episodio, raccapricciante, del ferimento grave agli chalet di Mergellina. Terribile. Feriti o uccisi per caso in una grande città… In varie persone molte volte abbiamo scritto articoli di denuncia sulle frequenti sparatorie nei Quartiri Spagnoli o alla Sanità o a San Carlo Arena o a Soccavo o a Scampia ecc. Che mettono in pericolo o feriscono o ammazzano persone che non c’entrano nulla. E mi ha sempre colpito quanto, per tanti, queste sono state cose comunque lontane e ‘altre’ da quel che è la comune metropoli che, invece, abitiamo. Ma appena vi è una sparatoria che ferisce qualcuno fuori dalle periferie o dal chiuso dei ‘ghetti interni’ si grida, all’improvviso, allo scandalo e lo si fa per il fatto che tutta Napoli sarebbe diventata periferia… E, sotto sotto – nell’additare il male nelle periferie in quanto tali e non nella comune metropoli - non si mostra tanto una sacrosanta rabbia contro le specifiche persone criminali che sparano e feriscono in un locale pubblico quanto con tutta la gente di periferia che osa frequentare i luoghi topici di Napoli. Come dire: “tutto ciò accade perché costoro non se ne stanno più in periferia”. E non viene in mente che chi gira in quel modo con le pistole minaccia e opprime ogni giorno migliaia di persone che in quelle periferie abitano.
Queste tristi cose mi colpiscono di più del gran parlare nel pd campano. O del futuro di un ceto politico che, come ho detto in un’intervista a repubblica nazionale, dovrebbe per intanto sgombrare il campo…
… certo, poi resta il problema del dopo. E del dopo, anzi dello star meglio da subito, si parlerà a segnali di fumo il 16 dicembre martedì.

Ma di "Cosa fare e con chi?" si parlerà anche giovedì 18 dicembre alle 18, probabilmente presso la seconda municipalità a piazza Dante (a breve la conferma del luogo) con Zanardi, Policastro, Impegno, Amendola e il sottoscritto. Con dibattitto.

30 novembre, 2008

Come una pestilenza

Nei giorni scorsi vi erano state le dimissioni dell’assessore Cardillo che ha retto per anni il bilancio della città. E non ho potuto che pensare, con un senso di vero sgomento, al terrificante debito pubblico che ha lasciato ai nostri ragazzi.

Poi ieri si è ucciso l’assessore Nugnes. E non ho pensato alle imputazioni della magistratura contro di lui. Né mi è venuto di escogitare interpretazioni o di azzardare dietrologie. Quando una persona si toglie la vita – perché non ce la fa a reggere il peso di ciò che gli è intorno misurandolo con quel che ha dentro - vi è sempre un elemento radicale di mistero e di dolore. E io sarò molto all’antica e poco politico ma ho pensato ai suoi estremi minuti, ai giorni terribili che li hanno preceduti, ai suoi figli che vivranno senza il padre.
Così ho letto e anche condiviso molte considerazioni e commenti.
Ma quel che sento è un senso di soffocamento più forte di ogni ragionevole considerazione, qualcosa di oppressivo in modo pre-politico, semplicemente umano.
E’ come se si stesse tutti impotenti, imprigionati da una pestilenza che, infida, sta già qui e che può ancora espandersi. E’ un marasma diffuso che, ogni volta negato a gran voce, viene invece puntualmente confermato dalle atmosfere che ci affliggono oltre che dagli eventi. Una pestilenza che minaccia la possibilità stessa di avere uno spazio pubblico e di esercitarvi le volontà nell’interesse generale, secondo regole, in un clima civile.
Insieme ai suoi artefici, un’intera modalità della politica forse ne sarà travolta da questa pestilenza. Ma anche la città tutta e noi ne siamo e ne saremo vittime. Sarà dolorosa e lunga la constatazione dei danni. E ancor più la riparazione.

20 novembre, 2008

Convincetemi che, forse, ci sono ancora vie da esplorare

Lo so già che quello che sto per dire può apparire poco ragionevole e tanto naif. Ma ancora una volta – forse proprio a dispetto di tutto quello che vediamo in giro - mi fermo a pensare alla nozione di ‘speranza’. Ci penso prima e di più che alla politica o a quella cosa lì che chiamano così e che invece non lo è perché è più incattivita che smaliziata, più piena di teoremi che di confronto, più dedita al mantenimento del potere che al suo legittimo uso per fare le cose, più rivolta all’interesse dei singoli che all’uso delle capacità singole per l’interesse comune.

“La politica è un’altra cosa”. Questa frase la si butta addosso a chiunque, povero ingenuo, vuole un altro tipo di politica o ci spera. Ma può essere rivoltata. Esattamente: la politica è proprio un’altra cosa.
Ma è possibile? Can we or can’t we? Possiamo o non possiamo? Questa è la questione.

Beh, io non riesco a togliermi di testa che Obama fino a pochi anni fa faceva l’animatore di comunità a South Chicago. Dove da anni lavorava sulla base di un’idea fattiva di potenziamento democratico dal basso e della capability building, la costruzione di capacità, anche contro la normale paura umana di cambiare… A partire da teorie e lunghe pratiche di un suo maestro che è stato un altro signore di Chicago, certo Saul D. Alinsky
O si crede che Obama sia uscito dall’uovo di Pasqua? O da una forma di super ‘cazzimma’ politica buona che può essere solo statunitense?

Si sa che, insieme ad altri, in modi assai vari e diversi, nell’italianissima Partenope, ben lungi dai luoghi americani della grande tradizione partecipativa, faccio parte di quelli che hanno continuato a pensare e ad agire per costruire capacità dal basso e a insistere nel pensare e nel dire che questa è la politica di cui c’è disperato bisogno.

Ma torniamo al ‘possiamo o non possiamo’ e alla speranza. Come può ritornare la speranza?
Mi piacerebbe che proprio di questo ci si interrogasse. Partendo ancora una volta da noi. E da Napoli com’è.
Facciamo per una volta delle domande pertinenti, di cui non abbiamo già le risposte.
Ci sono buoni argomenti per confutare l’idea che per farla riemergere la speranza… serve un po’ di santa indignazione e altrettanta ingenuità propositiva e anche, però, di teoria, linguaggio, stile e metodo davvero innovativi? Ma, al tempo stesso, quali sono i nessi possibili tra capacity building e rappresentanza, qui da noi?
Ecco: convincetemi che per far rinascere speranza ci vuole per forza tanta ‘cazzimma’ navigata, buonissima tattica, uso della famosa immagine e frequentazione costante del potere. O, al contrario, convincetemi che basta fare tante belle cose ‘dal basso’. Oppure convincetemi che, forse, ci sono ancora vie da esplorare….

18 novembre, 2008

Quale passo di danza sull’emergenza istruzione nel Sud?

In attesa di capire se ci sarà un’iniziativa intorno ai temi del post precedente, torno sull’argomento sollevato dagli stati generali della scuola del Sud tenuti a Castel Volturno.
E mi concentro sul merito. Cosa possono concretamente fare le regioni del Sud per la scuola, la formazione e per un primo lavoro legale e dove si impara?
Nel mio intervento lì e in una serie di altri suggerimenti scritti avevo ipotizzato delle misure. Le riporto:

1. Va finalmente fatta ovunque l’anagrafe dei bambini e ragazzi che hanno diritto all’istruzione pubblica da 3 a 16 anni.
2. Si deve subito poter fornire un’occasione – una scuola di seconda opportunità - a tutti quelli che sono minori di età e che hanno già abbandonato la scuola e la formazione. Riproporre loro la scuola standard come per gli altri è inutile. Non ci riescono a starci dentro e se ne rivanno.
3. Vanno sostenute tutte le attività che funzionano a favore dei nostri ragazzi e rafforzate le reti tra scuole e con le altre agenzie dei territori quali la formazione professionale, i centri sportivi e giovanili, le associazioni, le parrocchie entro consorzi finalizzati a raggiungere chi è fuori da ogni formazione e povero di istruzione e di sostegno adulto competente (soldi diretti a chi fa le cose, come fu per la prima 285/97 ma con un monitoraggio esterno forte e imparziale).
4. Va creata una comune regia tra le regioni meridionali sui temi, tra loro integrati, della pubblica istruzione, sanità, welfare. Che ottimizzi le risorse che sono oggi sparpagliate in cento rivoli e capitoli di spesa centrali e locali.
5. Al contempo la situazione richiede un atto simbolico unilaterale delle regioni del sud a protezione e difesa dei suoi bambini e ragazzi e di quei bambini e ragazzi che, migranti, raggiungono le nostre coste. Ci vuole subito un ombudsperson, un garante per l’infanzia e l’adolescenza nel Sud e del Sud che concentri il lavoro sui diritti dei bambini, dei ragazzi e delle giovani persone povere, italiani e stranieri, escluse di fatto dai diritti.
6. Vanno costruite, con lo strumento delle leggi regionali, vere e proprie “zone di educazione prioritaria”, sul modello francese, nelle aree delle nostre regioni dove più drammatica e annosa è la crisi dei diritti dei bambini ed adolescenti poveri e dove tale stato di cose genera maggiore allarme sociale: Napoli, Caserta, Cagliari, la Locride, Crotone, Reggio Calabria, Bari, Taranto, Palermo, Catania, Gela, Ragusa eccetera.
7. Bisogna favorire azioni straordinarie rivolte ai genitori poveri e, in particolare, alle mamme giovani a sostegno della loro funzione di cura insostituibile a partire dalle scuole dell’infanzia e primarie.
8. Ci vogliono più asili nido e più scuole dell’infanzia; ci vogliono più maestre e maestri elementari e più professori delle medie. Meglio pagati. Organizzati per aiutare ciascuno innanzitutto nell’alfabetizzazione strumentale e culturale di base (gli obiettivi di apprendimento da perseguire in via prioritaria, pena l’esclusione precoce da ogni opportunità nella vita, sono quelli delle indicazioni nazionali e quelli OCSE sulla lingua materna, la matematica, le scienze e il problem solving).
9. Si deve lanciare un grande patto nazionale tra le nostre regioni, i sindacati, le imprese, gli istituti di credito per dare avvio a misure straordinarie di learnfare – un welfare dell’apprendimento - fuori e dentro il lavoro. Con la parola d’ordine “il primo lavoro deve essere legale”. Si tratta di prevedere ore obbligatorie, pagate, di alfabetizzazione e apprendimento professionale per chi ha lasciato la scuola troppo presto. Si tratta anche di favorire contratti veri e propri, di studio-lavoro per i giovani di 17 anni che abbiano completato il nuovo obbligo, impegnandoli in un monte ore di formazione incentrato sulle competenze professionali e di cittadinanza e combinate con ore di lavoro retribuito con contratto legale, che consenta l’affrancamento dal lavoro nero e da altri rischi.
10. Va favorita la effettiva costituzione di auto-imprese individuali e/o solidali, basate su misure a sostegno dell'avvio e di accompagnamento almeno triennale e che prevedano la continuità dei processi formativi, potenziate anche da un sistema di piccoli prestiti restituibili.

Queste e altre proposte di merito si sono nominate, da parte di tanti. Ma va riconosciuto che Castel Volturno è stata prevalentemente un’occasione per l’ indignazione e l’incontro. E gli amministratori regionali hanno favorito una dimensione “da movimento” e da coordinamento. Va bene. Ma non basta. Infatti la risposta ai tagli del governo nazionale ha bisogno proprio di una capacità di governo e anche legislativa da parte delle regioni meridionali.
Su questo la Sardegna – non presente agli stati generali – appare forse più avanti e più concreta. Il presidente Soru ha già fatto passare un decreto esemplare: scuole primarie e medie a tempo pieno in tutta l’isola dall’anno prossimo, con le ore concentrate proprio sulle competenze alfabetiche. Erano stati aboliti 27 carrozzoni delle comunità montane e con un risparmio di 15 milioni di euro annui si è armata la delibera sul tempo pieno per tutti. Mi pare che sia questo il passo di danza da seguire.

14 novembre, 2008

Riflettere sulle liste civiche ma senza secondi fini


Da tempo in molti prospettano il lancio di lista o liste civiche a Napoli.
Su ciò sono stato intervistato dal Corriere del Mezzogiorno di ieri, ripreso da d.l. con il bel titolo "Civicness (?)"… con tanto di punto interrogativo, e di nuovo stamattina ne ho parlato via radio con Norberto Gallo.

La sostanza della faccenda va riassunta in tre punti:
1 – chi oggi propone queste liste non ha alcuna tradizione civica ma è ceto di apparato politico; dunque dice di fare una cosa ma è immerso culturalmente e politicamente in un’altra;
2 - molti che propongono liste vogliono farlo trasversalmente a destra e sinistra, attaccando, di fatto, il bipolarismo;
3 – nessuno di costoro fa analisi sobria e severa degli ultimi anni di amministrazione comunale, provinciale e regionale a Napoli né individua temi, contenuti, proposte né tanto meno modalità partecipative su cui in genere si cimentano le liste civiche.

Penso che sarebbe cosa seria e forse doverosa - a questo punto - che chi ha fatto l’esperienza autentica di una lista civica, in primis Decidiamo Insieme (ma forse anche altri) facesse di nuovo un bilancio onesto dell’esperienza, in un luogo pubblico, fornendo documentazione e consentendo un dibattito libero sull’argomento. E dunque senza secondi fini.
Ne siamo capaci? Magari entro l’anno solare?

10 novembre, 2008

Miriam Makeba (Johannesburg 1932 - Castel Volturno 2008)

Ho partecipato agli stati generali per la scuola del Sud.
Che sono finiti con l’ultimo concerto di Miriam Makeba. La sua morte in quelle lande, con tante persone nere sfruttate al suo ultimo concerto, generoso – lei che aveva smesso di cantare e ballare in pubblico e che proprio lì è tornata a farlo - ha il segno quasi della poesia.
Ma resta un tormento dentro… che i nostri luoghi portano con loro tristezza, dolore, male, fine delle cose buone.
Agli stati generali ho fatto una relazione tecnica sui legami diretti e dimostrati tra il perdurare della povertà e quello della povertà di istruzione nel Mezzogiorno… cose che ripeto qui e altrove, un po’ all’infinito. E che oggi sono state riprese su Repubblica nazionale anche da Pirani che cita questo luogo.
I giornali hanno posto l’accento sulle solite polemiche locali: era un clima troppo rifondarolo, il rappresentante del PdL è stato verbalmente aggredito sia pur dopo varie provocazioni. Eccetera.
Lì c’era tanta gente attiva nelle scuole che si è confrontata. E delle proposte sono emerse. Su queste sono contento di avere lavorato. Faranno però fatica a farsi strada. Le riprenderò per esaminarle in dettaglio nei prossimi giorni. Poi c’è stata anche un po’ di demagogia e quel bastare a se stessi che non basta. In particolare, a me ha dato fastidio che gli enti locali del Sud, spesso e da tempo retti dal centro-sinistra, non sappiano mai raccontare la loro parte nel disastro della mancata formazione al Sud… perché una parte l’hanno avuta e non stiamo così messi solo a causa della Gelmini.
Comunque lì c’erano tanti ragazzi e prof. bravi. Di scuole dove è davvero difficile andare ogni mattina a insegnare. E per queste cose e la tenacia di volerne parlare ci vuole rispetto.
A me di Miriam Makeba non vanno via dalla testa tre cose: lei che canta Malaika prima piano piano e poi e poi..., una sua famosa litigata con suo marito, Stokley Carmaichael, pantera nera degli anni sessanta, di un maschilismo insopportabile, un abbraccio con Mandela in una Johannesburg in festa. E’ morta nella piana dei Casalesi a sostegno di un ragazzo di meno di trent’anni che ha scritto un libro che ci è servito. Ma che non basta. Nella piana dove gli uomini neri lavorano sotto i capi bastone, nella Caporetto italiana del secondo millennio.

05 novembre, 2008

Notte beata notte

Sono stato la notte incollato alla tv Sky di casa di mia mamma. Ché le tv nostrane erano imbottite dei nostri politicanti. Che dicevano cazzate.
Stavo solo come davanti a un miracolo che si doveva fare strada. Forse. Chissà. Magari fosse. Tutti dormivano. Sorseggiavo una tisana dopo l’altra. Ho rivisto nove volte il pomeriggio di riposo di Obama. A giocare a basket coi vecchi amici, con la t-shirt rigata dal sudore. Gente normale, che Iddio la benedica.
Ho vissuto le prime ore di incertezza. Guardavo ammirato le file con le facce delle donne e dei ragazzi di tutti i colori, sorridenti o assorti, coi cani al guinzaglio o la bici alla mano, pazienti, sotto l’acqua per ore… a votare. Facce pacate, decise. Che entravano nei bar e nelle chiese, nelle lavanderie e nelle palestre delle scuole. Dove c’erano i seggi.
Quando, verso le due e trenta, ho visto che sulla repubblicanissima rete Fox il tremendo Rowe, lo stratega di Bush, ammetteva – con tono tra il malinconico e l’ammirato - che la macchina di Obama stava mietendo davvero il territorio, ho iniziato a capire. Incredulo ed esaltato.
Poi ho visto sulla Cbs e la Cnn tingersi di blu gli stati che tagliavano la via a McCain. Uno dopo l’altro: le contee decisive dell’Indiana, l’Ohio della classe operaia irlandese e italiana, conservatrice fino al midollo, il New Mexico dei latinos che hanno girato il loro voto, la Florida che si è riscattata, con i figli dei profughi cubani che non credono più a Cheney e Bush.
Mi è venuta su una commozione vera. Mi sono dovuto alzare e uscire sul balcone a respirare nella notte. So che non è tutto oro quel che luccica e che forse ci sarà disillusione. Ma ero contento e emozionato fino alle lacrime.
E ho pensato a mia mamma americana che ora non capisce nulla ma che ha speso una vita per queste cose. Ho pensato che solo sei anni fa Obama girava per la periferia Sud di Chicago a fare le assemblee sulle cose di interesse comune, comunitario, con le procedure della democrazia deliberativa, costruendo programmi possibili dal basso. Le cose che in tanti diciamo, inascoltati, che si possono e devono fare. Ho pensato al villaggio del padre di Obama, in Kenya, vicino Kisumu, sul grande lago Vittoria. Mi sono venuti alla mente gli alti alberi di jakaranda tinti di viola, affacciati su quelle acque, tra le casupole di legno e lamiera.
Mi stavo emozionando troppo. E sono andato vigliaccamente a dormire mentre sugli schermi si vedeva affluire la grande folla di Chicago. Che andava a riempire lo stesso parco dove nel 1968 ci fu la protesta contro la convention democratica, quella con gli scontri e i morti, quella della canzone di Stills, Nash e Young.
Notte beata notte. Mi sono svegliato presto. E come una benedizione, riaccendendo la tv, ho sentito l’ammissione elegante e seria dello sconfitto e il magnifico discorso di Obama davanti a una folla immensa. Che diceva che avrebbe fatto anche cose su cui si poteva non essere d’accordo e che lui avrebbe ascoltato soprattutto il disaccordo e che non era una questione di presidenza ma molto, molto di più. Così. In modo piano. Con quella faccia leale, diretta. Bella ma bella.
E noi – ho pensato – che siamo costretti qui a essere pure un po’ invidiosi. Perché abbiamo questi qui sempre davanti. Brutti ma brutti. Sempre loro, sempre gli stessi, elezione dopo elezione… Sì, pure McCain pareva non solo mille volte meglio del Berlusca ma pure di Veltroni.
Ma ora chi se ne importa. E poi si vedrà. Si vedrà.
Stamattina sono uscito diverso per il mondo. Perché la notte è stata beata notte.

02 novembre, 2008

Inizio novembre

Sto in attesa del 4 di novembre. Con speranze e paure. Le elezioni americane sono – mai come questa volta - tali da spingere tutte le cose, nostre comprese, verso una prospettiva o verso l’altra. E so che nulla lì è scontato. Dunque sono trepidante.

Giovedì sono uscito prima dal ministero… che è ritornato a chiamarsi miur. Ossia “dell’istruzione, università e ricerca”… senza più la parola “pubblica”.
Avevo letto nei giorni precedenti il decreto 133. Che non è una riforma e non va chiamata così. Ma che adesso è legge dello stato e che taglia quasi 8 miliardi di euro alla scuola… pubblica.
La sua sostanza è banale: riduce le ore di scuola per i bambini della scuola dell’infanzia e della scuola primaria, dai 3 ai 10 anni. E lo fa lì dove non vi è tempo pieno. Ma il tempo pieno non è egualmente distribuito nel territorio italiano. A Milano è l’89,5 %, a Torino il 65,5, a Bologna il 51,5. E a Napoli solo l’1,5… Ci sono posti d’Italia dove si è pensato ai bambini e alle donne più che da noi. Da noi bande di amministratori incapaci, in tutti questi anni, non hanno dedicato tempo al tempo pieno. E così è in tutto il Mezzogiorno. Dove il tempo pieno non raggiunge la media del 9 per cento delle scuole. Il decreto 133 fotografa tale situazione e sancisce che i bambini del Nord avranno il mantenimento di risorse che verranno contestualmente decurtate a Sud. Perché al Nord la scuola di base a orario lungo sarà più o meno salvaguardata almeno nel 50 percento dei casi. E, invece, i bambini del Sud avranno meno scuola pubblica subito; usciranno alle 12 e trenta dalle nostre prime elementari già l’anno prossimo e il tutto cadrà altrettanto subito sulle donne meridionali, a suggello del fatto che tanto nel 62 percento dei casi sono fuori dal mercato del lavoro e che dunque possono attendere i loro figli al ritorno da scuola.

Oggi su Repubblica Napoli ho ripreso questi temi. E andrò a parlarne agli stati generali della scuola del Sud che si terranno venerdì e sabato prossimi a Castel Volturno. Dove spero che gli amministratori delle regioni meridionali si assumano delle dirette responsabilità – in termini di autocritiche e di proposte. Per una volta almeno. E che non facciano solo gli anti-Gelmini d’accatto.

Sì, giovedì sono uscito prima dal ministero e ho attraversato i cortei che avevano invaso Roma. Ne sono rimasto colpito perché erano pieni di proposte e non solo di rabbia e perché erano assai poco ideologici….
Sarebbe bello se rimanessero e crescessero così. Ma temo che la solita politica nostrana gli metta addosso il suo linguaggio, le sue bandiere, le sue ignobili vetustà…

La foto è di Guido D'Amico e non c'entra nulla se non con il titolo. Ma di foto di tailleurs e di tagliatrici, di Palin e Gelmini ce n'è fin troppe in giro. Meglio le brume.

19 ottobre, 2008

Grazie Elvia


Ho avuto difficoltà a scrivere nelle ultime settimane.
Mi ha aiutato a ritornare qui questa lettera che la mia collega e amica Elvia, maestra, di Udine, ha mandato al Messaggero Veneto. Nel leggerla mi sono commosso, confesso. Forse perché ho ricordato alcune brevi scene – ero arrivato da Napoli in America, nel settembre 1957 - di quando ero anche io un bambino straniero. Perciò, grazie Elvia.


Lettera sui bambini stranieri

Che ne sa il leghista Roberto Cota dell’inserimento dei bambini stranieri nelle classi delle nostre scuole?
Ha mai visto una classe all’opera?
Ha mai visto come le bambine e i bambini stranieri e italiani interagiscono tra di loro?
Ha mai visto i bambini e le bambine italiani applaudire i loro compagni cinesi o marocchini, albanesi o ghanesi in quei momenti magici in cui iniziano ad impossessarsi della nostra lingua e dicono in italiano le prime parole e leggono sul libro di lettura comune e scrivono testi che si fanno capire?
Ha mai visto il bambino cinese che alla lavagna scrive i misteriosi segni della sua lingua e tutti i bambini gli corrono attorno e vogliono che gli scriva il loro nome o solo ciao in quell’affascinante alfabeto?
Il leghista Cota ha qualche cognizione di come si apprende una lingua?
Nelle classi di transizione, come lui le chiama, l’apprendimento non può che essere tagliato in modo esclusivo sulla verticalità. L’insegnante e i bambini. Kosovari, rumeni, albanesi, del Bangladesh, del Congo. Bambini che stanno lì in classe, stranieri in mezzo a stranieri.
Il leghista Cota ha mai visto la più vivace delle orizzontalità, costituite da parlanti in interazione fra loro, bambini stranieri e i loro compagni italiani, dentro una classe comune? Li ha mai visti giocare a nascondino e capirsi, e, ancora prima, fare la conta e impararla velocemente, li ha mai visti trafficare con le figurine o fare per terra le piste per le macchinette o giocare insieme al lupo mangia-frutta o dare un calcio a un pallone?
Forse il leghista Cota pensa sul serio che l’inserimento delle bambine e dei bambini stranieri sia una sottrazione di tempo all’apprendimento dei bambini italiani.
Come se l’impoverimento della mente fosse il frutto della diversità in relazione!
Al contrario.
Accade, invece, in luoghi omogenei, in situazioni anche elitarie, non ravvivate da stimoli vivi, prive di parole che si rinnovano e di simpatia.
La mente impoverisce sempre dove non circola il senso umano della vita.
E, nella dicotomia, nel concetto del “noi” e “loro”, diventa anche cattiva.
Il “noi”.
Si coniuga naturalmente al “con loro”.
“Con loro” in classi di non più di venti bambini.
“Con loro” nella scuola e nella lingua italiana.
Nella nostra lingua bellissima che si arricchisce anche quando impariamo a dirci ciao in tante altre lingue; nella nostra lingua bellissima che i piccoli stranieri si impegnano ad apprendere anche in corsi extrascolastici, come fanno davvero, ma sapendo che appartengono ad una classe di riferimento certa e anche loro.
L’empatia è naturale fra bambini e bambine di lingue e religioni diverse.
L’empatia, non la tolleranza offensiva
L’empatia, il sale di una società sana, di un mondo adulto e maturo.
L’empatia, come fatto spontaneo dei bambini, in primis, che solo la cattiva coscienza o meglio l’ incoscienza vergognosa reprime, fra vanto ed ipocrisia.
L’empatia, che distrugge alla radice bullismo ed intolleranza, come non potrebbero mai i cinque in condotta.
Infine l’empatia, pietra angolare che i disinvolti costruttori scartano, ma che è là e resta là, capace di sorreggere solide case.

Cordialmente
Elvia Franco (maestra in pensione), Udine.

L'immagine è tratta da Worlmapper e assegna ai paesi dell'Europa e dell'Africa una superficie proporzionale al numero complessivo dei bambini.

24 settembre, 2008

Dopo un guaio passato

E’ un mio limite. Ma francamente… non riesco a sentire un senso nel dibattito di questi giorni in e su Napoli e la Campania, costruito nel mezzo di categorie che affaticano sempre più: denuncia del fallimento della classe dirigente, spesso da parte di chi lì è stato e non altrove o ragionamenti a sostegno della sua tenuta a galla secondo le linee consuete di quella che ci si ostina a chiamare politica o l’emergere di nuovi scenari e attori che sempre da lì vengono avanti o il refrain mille volte sentito sul meridionalismo dell’uno o dell’altro tipo, ecc., ecc.
Perciò rimando a Daniela (che ha fatto un lavoro pazientissimo).
E però… però mi piacerebbe tanto una piccola pausa di riflessione. Ma in un’atmosfera dura. Un po’ come in quei pranzi difficili, dopo un guaio passato – e noi un guaio lo abbiamo passato e bello lungo, a stare in una città ridotta così - in cui si tace, si pensa, si rispetta il silenzio proprio e quello altrui. E poi, se ci si riesce, si parla delle cose in sé. Una roba più faticosa e più faticata.
Che abbia al centro una domanda semplice sulla città: dove viviamo noi?
Vorrei parlare di cose, di fatti: lavorare e non lavorare, costruire, comprare, vendere, spostarsi e non spostarsi, curarsi, incontrare, imparare…
C’è un bar, una serata, un qualsiasi angolo pubblico in cui si possa parlare per una volta così di questa nostra città?
Nell’attesa propongo due letture, una più recente, una più remota:

Kwane mi tira via, lontano. Dice: "Come è possibile che avvenga tutto questo, come è possibile che avvenga qui in Europa? L'Africa fa schifo, okay. Veniamo qui per non vivere in quello schifo. Veniamo qui soltanto perché siamo poveri. Non è una colpa. Non lo dovrebbe essere in Europa. Vogliamo soltanto sopravvivere alla miseria e, quando ci riusciamo, aiutare le nostre famiglie. Dicono oggi che i nostri poveri morti erano spacciatori di droga. È una menzogna. Una grande menzogna. Si spezzavano la schiena nei campi e nei cantieri. Chi lavorava nella sartoria lo faceva dalla mattina alla sera, senza alzare la testa dal banco. È un'offesa che brucia sentire e leggere che erano delinquenti. Lo dicono soltanto per mettere tutto a tacere. La droga lì dentro non l'hanno trovata e non l'hanno trovata addosso ai morti. E non gliel'hanno trovata perché non avevano nulla a che fare con la droga. La polizia ve lo dice per dimostrare che poi non è successo nulla: soltanto criminali italiani che uccidono criminali africani. Siamo poveri, ma non stupidi e non è giusto che finisca così".
Kwane sembra averne abbastanza. Si allontana come per andarsene. Si ferma, come paralizzato, dopo qualche metro. Ritorna indietro e non si vergogna a farsi vedere in lacrime: "Non è giusto, siamo brava gente. Anche la nostra vita dovrebbe avere un valore. Quando uccisero quella signora a Roma, subito trovarono il rumeno assassino. Accadrà anche per noi, per i nostri amici innocenti? No, che non accadrà. Perché noi siamo negri e la nostra vita non vale quella di un italiano, nemmeno quella di un italiano assassino. Siamo noi - non i bianchi di qui, non gli italiani che accettano di vivere con quella gente armata - siamo noi a chiedere: dov'è lo Stato in questo Paese? Perché non fa il suo mestiere?


da: Giuseppe D'Avanzo - Tra i fantasmi di Castelvolturno
dove i neri chiedono più Stato, 2008

… Vi sono malattie che danno la tristezza, altre che danno la illusione: se Napoli è sempre meno gioconda ha però sempre la illusione. Dal punto di vista economico è notevole il fatto che la città di Napoli presenti tutti i sintomi della depressione: maggiore evidenza questa non poteva e non può assumere, la scarsezza degli scambi procedendo insieme a quella dei consumi; dal punto di vista finanziario notasi una tendenza della capacità contributiva dei cittadini a diminuire. Dal punto di vista più ampio dei rapporti sociali notasi una difficoltà crescente nei rapporti tra le varie classi della popolazione. La delinquenza rimane alta, l’analfabetismo perdura più che in quasi tutte le grandi città: il livello generale della esistenza popolare non si eleva; anzi si abbassa. Tutto ciò viene a produrre forme di vita pubblica che se non rappresentano sempre un’eccezione, sono ben lungi dal potersi ritenere normali…

da: Francesco Saverio Nitti – Esiste un problema di Napoli?, 1901

20 settembre, 2008

W il 20 settembre



Oggi è 138° anniversario della presa di Roma.
Forse è bene riprendere a ricordare che con l'apertura della breccia nelle mura di Roma presso Porta Pia il 20 settembre 1870 l'artiglieria, i fanti e i bersaglieri italiani, su decisione di Cavour e della Destra storica, misero fine al potere temporale dei papi.

19 settembre, 2008

Enrico Melchionda (1959-2008)

Ieri si sono svolti a Eboli i funerali di Enrico Melchionda, morto all’età di 49 anni dopo una terribile malattia durata pochi mesi. Enrico era professore di Scienza della politica all’Università La Sapienza di Roma e acuto studioso delle trasformazioni nelle modalità della rappresentanza e nelle forme della partecipazione alla politica in Italia e nel Mezzogiorno.
In questi anni la questione della sostanziale debolezza della nostra democrazia si è ripresentata, volta dopo volta, in forme cangianti e difficili da interpretare, con le costanti e le novità di un paesaggio complesso. E la politica si è mostrata certamente povera di soluzioni alle grandi questioni del Paese e, tuttavia, non per questo meno presente, con le sue ineludibili logiche.
Enrico è stato per molti di noi – e per me – una voce preziosa, capace di guardare alle ragioni di tutto questo senza giudizi ideologici o moralistici, con assoluta attenzione ai fatti, al funzionamento dei meccanismi della politica per come è, al cambiamento negli umori e nel sentire diffusi, al merito dei reali comportamenti dei cittadini. Lo ha fatto indagando i nuovi e vecchi legami tra le due parti d’Italia, divisa in modo così radicale, con una speciale capacità di interrogarsi fino in fondo, evitando ogni approccio brutalmente cinico e ogni comportamento ossequioso verso i potentati vecchi e nuovi.
Ci ha lasciato un intellettuale onesto e curioso, un uomo misurato e rigoroso e, al contempo, gioviale, aperto, leale, ironico.

Maestre (parte 6 e ultima)

In questi giorni tutto viene letto in modo semplificato; e, sostanzialmente, il centro-destra sostiene che la scuola deve essere innanzitutto law and order, che i sessantottini nulla facenti stanno tutti insieme a fare ben poco e temono l’insegnante unico, che non rappresentano sicurezze educative perché il bambino, in quanto tale, ricerca le certezze in un’unica figura sempre e comunque e che perciò va ripristinato l’ordine di una volta, grazie, appunto, alla figura ritrovata del solo maestro.
Ma il mondo è veramente fatto così? Francamente non mi pare. Mi pare di capire – dopo oltre trentanni di questo mestiere - che l’autorevolezza può essere del singolo adulto o di più adulti, purché tra loro vi sia un patto, una concordia di mandato su alcune linee guida condivise in modo che i bambini riconoscano un’unitarietà di approccio pur nella normale diversità di stili educativi e di insegnamento; e purché sia garantito uno spazio di confronto leale tra adulti, in cui poter dirsi reciprocamente cosa va e cosa no e come si può correggere ogni volta l’errore, affrontare l’imprevisto e agire meglio. Esattamente come dovrebbe essere anche tra i genitori. E mi pare di capire – dopo oltre trentanni di questo mestiere - che l’autorevolezza la si conquista e riconquista ogni volta grazie al fatto che ogni volta ci si presenta ai bambini con la capacità di interessarli e attivarli e di farli lavorare sia alla creatività che al rigore e, dunque, certamente con la capacità di tenere bene i limiti e le regole ma anche con quella di costruire una didattica ricca, che mette in gioco, fa pensare e dubitare e con quella di curare con costanza una relazione educativa che tenga insieme l’equità e la differenziazione verso ognuno e con quella di intessere un rapporto leale con le famiglie, di alleanza adulta, nella chiara distinzione di ambiti e ruoli tra scuola e casa. E mi pare di capire – dopo oltre trentanni di questo mestiere - che tutto ciò richiede anche un buon clima di scuola, un senso di appartenenza e di comunità che è opera di relazioni umane molteplici, variegate, differenziate e non azione di tanti singoli isolati. Tutte cose facili a dirsi ma ben complicate nella vita vera. Che richiedono necessariamente tempo, appunto, per preparare e manutenere azione concorde e comune, tempo dedicato al confronto e all’elaborazione seria prima e dopo ogni giornata. Nulla che si possa ottenere solo con la formula risolutiva dei voti numerici e la retorica sui “vecchi tempi di una volta”. Che non funzionavano una volta e ancor meno oggi, con i bambini stimolati da mille media e da mille mondi ma anche distratti e confusi dalla mancanza di modelli educativi chiari in famiglia, dall’assenza di ogni presidio del limite da parte del mondo adulto in generale e anche in tv. Sì, ci vuole molto tempo dedicato per affrontare tale complessità e non tempo breve né soluzioni sbrigative e rassicuranti che sono destinate a una grande inefficacia. Insomma: si metta pure il grembiule o la tuta a tutti (è bene coprire le griffe), si faccia ciò che si creda sui voti numerici (perché tanto, poi, coi genitori ci si deve sedere a parlare e l’articolazione del giudizio va pur detta), si rimarchi di più il voto in condotta (tanto, soprattutto alle elementari, quel che conta e come si sa stare coi bambini davvero)…. ma poi, vivaddio, c’è da fare scuola. Che è un’altra cosa rispetto agli slogan e alle trovate. E’ un’artigianato difficile da sempre, creativo e rigoroso, reso più duro dalla mancanza di attenzione educativa nel mondo di oggi. Una roba seria. Perché costringe a molta sorvegliata riflessione su sé. Tutte cose che una società non può pagare con 1500 euro al mese dopo 30 anni di onorato servizio. Proprio no.
Ma – si dice – sia pure vero tutto ciò, resta che si deve risparmiare – proprio così l’ha messa giù Tremonti a Ballarò. E allora ammettiamo pure tale necessità di risparmiare e sia pure tralasciata la fondata polemica sul fatto che si risparmia per ora solo sulle elementari che sono, a detta di tutti gli osservatori indipendenti, la parte migliore della scuola italiana, quella con i risultati migliori… Ma qualcuno sa dire perché non lasciare alle scuole dell’autonomia, l’autonomia effettiva di come organizzarsi? Si vuole risparmiare? Bene. Si dia un tetto di personale a ogni scuola, un unico organico funzionale, nella salvaguardia del tempo lungo lì dove c’è e di un minimo di possibilità di sviluppo dove ce ne è bisogno. E si lasci alle scuole il lavoro di usare al meglio le risorse umane, fuori dalle logiche centralistiche. Poi si trovino anche altre modalità di risparmio entro i prossimi due o tre anni – gli sprechi sono tanti – e in proporzione al risparmio così ottenuto si aumenti via-via tale organico funzionale dato alle scuole, soprattutto nel Sud, dove c’è da aprire un fronte precoce contro l’analfabetismo che nasce dalle povertà e le genera a sua volta. E se non ci si fida si faccia, finalmente, un serio monitoraggio di come si usano i docenti. E forse si avranno delle sorprese sulle urgenze educative enormi del Paese e sul tanto lavoro silente che si fa per rispondere ad esse. Ma per fare questo va valutato il nostro lavoro di maestre/i. E deve terminare il veto sindacale al nostro utile differenziarci e al principio del dare di più a chi fa di più nel nome di una iniqua e stupida logica fondata sulla standardizzazione che premia la mediocritas. E non ci deve neanche essere un giudizio preconcetto e punitivo da parte di controllori incapaci di interagire con chi lavora. In generale ma ancor più nei lavori di cura e in campo educativo controllare fuori da ciò che avviene davvero non serve e la misura del lavoro con parametri generici nessuno al mondo la usa più. Va fatta sì una valutazione di merito sui gruppi in azione e sui ruoli singoli entro il gruppo. Ma che aiuti gruppi e singoli a misurare il lavoro sulla base delle azioni svolte e dei problemi risolti. Sul da fare e sul fatto. Con flessibilità, in modo prestazionale e partecipativo, insieme alle/ai maestre/i. E con rispetto. Come in ogni onorato lavoro di questo mondo.

18 settembre, 2008

Maestre (parte 5)

Ma questa vicenda del passaggio da un’idea di insegnamento singolare a uno plurale e viceversa andrebbe letta, con calma, entro la più lunga storia della scuola elementare italiana. Per ora mi fermo su poche cose.
Come già detto, quando si passò a più docenti per classe si era in un tempo di forte protagonismo e innovazione pedagogici, partiti spesso dal basso; e si era sotto la spinta di esigenze sociali che reclamavano un prolungamento del tempo-scuola. La spinta all’innovazione era costantemente cresciuta nelle scuole ed era un moto collettivo, fatto da gruppi di docenti, da associazioni, da riviste e convegni, da moltissime pratiche spontanee di persone che si incontravano per fare cose e cambiare cose nelle scuole e anche da esperienze educative fuori dalle scuole e che con le scuole venivano in contatto, tra conflitti e integrazioni. Ma spesso tutte queste esperienze si nutrivano – e questo è un paradosso da rimarcare - di esemplarità singolari, di ispirazioni a maestri singoli o singoli maestri. Che innovavano e grandemente. Ma in “solitudine e in eroismo”. Mario Lodi. Il maestro di Pietralata Albino Bernardini. Il maestro Alberto Manzi. Lo stesso don Milani a Barbiana. Quelle erano le icone singolari – e maschili - di un variegato moto fatto di proponimenti collegiali. Tanto è vero che questa ambivalenza tra azione comune e ispirazione singolare resta ancora oggi nell’aria: la mia parte cultural-politica indica don Milani, che faceva quel che gli pareva a scuola, una scuola privata, va detto – e, al contempo, difende la pluralità docente contro i maestri unici. Lo stesso Bruno Ciari, altra grande ispirazione di quella stagione, coniuga in sé il ruolo di figura-guida e la spinta, al contrario, verso un movimento cooperativo. Così come – nella storia delle nostre nascenti scuole per la prima infanzia – fece Loris Malaguzzi, in origine maestro elementare, anche lui simbolo maschile che opera in un contesto prevalentemente femminile e che ispira un moto collettivo usando una leadership di tipo carismatico.
Così, molti di noi, usciti dal ’68 - che entrarono a fare le/i maestre/i nella scuola elementare, ottenendo il ruolo in uno dei molti concorsi magistrali che si susseguirno tra la fine degli anni sessanta e la fine degli anni settanta e che consentirono un grande turn-over del personale delle scuole elementari – eravamo fatti in un modo strano, sospesi tra i miti di leader pedagogici ideali e carismatici e voglia e anche pratica di azione collettiva. E questa era un’atmosfera più generale, sospesa tra leaderismo e anti-leaderismo con cui il sessantotto italiano non ha ancora davvero saputo fare i conti. Uno spirito del tempo che prese varie forme: in area laica ereditando il romanticismo risorgimentale ripreso dalla resistenza, in area marxista prendendo le tinte più cupe, di ossequio al capo e all’organizzazione di appartenenza che guida la palingenesi collettiva, in area cattolica, ispirandosi esplicitamente o implicitamente a una tradizione educativa in odore di santità, in primis quella di don Bosco. Solitario monito contro i pericoli insiti nei modelli-guida – e nelle formulazioni rigide e nelle omologazioni che necessariamente ne sarebbero derivate, a tutto danno delle pratiche vive e ricche e delle persone - fu la voce deweyana e libertaria di Lamberto Borghi. Ed è forse proprio a quella voce che oggi si potrebbe tornare per capire, culturalmente, il senso pedagogico dell’operare singolare e/o collettivo a scuola.
Ma le cose furono anche più complesse di così. Perché – come accade per ogni prassi, faticata e imperfetta per definizione – l’andare a insegnare fu una scuola filosofica vera, capace anche di disintegrare ogni mito e carisma grazie alla santa quotidianità. Infatti molti giovani allora entrati a scuola, me compreso, avevano, anche saggiamente, preferito scelte di vita improntate a un’idea di impegno radicato in un compito e in un contesto, nutrito, dunque, più da una “militanza-cittadinanza, fondata sul mestiere” che da una “militanza-appartenenza fondata su un’adesione ideal-politica”. E, perciò, volevano fare innanzitutto buona scuola. Sì fare buona scuola, nel concreto di ogni giorno, con i bambini, era la cosa più importante per tanti di noi. E tanti di noi hanno, perciò, scelto la scuola per fare scuola. Esattamente. E non per fare politica o per svolgere azione sindacale attraverso la scuola. Certo, è anche vero che in tanti si è anche rimasti in mezzo a tale guado, tra il mestiere e l’appartenenza; e in tanti si è andati più verso l’appartenenza e lontano dal mestiere…. Ma in tanti siamo, invece, rimasti legati proprio al mestiere. E, in questo, quei maestri ideali e un po’ iconici ci sono stati davvero preziosi. Perché ognuno di essi scriveva e parlava perché aveva agito e agiva e si riferiva non già a precetti pedagogici astratti ma a azioni concrete, pratiche, a esempi e a metodologie e didattiche non già auspicati ma attuati e mostrati. E che erano propri di un approccio empirico, operativo, in cui teoria e pratica stavano insieme, anche accogliendo la sperimentalità e le contraddizioni che questa genera e sapendo assaporare sconfitte, sorprese e ironie – l’opposto esatto delle rigidità sistemiche e del modello fornito dall’idealismo gentiliano che aveva permeato e ancora permea l’istruzione superiore italiana, come Luigi Berlinguer ha giustamente rimarcato in questi giorni.
Il maestro unico sta, dunque, nelle corde di chi viene da questa storia di scuola militante. Ma sta anche nelle nostre corde l’averlo superato proprio grazie alla fatica delle pratiche e del confronto. Per questo vi è un’ambivalenza in noi: abbiamo fatto bene le/i maestre/i unici e li sapremmo rifare e ne abbiamo cullato dentro anche una nostalgia ma abbiamo al contempo lavorato sodo per essere in tanti e per fare bene insieme, agendo, con pazienza e temperanza, per addizioni tra persone diverse, un’altra arte assai poco italiana. Il solo fatto – da questo punto di vista – che 140.000 gruppi di docenti, tra loro diversi, in ogni luogo d’Italia, abbiano speso due ore a settimana tutte le settimane, per 18 anni, a confrontarsi tra pari sul da fare concreto con i bambini a scuola è un valore immenso nell’italietta dello sterile litigio e della perenne contrapposizione. Un valore fatto di operatività positiva, a cui, però, nessuno oggi sa inchinarsi con rispetto.

Sulla storia della scuola elementare italiana mi viene di suggerire una bibliografia a chi volesse approfondire con l'invito di guardare innanzitutto a Lamberto Borghi:

A. Arcomano, La formazione del maestro in Italia, in “La riforma della scuola”, marzo 1977, pp. 27-35.
G. Bini, Romanzi e realtà di maestri e maestre, in C. Vivanti (a cura di), Storia d’Italia. Annali, vol. 4, Torino, Enaudi, 1981, pp. 1197-1224.
G. Bonetta, Storia della scuola e delle istituzioni educative. Scuola e processi formativi in Italia dal XVIII al XX secolo, Firenze, Giunti, 1999.
L. Borghi, Educazione e autorità nell’Italia moderna, Firenze, La Nuova Italia, 1974.
L. Borghi, Maestri e problemi dell’educazione, Firenze, La Nuova Italia, 1987.
E. Catarsi, Storia dei programmi della scuola elementare (1860- 1985), Firenze, La Nuova Italia, 1990.
G. Cives (a cura), La scuola italiana dall’unità ai nostri giorni, Firenze, La Nuova Italia, 1990.
M. Dei, Colletto bianco, grembiule nero. Gli insegnanti elementari italiani tra l’inizio del secolo e il secondo dopoguerra, Bologna, Il Mulino, 1994.
E. De Fort, I maestri elementari italiani dai primi del novecento alla caduta del fascismo, in “Nuova rivista storica”, settembre-dicembre 1984.
E. De Fort, La scuola elementare. Dall’Unità alla caduta del fascismo, Bologna, Il Mulino, 1996.
E. De Fort, Scuola e alfabetismo nell’Italia del Novecento, Bologna, Il Mulino, 1995.
G. Genovesi, P. Russo (a cura), La formazione del maestro in Italia. Atti dell’VIII convegno nazionale del CIRSE, Cassino, 8-11 novembre 1995, Ferrara, Corso, 1996.
A. Santoni Rugiu, Ideologia e programmi nelle scuole elementari e magistrali dal 1858 al 1955, Firenze, Manzuoli, 1980.
A. Santoni Rugiu, Maestri e maestre. La difficile storia degli insegnanti elementari, Roma, Carocci, 2006.
A. Semeraro, Il sistema scolastico italiano. Profilo storico, Roma, NIS, 1995.
S. Soldani, G. Turi, (a cura), Fare gli italiani. Scuola e cultura nell’Italia contemporanea. La nascita dello Stato nazionale, Bologna, Il Mulino, 1993.
T. Tomasi, Dalla scuola normale al liceo magistrale, in “Scuola e città”, giugno-luglio 1965, pp. 425-430.
S. Ulivieri, I maestri, in AA.VV., L’istruzione di base in Italia (1859-1977), Firenze, Vallecchi, 1978.
G. Vigo, Il maestro elementare italiano nell’ottocento. Condizioni economiche e status sociale, in “Nuova rivista storica”, gennaio-aprile 1977, pp. 43-84.

17 settembre, 2008

Maestre (parte 4)

Ma come è avvenuto il passaggio nel 1990 e perché? E in quale atmosfera ha avuto luogo?
Passare da uno a più maestre/i e poi ritornare indietro a una sola/o…
La ricostruzione della storia di come avvengono le modifiche profonde nel costume e nell’organizzazione delle scuole pubbliche sarebbe un compito di ricerca e una vera esigenza di riflessione politica – in senso nobile – per chiunque debba vagliare l’efficacia delle politiche pubbliche, che sia cittadina/o che abbia o meno i figli a scuola o operatore/trice del settore, intrinsicamente esperto in quanto quello è il suo impegno quotidiano o decisore politico o studioso del come e dove si apprende. La valutazione e validazione dei risultati entro contesti… un’arte necessaria e assai poco italiana. E un’urgenza che meriterebbe un momento di vera pausa riflessiva da parte di tutti coloro che hanno a cuore la scuola. Una cosa che dovrebbe essere proposta dallo stesso ministro.
E un primo compito della riflessione sarebbe quello di ripartire dal punto di svolta, dal momento – ma meglio è dire dalla ‘stagione’ - in cui si è passati da una/o a più maestre/i. E’, infatti, un passaggio non breve, che avvenne a partire dalle prime esperienze sperimentali di tempo pieno, a cavallo tra gli anni settanta e gli anni ottanta e la già citata legge del 1990. E che ha – in mezzo a tale guado – i programmi della scuola elementare del 1985 (DPR n.104/1985), promulgati da Franca Falcucci. I quali, a loro volta, furono il punto di arrivo, il risultato e la codificazione normativa di un nuovo “fare scuola”, di una serie di pratiche molto estese e di dibattito sulla scuola di base che permearono innanzitutto le scuole stesse, che influenzarono il pensiero pedagogico e la stessa accademia e che sospinsero il lavoro di una commissione di altissimo profilo, composta da docenti e studiosi di ogni tendenza culturale e politica, che scrisse quei programmi, tuttora notevolissimi e che, in qualche modo, semplificato e con maggiore autonomia reale data alle scuole, riecheggiano nelle stesse indicazioni nazionali recenti.

La Legge 148 del 1990 fu, dunque, il risultato di spinte innovative profonde e diffuse ma, al contempo – come sempre accade – delle ispirazioni della politica e delle mediazione di questa con le parti mediane e conservatrici e “molli” che pur operavano e pesavano nelle scuole. Questa complessità – tra spinte innovative e generose, nate dalle pratiche, idee di partito ben meno ricche e nuove conservazioni – produsse un lungo dibattito parlamentare dove, alla fine, minimo fu l’apporto di scuole in azione, pedagogisti ed educatori e dove, invece, fondamentale ruolo ebbero i partiti politici e le organizzazioni sindacali. La politica e il diritto mediano sempre, per poter legiferare, le spinte che salgono dai fenomeni educativi reali; e c’è sempre il rischio che l’apparato burocratico produca una pedagogia e una didattica a loro volta burocratiche a discapito della vitalità dell’educazione. Gli educatori, poi, sono presi dal vivo dell’azione quotidiana con bambini e ragazzi e spesso non hanno luoghi dove esprimere proposta e parere articolato mentre rilevante è la produzione di organizzazioni sindacali, di partiti politici, di organi amministrativi. Così accadde che l’iter legislativo della 148 iniziò davvero a contatto con il moto nelle scuole qualche mese dopo la promulgazione dei Programmi del 1985 ma poté trovare un riflesso forte all’inizio del suo iter e non nel risultato finale. Infatti, nell’aprile del 1985, quando Franca Falcucci presentò il disegno di legge n. 2801, chiamato “norme sull’ordinamento della scuola elementare”, vennero recepite le istanze della commissione dei programmi che aveva sottolineato la necessità di introdurre più insegnanti per classe ed aumentare parallelamente l’orario scolastico. Il problema fu: come farlo? Tutti sapevano che bisognava andare a un ampliamento di personale per attuare davvero quei programmi. E tutti riconoscevano che le/i maestri/e unici avevano fatto un percorso, soprattutto grazie alle esperienze di tempo pieno e classi aperte, che salvaguardava le loro riconosciute capacità di fare apprendere in ogni contesto culturale e sociale e la notevole propensione a innovare. Si parlò allora di una costellazione di docenti intorno alla conservazione, però, di una figura-chiave di maestro centrale o prevalente. E la prima proposta di legge della Falcucci prevedeva l’introduzione della pluralità dei docenti mantenendo, però, l’unitarietà dell’insegnamento poiché solo a partire dal secondo ciclo (dalla terza elementare) accanto agli insegnanti di classe si sarebbero introdotti insegnanti specializzati per l’insegnamento e la valorizzazione delle novità vere di quei programmi: l’educazione motoria, quella musicale e quella detta all’immagine che comprendeva l’espressione artistica, unitamente alla lingua straniera. Ma questo approccio equilibrato, che avrebbe rafforzato la collegialità che si esprimeva già nelle scuole, favorendo una specializzazione negli ambiti più innovativi senza stravolgere la tradizione del maestro/a che si stava già rinnovando, soprattutto grazie alle diffuse pratiche di classi aperte, che la norma permetteva e favoriva, fu duramente contestato dai sindacati confederali (CGIL scuola, SINASCEL-CISL, UIL-scuola), dall’Associazione italiana maestri cattolici, dal CIDI e, in aula, dal PCI. Iniziò allora un fuoco di fila a favore di più insegnanti tutti uguali tra loro e inquadrati nel modulo. Fu un attacco un po’ volgare perché poco rispettoso dei tanti maestri che lavoravano bene e a contatto con i propri colleghi, che aveva trovato slogan semplificatori e che se la prendeva con la “maestra chioccia” e con “il maestro tuttologo”. In verità i sindacati confederali e le associazioni professionali del personale scolastico vedevano nella diminuzione del numero di allievi che si stava verificando, conseguente al calo delle nascite, un grave pericolo e una minaccia di perdita molti posti di lavoro: gli alunni delle elementari erano, in effetti, passati da 4.964.000 nell’anno 1972-1973 a 3.247.000 nel 1988-1989. E queste priorità presero il posto di ogni valutazione pedagogica non solo sui pregi o i difetti della prevalenza di un docente in rapporto a contesto, a numero ed età degli alunni, a ambiti di insegnamento ecc. ma anche in rapporto alle ricche pratiche diffuse di classi aperte e di sperimentazione di collaborazioni in regime di autonoma concordia tra docenti, d’accordo con i propri collegi docenti. Così il disegno di legge venne revisionato e ne risultò un testo che introdusse - in luogo di un docente centrale più una costellazione di altri docenti, potenzialmente resi fluidi dalle norme sulle classi aperte - dei "moduli" rigidi e standardizzati, uguali per tutti e non decisi dalle scuole ma dal centro, di tre o quattro insegnanti tutti contitolari della classe. Sul tempo pieno si decise che lo si poteva fare ma non daperttutto. In effetti vi fu uno scontro culturale tra la tradizione laico-comunista che diceva che la scuola è comunque sempre meglio e quella cattolica che voleva lasciare spazio al ruolo della famiglia. La mediazione fu che si fece un orario lungo ma non pienissimo e che il tempo pieno si poteva fare a condizione che vi fossero nella scuola le strutture adatte, le quali dipendevano largamente dagli enti locali. Insomma: la legge del 1990 che mutò l’organizzazione delle scuole elementari e i programmi che la anticiparono furono avviati da una spinta iniziale autentica che raccoglieva le voci, le azioni, le aspirazioni di interi mondi che stavano quotidianamente con i bambini, nelle scuole elementari del Paese. Ma fu, poi, determinata e decisa da altre logiche, ben più centralistiche e improntate da un lato sulla classica mediazione politica della tradizione italiana e, dall’altro, su priorità sindacal-occupazionali.

16 settembre, 2008

Maestre (parte 3)


Se passa la proposta del governo, in quale orario lavoreranno le maestre? E cosa cambia rispetto alla situazione attuale? E che nessi ci sono con le diverse tradizioni orarie e con i contesti sociali e culturali del Paese?
Il ministro Gelmini ha fatto sostanzialmente 2 dichiarazioni pubbliche tra loro apparentemente contraddittorie. Dichiarazione 1: si ri-porterà il tempo a scuola dei nostri bambini al solo orario anti-meridiano. Dichiarazione 2: il tempo pieno non si toccherà.
Vediamo con metodo. Perché la cosa non è semplice.
Cos’è, intanto, l’orario anti-meridiano? Si tratta del tempo-scuola italiano classico: si va a scuola e si insegna solo di mattina, 6 giorni per 4 ore al giorno. Ben diverso dal modello di orario-scuola tripartito che c’è in gran parte del mondo (germanico, nord-europeo, anglo-sassone, colonie comprese, e mittel-europeo e assunto anche in Francia successivamente alla I guerra mondiale) che vede un primo tempo anti-meridiano di lezioni, un secondo tempo per il pasto a scuola o per l’andata a casa e il ritorno e anche, però, per le attività spontanee e/o ludiche e sportive nei play-ground, nei luoghi sociali intorno agli edifici scolastici e un terzo tempo di ulteriori lezioni o di avvio dei compiti per casa ma a scuola. La via italiana alla scuola pubblica è stata, invece, il tutti a scuola ma solo la mattina. E’ un tempo-scuola che nacque con la già citata legge Casati e successive modifiche, che attraversò, inalterata, la riforma Gentile e continuò anche nel secondo dopoguerra fino alla legge 148 del 1990 che istituì più docenti e più lungo orario per ogni classe. E’ il tempo-scuola che chiunque abbia più di 40 anni ha conosciuto da bambino e che hanno sperimentato tutti i docenti entrati a scuola prima del 1990. Che vedeva la quasi assoluta coincidenza di orario tra insegnante e bambino a scuola, fatte salve le riunioni pomeridiane, la preparazione e correzione di compiti. Che terminava con il pranzo all’italiana, fatto dalla mamma che restava a casa spesso insieme a nonne e zie e ai fratellini piccoli. E’ la scuola che permetteva ai figli di contadini, artigiani e commercianti di aiutare i genitori nel lavoro di pomeriggio e che non conosceva il week-end lungo. Il tempo scuola italiano è stato così per 130 anni, tranne che per i convitti nazionali, istituiti ad hoc e per i collegi privati religiosi, che riunivano i bambini delle famiglie più povere e dove l’istruzione era inglobata entro un’istituzione totale “di cura educativa” .
E’ questo tempo che si ruppe, anche un po’ tardivamente rispetto alle trasformazioni sociali in atto, appunto con la legge 148 del 1990. Perché va pur ricordato che tale legge nacque da mutamenti profondi nella struttura e nel clima della società italiani. Infatti fu anticipata dalle esperienze del primo tempo pieno. Che si attuò, soprattutto nel Nord, in risposta, da un lato, all’introduzione delle 40 ore con la settimana corta nelle fabbriche (contratti 1969) e, dall’altro lato, all’emancipazione di centinaia di migliaia di donne che, in numero crescente, stavano diventando lavoratrici e non più unicamente casalinghe. E che fu anticipata da una stagione di protagonismo pedagogico – sia laico che cattolico - soprattutto nelle nostre scuole elementari, appunto, le quali conobbero la creazione di laboratori e di esperienze molteplici di scuola attiva, anticipate, fin dagli anni ’40, in particolare dal movimento di cooperazione educativa, che portò in Italia le esperienze di Freinet e delle scuole attive del tempo del Fronte popolare tra le due guerre in Francia. Una stagione ricca di pratiche innovative, che hanno fatto della nostra scuola elementare il migliore comparto tra tutti i segmenti di scuola e capace davvero, volta dopo volta, di includere tutti (poveri, portatori di handicap, stranieri). E anche di fare cose diverse dalla scuola tradizionale pur salvaguardandone le parti buone. Si pensi alle uscite fuori dalle mura scolastiche, ai laboratori creativi, ai giornalini, al teatro, alla musica, ai campi scuola, all’uso dei nuovi media. Si pensi – a proposito dell’uso di più insegnanti - alle esperienze delle cosidette “classi aperte” che vedevano le maestre e i maestri unici che, però, di comune accordo – e entro i più ampi poteri conquistati dai collegi dei docenti all’inizio degli anni settanta (decreti delegati) – aprivano la aule, si sostituivano nei compiti o decidevano di fare cose insieme, formando gruppi tra bimbi di classi diverse, della stessa etrà o i più grandi con i più piccoli, scambiandosi ruoli tra colleghi, nella convinzione che si potesse imparare uno dall’altro e che uno sa fare meglio certe cose rispetto ad altre e può farle anche in classi diverse dalla propria e con reciprocità.
Il ritorno al maestro unico, chiuso nella sua classe, ha in sé una retorica che richiama l’antico, che ci ricorda la nostra o il nostro insegnante, qualcosa di molto rassicurante. Ma dall’altra parte rappresenta, nel profondo, una vera regressione, un ritorno a prima di quella stagione. Anche se noi abbiamo avuto grandi maestri solitari, molto venerati… mentre il lavoro faticoso del collettivo ha conosciuto minori lodi e apprezzamenti. C’è da riflettere, in ogni caso, sul diverso senso pedagogico dell’essere solo o in più dinanzi ai bambini e sul diverso assetto, anche in termini psicologici, che le due cose assumono. E ci tornerò.
Ma se c’è questa spinta regressiva nella proposta di “maestro unico”, perché, poi, il ministro Gelmini ha anche detto e ripetuto che salvaguarderà quell’altra tradizione, nata dall’attivismo pedagogico e dunque le scuole dove si fa il tempo pieno?
In verità non ne può fare a meno. Se la mangerebbero viva nel Nord proprio i suoi elettori. Infatti le classi con il tempo pieno (un’organizzazione, peraltro semplice, che vede 2 docenti impegnate su ogni classe con orario 22 + 2 di programmazione comune, in modo da garantire ai bimbi 5 giorni lunghi di 8 ore) sono il 27% del totale, circa 38.000 su 140.000 in Italia. Ma sono concentrate – e con una ben consolidata tradizione – nel Centro ma soprattutto nel Nord. Si pensi che sono, per esempio, il 96% delle classi a Milano città. La voce grossa di Bossi con la Gelmini e la remissività dello stesso Tremonti sul tempo pieno altro non sono che il buon senso di chi conosce i suoi elettori e soprattutto elettrici, che non possono accettare il fatto che i propri bambini tornano a casa alle 12.30 dopo che per quaranta anni la scuola a tempo lungo ha consentito alle mamme di lavorare - sia come dipendenti che come lavoratrici autonome - e raddoppiare il reddito delle famiglie, a differenza che nel Mezzogiorno. E di chi sa che ciò è avvenuto sotto tutte le amministrazioni locali, di destra, di sinistra, leghiste o non.
Le due diverse affermazioni del ministro, dunque, non rappresentano alcuna confusione ma sono il programma politico, in qualche modo coerente, di chi fotografa un Paese spaccato a metà e lo congela al fine di tagliare i bilanci. Di chi, in buona sostanza, sa che o non ci sono o sono assai fragili al Sud l’integrazione tra enti locali e scuola così come le mense, indispensabili alla tenuta del tempo lungo a scuola; di chi sa che non c’è credibile rappresentanza politica delle fasce deboli a difesa del tempo-scuola al Sud né, dunque, vero pericolo di proteste delle famiglie; e di chi sa che le donne al Sud non lavorano e non lavoreranno poiché il tasso di partecipazione delle donne al mercato del lavoro (quelle che lavorano e quelle che cercano attivamente lavoro) nel Mezzogiorno conosce percentuali tra le più basse in Europa, intorno al 27%… e si tratta di valori fermi o addirittura peggiorati negli ultimi venti anni, e che mostrano non solo una crescente difficoltà a trovare lavoro, ma anche una crescente sfiducia nel cercarlo. E’ il sapiente programma politico di chi sa, pertanto, che, alla fine, ripristinato l’anziano tempo-scuola di 4 ore per 6 giorni o la sua variante con week-end di 5 ore per 5 giorni con un dì più corto, tutto comunque rigorosamente di mattina, si risparmierà un bel po’. E’ il programma di chi registra e certifica che le donne meridionali, tagliate fuori dal mercato del lavoro in modo disperante, se li andranno a prendere i bimbi a scuola, come già, peraltro, fanno con l’attuale tempo-scuola, maggioritario nel Sud (due prolungamenti e tre giorni fino alle 13 con 3 maestre su due classi a 22 ore di lezione ciascuna + due ore di programmazione comune). Se li andranno a prendere per debolezza del tempo pieno dovuta a una debolezza delle scuole autonome e degli enti locali, che a loro volta fotografano la mancata emancipazione economica delle donne del Sud. Sì, li andranno a prendere per il pranzo a casa, come facevano le loro madri e le loro nonne. Con poche eccezioni che hanno resistito nel mezzogiorno grazie all’eroismo pedagogico di quelle scuole, veri e propri presidi nel deserto. E, una volta abrogata la terza insegnante per ogni due classi, le maestre torneranno a lavorare solo di mattina, senza più tempo di progettazione in comune, 24 ore in una sola classe o, al massimo, riusciranno a salvaguardare un minimo di varietà, sfruttando le norme sull’autonomia delle scuole e dividendosi gli ambiti di insegnamento con 12 ore su 2 classi ciascuna, d’accordo con la collega, ri-inventando le classi aperte, senza oneri per lo Stato. E sarà di nuovo il lavoro bello ed eroico e silente che in tanti abbiamo saputo fare. E che con dedizione sapremo riprendere. Ma è giusto che questa sconfitta, accolta con decoro, la si rimarchi con il lutto al braccio. E i bimbi che se lo possono permettere avranno pagate da babbo le attività pomeridiane; e i bimbi che non se lo possono permettere – quelli dei tanti quartieri come il mio – staranno dinanzi al tv color o per strada o avranno cose offerte loro grazie alla generosa azione del volontariato. Alla faccia dell’idea liberale di scuola di stato e alla stessa idea liberale di Stato, nato grazie alla Destra storica per ri-equilibrare le disparità e affossata dalla destra stracciona dei nostri giorni. Che ha, però, il merito di avere tolto i veli a ogni falsa coscienza di una sinistra che per interi lustri non ha voluto guardare in faccia e dire parole di verità su questa spaccatura del Paese, beandosi della bella retorica sul tempo pieno per nascondere la nullità dei propri amministratori, la vacuità di un sindacalismo scolastico sempre più dedito al corporativismo e sempre di meno alla scuola, la tragedia di modelli di sottosviluppo che hanno condannato innanzitutto le donne meridionali a una condizione di brutale minorità e che, certo, non sono colpa solo del Cavaliere.

11 settembre, 2008

Maestre (parte 2)


Questi maestri – che oggi sono quasi solo maestre – e che si vuol far ri-diventare unici per ogni classe, in Italia lo sono stati unici, quasi sempre. Dal 1859 al 1990.
Prima c’erano i precettori presso i ricchi. E i preti. Sì, erano i preti delle parrocchie che insegnavano a leggere e scrivere in scuole strettamente confessionali. Ed è merito del Regno sabaudo e della Destra storica – quella di Cavour, che merita la D maiuscola a differenza di quella attuale di destra – se la scuola divenne scuola, se fu resa pubblica e obbligatoria, istituita dai comuni ma con il sostegno dello Stato. E’ il regio decreto legislativo 13 novembre 1859, n. 3725 del Regno di Sardegna - noto come legge Casati - entrato in vigore nel 1860 e successivamente esteso, con l'unificazione, a tutta l'Italia. Sempre sia lodato. Sì, perché è merito del regno Sabaudo (e mi spiace dirlo ma i Borboni mai tentarono niente di simile) se nacquero le scuole vere, con spirito radicalmente laico e risorgimentale e se i maestri (allora erano quasi tutti uomini, con l’eccezione di donne straordinarie, che spesso furono le prime femministe italiane) iniziarono a popolare la vita civile e sociale dei quartieri delle città come dei borghi più isolati e a “fare gli italiani” insegnando a tutti a leggere, a scrivere e a far di conto, lontani dalla dottrina di santa madre chiesa, con i soldi dei contribuenti e dello Stato e non più grazie alla pia carità dei fedeli e senza più l’imprimatur sui libri siglati dal pontefice. Ed erano altri tempi. E non solo perché la classe dirigente del paese lo era. L'analfabetismo maschile era del 74% e quello femminile del 84%, con punte del 95% nell'Italia Meridionale. E’ in questo mare di analfabetismo - fatto di uomini e donne al lavoro, forti di identità legate alla cultura materiale, lontani dalla lingua nazionale ma pur immersi nella ricchezza delle lingue - che migliaia di maestri e maestre, spesso giovanissimi, hanno esercitato l’arte e il mestiere di insegnare dal 1859 fino alla prima guerra mondiale. Un lavoro duro e entusiasmante. Che ha segnato la storia sociale e anche politica dell’Italia tanto che maestri furono molti dei diffusori del socialismo e dell’anarchismo e i quadri del liberalismo risorgimentale che ha fatto il paese. E tanto che queste figure entrarono nella letteratura nazionale, quella colta e quella popolare.
Mi piacerebbe che quando si evoca il maestro unico – stimolando nell’immaginario collettivo un sapore antico con l’uso del maschile (il maestro, il maestro!), contro ogni evidenza che ci viene dalla situazione reale presente, che è fatta, appunto, da maestre - si ricordassero almeno queste cose. Almeno. E se ne dibattesse anche, guardando al modello di scuola da cui veniamo e riflettendo sui legami conservati e quelli recisi. E, invece, sento che non sono queste le cose che oggi si vogliono evocare ma un’idea generica e un po' fasulla di rigore e disciplina, più fascista che risorgimentale. Ma sul tema della disciplina – quella legata alla relazione, alle grammatiche necessarie ad apprendere e all’autorevolezza della presenza del maestro e della maestra e quella legata all’idea astratta di ordine o ubbidienza - tornerò.

10 settembre, 2008

Maestre (parte 1)


Dunque si parla di maestro unico: si vuole ritornare al maestro unico, al posto di più maestri per classe. Questo propone il governo. Per "risparmiare" – ha ripetuto Tremonti ieri sera a Ballarò. Per "profonde ragioni pedagogiche" ha detto, correggendosi in parte, il/la ministro/a.
E da dieci giorni circa, dopo anni in cui non se ne è mai parlato, ecco che in tv, alla radio e sui giornali ne parlano politici e calciatori, attrici e presentatori, scrittori e cineasti e ognuno a cui va… di questo mestiere si parla, con grande cognizione di causa.

Ho fatto il maestro durante tutta la mia vita attiva e ne ho scritto. E sono stato maestro unico dal 1975 al 1992. Facendolo anche bene. Sono stato anche un sostenitore del maestro unico e un fiero oppositore dei moduli a più docenti. Poi – nel girare per le scuole d’Italia e del mondo - mi sono in parte ricreduto. E in parte no. E nutro dubbi in un senso e nell’altro.
Oggi sento l’urgenza di parlare del merito di questa cosa. In modo libero. Non per slogan o semplificazioni o partiti presi. Con calma.
Così ho deciso di affrontare questo tema in più tappe o parti.

Oggi dico solo una cosa…
… ed è che tutti si ostinano a dire “maestro” ma meglio sarebbe dire maestre. Perché di maestri elementari (o “di scuola primaria” come oggi si definisce) ve ne sono davvero pochini: il 4,6% contro il 95,4% di maestre donne. In Italia. Un record mondiale. Infatti le donne maestre sono l’81,2% in Francia, l’82,9 in Germania, l’81,5% in Gran Bretagna, il 62,2% in Grecia, il 69% in Spagna, 80,8 in Svezia, il 75,5% in Finlandia, l’88,6% negli USA, il 65% in Giappone. Mentre nei paesi del terzo mondo e in quelli definiti emergenti (Cina, India, Brasile) ci sono più maestri maschi che maestre donne, come da noi fino alla fine degli anni ‘50. Ma anche lì in diminuzione.
Questo ha molte conseguenze. Per esempio sui salari di chi insegna e quindi sullo status e sulla percezione sociale della scuola in un paese, il nostro dove, in generale, più che altrove, sono i maschi a guadagnare più delle donne. O per esempio sul rapporto dei bimbi e delle bimbe con una scuola retta dalle donne. In cui sono diverse le forme della relazione educativa tra adulto maschio – bambini, adulto femmina – bambine, adulto maschio - bambine, adulto femmina - bambini.
Sì, forme di relazione diverse, se la questione di genere ha un senso. E lo ha. Diverse nei gesti, negli stili di insegnamento, nella voce, nella presenza corporea, nell’importanza data alle molte cose grandi e meno grandi della giornata a scuola, nelle proiezioni consapevoli o inconscie che inevitabilmente hanno luogo.
Cose di cui si dovrebbe parlare liberamente, ma di cui si parla poco e poco liberamente.

08 settembre, 2008

Pensieri dopo le vacanze


Nel week-end, dopo la ripresa del lavoro, sono stato in giro per il Nord. E anche a Mantova a presentare il bel libro di Eraldo Affinati (La città dei ragazzi) e a parlare di scuola, sotto il titolo di "emergenza educativa".
Update: ora disponibile anche la registrazione.

Si vive meglio che da noi al Nord. Non sono certo luoghi perfetti… ma migliori sì. Eccome. E non solo per chi ha i soldi. Basta entrare negli asili-nido, nelle scuole, nei giardini, negli uffici e nei servizi pubblici, nei trasporti, nei musei, negli ospedali ecc.
Ed è bello vedere che cammini per luoghi popolati da persone di continenti, di mondi diversi, a volte anche inseriti nel vivo delle città, delle attività.

Eppure anche a Nord si sente che l’Italia è un posto difficile per le speranze delle persone che credono in cose di buon senso per chi abita il nostro pianeta oggi giorno: avere costante attenzione alle questioni ambientali, non escludere la gente perché non parla la tua lingua o non ha il tuo colore di pelle, pensare che una società che include è più sicura per tutti, pensare che le semplificazioni estreme non risolvono i problemi in un mondo complesso.

In un articolo su Repubblica di Napoli - tra le altre cose - mi domandavo “cosa davvero è successo, in questi anni, ai tessuti connettivi profondi di Napoli se decine di migliaia di persone, povere e non povere, giovani ma anche non giovani, laureati e non, talentuosi e meno talentuosi, sono già partiti da questa nostra città e oggi sono altrove a vivere”, soprattutto, appunto, nelle città del Nord Italia.
Non è stata una trovata retorica. Me lo domandavo nell’articolo perché anche io sto pensando davvero di andare via: le mie esperienze, i miei genitori, i miei avi mi hanno educato a pensare che la vita è più importante della fedeltà ai propri luoghi. Poi – certo – “Partir c’est mourir un peu”, (partire è anche un po' morire), ma come ricordava Bartezzaghi, Prévert aggiunse "Martyr c'est pourrir un peu" (Martire è marcire un po').
Ma, sia pur con tali pensieri in testa, so bene che vi sono, poi, le questioni italiane, che valgono ovunque e chiamano in causa il senso stesso della politica, da noi e al Sud ancor più, ma anche al Nord.
Le regole potranno un giorno valere davvero per tutti o sarà eterno il double standard italico, il fatto, cioè, che quel che vale per i cittadini normali vale meno o molto meno o per nulla per chi ha responsabilità politica?
Le persone - ciascuna per come è e come sa – possono avere un normale confronto, imperfetto sì ma anche esistente, con chi le governa e con chi si oppone a chi governa senza dover aderire servilmente agli assetti già definiti lontano dalle loro esperienze, dai loro linguaggi, dalla loro vita quotidiana, dalle loro competenze?

01 settembre, 2008

Le domande nascoste dalla nebbia

Il 31 agosto La Repubblica-Napoli ha pubblicato questa mia nota in risposta ad una intervista in cui Claudio Velardi proponeva un rinnovamento dell'amministrazione comunale basato su una "lista civica sganciata dai partiti". L'intervista e gli articoli di risposta sono stati raccolti in questa pagina da d.l., come al solito.

Le domande nascoste dalla nebbia

È davvero difficile commentare le polemiche politiche napoletane di fine agosto: l´assessore Velardi che scopre e ci rivela che l´amministrazione Iervolino non va proprio bene e che, dunque, ne chiede le dimissioni e che propone pure una lista non di partito, da subito. Dall´altra parte, il sindaco che, come da consuetudine, risponde a brutto muso che lei è abituata al duro lavoro di sempre. Per me, poi, sarebbe francamente un esercizio inelegante: ho promosso insieme a molti una lista non di partito e mi sono presentato a sindaco con un programma che, a leggerlo oggi, appare di vero buonsenso, perdendo, però, e sonoramente. Dunque non le commenterò.
Mi domando, invece, se, a mesi e mesi dalle naturali scadenze elettorali, chi vive in questa città possa avere il bene di domandarsi “cose politiche” che, però, non hanno niente a che vedere con candidature annunciate o ipotizzate, improbabili dimissioni e elezioni fuori scadenza, assetti di partito e di coalizione o similari. E possiamo o no almeno ipotizzare un futuro civile nel quale problemi, aspirazioni e pene dei cittadini abbiano cittadinanza in politica, a pieno titolo e prioritariamente? Insomma piacerebbe ogni tanto che invece di ipotizzare scenari politici improbabili, ci si potesse fermare a descrivere e ragionare sulle cose della vita civile.
E mi piacerebbe partire dai discorsi di ogni momento a Napoli, di tante e tanti di noi. Quanto ci metteremo, domani, a raggiungere il nostro luogo di lavoro, se lo abbiamo? Quante persone non si sono potute permettere neanche una settimana al mare per l´ennesimo anno di seguito? È vero o no che viviamo tutti in una città in cui il tasso di famiglie che vive sotto la soglia di povertà raggiunge quasi un terzo del totale, una percentuale che, da sola, ci mette fuori dall´Europa? Ciò ci riguarda o no? Ha o no a che vedere con la speranza - sì, la speranza - o è solo questione di sicurezza? E, in tali condizioni di esclusione sociale di massa, è proprio inevitabile che i prezzi al consumo, anche di pane e pasta, debbano aumentare in misura maggiore che in qualsiasi altra città d´Italia? E ancora: la nostra monnezza - che ora ha ritrovato la via delle discariche indifferenziate come prima della penuria delle stesse - è o no possibile differenziarla come fanno in tanti luoghi, campani e non? E quando si può iniziare a provare a farlo e a insegnarlo ai nostri figli? E, ben più seriamente e anche mestamente: cosa davvero è successo, in questi anni, ai tessuti connettivi profondi di Napoli se decine di migliaia di persone, povere e non povere, giovani ma anche non giovani, laureati e non, talentuosi e meno talentuosi, sono già partiti da questa nostra città e oggi sono altrove a vivere, da soli o con tutta la famiglia? E cosa ancora sta accadendo se - in altre decine di migliaia di persone - ci chiediamo sempre più spesso e seriamente se è venuto anche per noi il momento di andarsene?
La speranza - insomma - la possiamo nutrire e possiamo parlare del fatto che va ricostruita daccapo o no? Si possono fermare le estese reti economiche ed operative della criminalità camorristica? Saranno di nuovo praticabili i diritti fondamentali, a partire da quelli alla libertà e sicurezza personali, alla libera impresa, alla formazione e al lavoro legale, a un minimo di reddito per vivere? Industria, turismo, servizi e commercio legali possono uscire dalla crisi micidiale in cui ristagnano da interi lustri o no? E a quali condizioni? I modelli di sostegno pubblico allo sviluppo economico possono affrancarsi dai deliri centralistici, dall´inefficacia colposa, dalle clientele più o meno buie di questi lunghi anni? Le opportunità di apprendere e sapere e le occasioni di fruizione della cultura dovranno sempre riguardare una minoranza di cittadini o si può ragionevolmente sperare che ci si metta a fondare asili nido, scuole professionali e che le pubbliche istituzioni riprendano a premiare conoscenza, apprendimento, arti e le molte nostre esperienze creative senza le solite speciali protezioni? E le persone competenti nel proprio settore possono un giorno pensare a un normale confronto - normalmente difficile ma anche normalmente costante, costruttivo e anche utilmente conflittuale - con chi governa questo territorio? E tutto questo in quali modi concreti richiede un ricambio di classe dirigente e di classe politica? Con quali procedure partecipative? Con quale innovazione dei modi della rappresentanza? E la politica riguarda queste cose o deve essere presidiata in permanenza da quell´altra roba che ci si ostina a chiamare politica? È tema dell´anti-politica cosiddetta o è la politica?

11 agosto, 2008

Una bella lettura da Fabrizia prima di Ferragosto

Ho deciso di non commentare le vicende napoletane in questo mese: troppo inutile o dannosa appare la cosidetta politica (che tale non sa proprio essere) dinanzi alle cose vere della vita in città... e pure la vicenda italiana appare davvero deprimente.
E' ancora di più il tempo per tornare ai problemi veri, lontano dai famosi teatrini e a tal proposito segnalo un mio intervento sulla scuola che continua a perpetuare l'ingiustizia sociale (è sul denso e interessante sito della Fondazione Internazionale Don Luigi Di Liegro).

E ecco - come omaggio d'agosto in ricordo di altre estati - la bellissima ultima intervista a Fabrizia Ramondino:


"Questi vetruzzi finiti sulla spiaggia mi sembrano tante vite umane, chissà da dove vengono…"

A colloquio con Fabrizia Ramondino
a cura di Franco Sepe


Il titolo alla nostra intervista, che riprende testualmente la citazione messa in epigrafe al tuo libro di racconti intitolato Arcangelo, hai voluto sceglierlo tu. Perché?

Non sono parole mie. Circa trenta anni fa ogni estate o appena potevo andavo sulla Costa Amalfitana, nel Vallone di Laurito, lontano dal turismo di massa, dove assieme a una piccola comune di amici avevamo preso in affitto una casa contadina. Avevamo fatto amicizia con alcuni pescatori e contadini, fra i quali Mario, che una volta sulla spiaggia al suo ritorno dalla pesca, seduto sui ciottoli disse questa frase, soppesando in mano con pensosa gentilezza resti di antichi vetri, mattonelle, stoviglie, levigati dal mare. Ora non si trova più niente, solo frammenti di plastica, né conchiglie, stelle di mare, carcasse di ricci. Mario, che non si era mai mosso da Laurito, tranne che per un breve e infelice tentativo di emigrazione a New York, si chiedeva questo e altro. Una domanda che mi ha indotto a chiedermi che cosa mi interessasse in letteratura: la curiosità verso questi insignificanti frammenti del passato suscita il racconto e il bisogno di restituire i morti ai vivi. Un po' come è accaduto a Proust con la sua madeleine.

Ma anche per te, in quel ritrovamento, c'è qualcosa di perduto.

Sì, la perdita del mare vivo e non distrutto dall'inquinamento, come è nelle sorti del pianeta; oltre che dal turismo di massa, popolare o chic che sia. Siamo lontani dai bei documentari sulle vacanze pagate introdotte da Léon Blum nel '36 in Francia. Una volta erano possibili relazioni umane tra il ceto educativo, al quale appartenevo, e quello proletario. Non ti sentivi un turista. La diseguaglianza sociale non era così grande come ora.

Pensi che il tuo pessimismo ecologico sia in qualche modo in relazione con il tuo personale processo di invecchiamento?

Certo, ho più difficoltà a correre, nuotare, tuffarmi, camminare sugli scogli, scalare montagne, andare in bicicletta. Ma questo non c'entra con quanto vedo, osservo, sperimento in natura. Ti faccio solo un esempio: questa estate ho voluto fuggire il caldo nel bosco di Campello sul parco dei Monti Aurunci, in una tenda. Non lo avessi mai fatto! I giovani più poveri del paese, quelli che non possono permettersi le Maldive, hanno trasformato quei luoghi e quelle notti in una discoteca, mentre più giù divampavano gli incendi. E immondezza ovunque. Se si dispregia a tal punto il proprio luogo, se la luna è offuscata da luci artificiali, se all'ascolto del fruscio degli alberi e degli uccelli notturni si sostituisce musica violenta, allora il mondo è perduto. Ed è un piccolo esempio fra i grandi che devastano il mondo e di cui ci dicono gli economisti più consapevoli. Quanto più sento avvicinarsi la decadenza e la fine della mia vita personale, tanto più vorrei felice e piena di speranza quella dei giovani.

Pensi che tu, come rappresentante di una generazione più adulta, sei corresponsabile?

Certo. Non posso costruirmi un passato esemplare, né un presente esemplare. Tuttavia per formazione, per necessità e per scelta, non sono mai stata consumista, né nell'accumulare beni, anche futili, né nel deturpare la natura. Per esempio non ho mai avuto una macchina, né una lavastoviglie e le mie vacanze si svolgevano in luoghi appartati e non toccati dal turismo di massa che raggiungevo in autostop, bicicletta, treni, traghetti, alloggiando in povere case d'affitto, ostelli della gioventù, tende. E già negli anni '60 i miei amici e io avevamo l'abitudine di ripulire le spiagge non solo dei nostri rifiuti, ma anche di quelli degli altri. I grandi viaggi intercontinentali che ho fatto (Repubblica Popolare Cinese, Canada francese, Australia, Sahara) non sono mai stati turistici, all'insegna per esempio di Avventure nel Mondo, ma sempre con uno scopo politico o culturale. Piccoli gesti, che non sempre compi e che comunque non giustificano irresponsabilità maggiori.

Hai anche cercato di contrastare questo andazzo con il tuo lavoro sociale con i bambini e gli analfabeti dei vicoli di Napoli, con la tua collaborazione fin dagli inizi degli anni '60 all'AIED, dove, come mi hai raccontato una volta, insegnavate alle donne a usare il diaframma anche di nascosto dai mariti, con le tue iniziative sociali verso i Disoccupati Organizzati, negli anni '70, dopo il colera, con la tua testimonianza sull'esperienza basagliana di Trieste o con la tua solidarietà espressa verso il popolo sahrawi, in esilio dal '75.

Come donna, come persona, come napoletana sono stata sempre impegnata nella questione sociale, poco dal punto di vista ideologico molto a livello concreto. La sinistra ufficiale, soprattutto quella comunista, tranne eccezioni, ha spesso considerato le nostre iniziative come inutili – la classica goccia nel mare – o addirittura le ha contrastate. Per formazione politica appartengo al filone del socialismo libertario – la mia tesi di laurea su Proudhon fu pubblicata nel '65 sulla rivista anarchica VOLONTÀ, fondata da Giovanna Berneri, il cui marito Camillo fu ucciso durante la guerra di Spagna dagli stalinisti. Ovviamente ho salutato tutte le rivoluzioni sociali, da quella di Masaniello e di Cromwell alla rivoluzione francese alla Comune di Parigi a quella bolscevica. E naturalmente la lunga marcia di Mao. Ma il potere è una brutta bestia, logora e corrompe chi ce l'ha. Per me esercitare il potere significa che già mentre lo eserciti lo condividi e lo estendi a quanti più individui possibile.

E secondo te come si combatte il potere?

Tanto i grandi poteri, che provocano guerre fra popoli, opprimono le libertà individuali, ignorano il senso del limite, quanto quelli quotidiani, familiari o amicali, si combattono con l'immaginazione, la facoltà di immedesimarsi nell'altro, popolo o singolo che sia. E soprattutto con la diffusione dell'istruzione e della cultura – la vera cultura che non ha niente a che fare con l'indottrinamento ideologico o con l'uso che ne fanno sempre più i mezzi di comunicazione di massa. Se fossi un ministro della pubblica istruzione introdurrei già all'asilo l'insegnamento della musica classica antica e moderna, che con il suo metalinguaggio unisce invece di dividere. Kafka sosteneva che la cosa più difficile al mondo sono i quotidiani rapporti umani. Penso che se questi migliorassero, ci sarebbero meno guerre. La pace comincia in casa, nella comunità, nella polis.

Che cosa hanno significato nella tua storia le parole pace e guerra?

Da bambina ho sperimentato i bombardamenti tanto durante la guerra di Spagna che poi a Napoli nel '44. E ancora oggi non sopporto i botti di capodanno. Ora che vivo a Itri sono circondata da rovine che risalgono ai bombardamenti durante la battaglia di Montecassino. L'unica battaglia che mi piace è quella del nobile Hidalgo contro i mulini a vento.

Credi al male?

Certo, ma non in senso religioso, piuttosto in senso leopardiano. Ricordo una frase di Brecht: "La madre delle guerre è sempre incinta", che volgo in "La madre dei cretini è sempre incinta". Per me il male maggiore risiede nella stupidità umana. Anche nell'abuso della parola pace. Ricordo la lapide, nel cimitero di Poggioreale a Napoli, del padre di una mia vecchia amica, fondatore alla fine dell'Ottocento del Partito Socialista. "Non riposa in pace. Finché…". Ecco io non riposerò mai in pace, finché…

E quindi non credi in Dio?


Faccio mia la frase di Simone Weil: "Cercandomi, sedesti stanco". Penso che ciò che chiamiamo Dio sia presente in tutte le creature animate e inanimate e che ci renda consapevoli della nostra finitezza.

Come riconosci la tua finitezza?

La riconosco tanto nei limiti del mio corpo che della mia facoltà di comprendere. E più in generale nei limiti della conoscenza e del sentire umani. Mi riconosco nel bambino piccolo che chiede continuamente: perché perché?

Ti è mai stata mossa l'accusa di essere egoista?

Sì, ma credo ingiustamente. Se avessero detto egocentrica o egotista mi sarei riconosciuta.

Perché?

Perché credo che nell'accezione comune egoista significhi il contrario di altruista, qualcuno cioè che pensa solo meschinamente a se stesso o che pretende di rendere il mondo intorno a sé simile al proprio. Mi riconosco piuttosto nella definizione di egocentrica o stendhaliana di egotista: essere centrati su se stessi, tanto nel tentativo di "conoscere te stesso", quanto in quello di immaginarti diverso da te stesso. Questo non significa che non abbia peccato di egoismo. Come mi accade con il mio gatto, l'unico essere vivente con cui vivo stabilmente. O con le piante, quando sono troppo pigra per staccare le foglie secche. Ma se per egoismo la gente intende egocentrismo, m'inalbero prima, talora sono anche volgare nel linguaggio, ma poi tendo a ritirarmi sempre più.

A proposito del ritirarsi, a me sembra che, quando ti ho conosciuta circa una ventina di anni fa, tu ti ritiravi meno dal mondo, anche a Berlino.

E' vero. Ma se penso alla mia infanzia, adolescenza, età adulta il momento del ritiro in me stessa conviveva con un atteggiamento panico verso la natura soprattutto, ma anche verso gli altri esseri, animali o umani. In questo senso ero divisa, e lo sono ancora.

Non senti alcuna nostalgia verso il passato, non ti conforta il fatto di aver prodotto un'opera letteraria?


La nostalgia verso il passato è un inutile ingombro. Non può tornare e ne prendo atto. Trovo ridicolo o tragico voler prolungare giovinezza o vita, come è tanto di moda oggi. Per quanto riguarda l'opera scritta, è là. Io di norma non mi rileggo. Né sono in grado di giudicarne il valore o disvalore.

Quali sono le ragioni primarie che ti hanno indotto a scrivere?

Alcuni esempi familiari e la passione per la lettura. E la mancanza di educazione, di stimoli e di doti in altri ambiti culturali, come l'arte e la musica. Poi la curiosità per le parole, accresciuta dalle tante esperienze linguistiche dell'infanzia e della prima adolescenza: l'italiano, lo spagnolo, il catalano, il napoletano, il francese.

Per te la scrittura ha avuto anche una funzione terapeutica?

Certo, è un modo per elaborare il dolore, per abbandonarsi alla gioia panica, per disciplinare emozione e immaginazione attraverso un paziente esercizio artigianale.

C'è nella memoria della tua infanzia, e del tuo passato in generale, un nucleo che ancora resiste e si oppone alla trasposizione estetica?

Penso che ci sia, ma non so quale sia questo nucleo di resistenza. Conosco invece un'altra mia resistenza: quella di scrivere a comando o su ordinazione, non solo di altri, ma della mia propria volontà. Una domanda spesso rivoltami e che detesto è questa: che stai scrivendo, stai preparando un nuovo libro? Come se fossi un'impiegata della scrittura e non potessi mai andare in ferie o in pensione. Come se tutta la mia vita fosse ridotta all'esercizio di un mestiere.

C'è un nesso tra la tua reticenza a parlare nei tuoi libri del periodo trascorso in Savoia, e la morte di tuo padre?

Sono vissuta in Savoia dagli undici ai tredici anni, frequentando le scuole francesi, e poi vi sono tornata spesso. Qui è avvenuta la mia fondamentale formazione letteraria e sentimentale. Il francese è la mia seconda lingua e infatti l'ho insegnata per anni. Ma c'è stato un grande trauma: la morte nel '50 di mio padre davanti a mia madre e a me. A proposito della reticenza ti racconto questo episodio: quando Natalia Ginzburg, stimolata da Laura Gonsalez, Carlo Cirillo, Elsa Morante, leggeva il dattiloscritto del mio romanzo Althénopis, mi consigliò di ampliare le pagine dedicate a mio padre, pensai, ma non osai dirglielo, "non ti rendi conto che non si tratta di ampliare o migliorare la descrizione di un personaggio, ma che si tratta della rimozione di un trauma profondo!" Per molto tempo ho sentito che la morte di mio padre equivalesse all'avermi abbandonata. Solo dopo, con un grande sforzo psicologico, sono riuscita a non mettermi al centro del mondo rispetto a lui, ma a considerarlo indipendentemente da me e gli ho dedicato un racconto contenuto nella raccolta Storie di patio dal titolo "Il prefetto Luigi Ferdinando Baldaro". Anni dopo gli ho dedicato un capitolo nel libro In viaggio.

Fra i tuoi libri ve ne sono alcuni di marcato impegno sociale come: "I disoccupati organizzati. I protagonisti raccontano" (Feltrinelli, 1977), "Polisario. Un'atronave perduta nel deserto" (Gamberetti, 1997), "L'isola dei bambini" (Edizioni e/o, 1998), "Passaggio a Trieste" (Einaudi, 2000), mentre tutti gli altri, tematiche autobiografiche a parte, sono opere di immaginazione. Perché questa dicotomia?

Credo corrisponda al mio modo di essere nel mondo. D'altra parte una delle difficoltà che incontrano i lettori e i critici rispetto ai miei libri è quella di non riuscire a catalogarmi in un filone preciso: non è una scrittrice napoletana, non è un poeta, non è una drammaturga, non è una saggista, non è una romanziera. Ma perché si dovrebbe entrare in un solo cassetto? In quale cassetto chiuderesti ad esempio Pasolini?

Che cosa ti ha spinto a scrivere con Mario Martone le sceneggiature di Morte di un matematico napoletano e dell'episodio "La salita" nel film collettivo I vesuviani?

E' stata una fortuita e fortunata coincidenza. Mario mi chiese di collaborare alla sceneggiatura del "Matematico" e io all'inizio rifiutai. Poi accadde qualcosa in me: il matematico Renato Caccioppoli era stato grande amico di gioventù di mia madre e di alcuni zii e zie e rappresentava un mito giovanile per me perché era a Napoli un outsider come mi sentivo io stessa negli anni '50

E il teatro?

Ho scritto varie pièces teatrali di cui due soltanto rappresentate e pubblicate, le altre sono nel cassetto. Non so se un giorno avrò voglia di tirarle fuori.

Sembra quasi che in te il mestiere di scrittore sia nato sulle ceneri del tuo lavoro sociale e politico. O non trovi che sia così?

Non è così. Ho cominciato a scrivere racconti, romanzi e poesie fin dall'adolescenza e ho continuato anche durante gli anni più intensi del mio impegno sociale e politico. Ho solo pubblicato tardi.

Come è avvenuto l'impatto con la scrittura?

Dopo aver sperimentato la differenza tra parole e cose, che non corrispondevano, prima in Spagna e poi nella penisola sorrentina, durante gli ultimi bombardamenti tedeschi, è accaduto in Francia che, come per miracolo, parole e cose cominciassero a coincidere. Ero adolescente e la lingua francese è diventata la mia lingua. Verso i quattordici quindici anni ho scritto le mie poesie in francese. Solo a fatica e molto più tardi ho avuto dimestichezza con la lingua italiana. Nell'intrico di lingue nel quale ero vissuta, a cui bisogna aggiungere poi il tedesco, e nel disordine dei miei studi di base e poi universitari, la letteratura italiana mi era poco nota, anche a causa dei pessimi insegnanti. Tramite mio marito e i suoi amici, ma prima ancora nei viaggi in autostop con un mio cugino durante i quali leggevamo Montale Ungaretti e Campana, ho letto Ariosto Tasso Dante Leopardi. Ma tra i miei grandi momenti d'introduzione alla letteratura italiana c'era anche un prete spretato napoletano, che mi chiese di battere a macchina sotto dettatura un suo saggio su Dante e che, stimolato dalla mia ignoranza, generosamente rinunciava alla sua segretaria per leggermi la Commedia e spiegarmela. Era quello, verso la fine degli anni Cinquanta, un tempo felice in cui chi nel PCI chi nel PSI – litigando ovviamente – si leggevano i poeti, Lorca Neruda Prévert Majakovski, si mangiava insieme, si sbevacchiava poco: poesia e politica avevano il sopravvento su alcol e sigarette. Al circolo del cinema veniva Nazim Hikmet, che ci introduceva in altri mondi. E con l'immaginazione si andava oltre la nostra misera politica italiana e napoletana.

Quali sono stati gli scrittori più importanti per la tua formazione letteraria?

Tanti, nell'adolescenza soprattutto i russi e i francesi. Poi quelli che ho nominato. Infine a metà degli anni '60, durante il mio secondo soggiorno milanese, vi fu per me la scoperta di La cognizione del dolore di Gadda. A quell'epoca scrissi la terza parte di Althénopis, rimasta tanti anni nel cassetto e poi raggiunta dalla prima e dalla seconda parte.

Dunque, vi era stato già un periodo milanese.

Sì, il nostro piccolo gruppo amicale e/o coniugale alla fine del '59 si era trasferito a Milano in cerca di lavoro, come tanti napoletani. Nonostante fossimo tutti molto poveri, fu un periodo felice. Tonino venne assunto alla Motta, che lasciò dopo appena un mese: era seduto dietro un tavolino e doveva contare i panettoni che gli passavano davanti su un montacarichi, che spesso doveva rincorrere. Scherzava sulle scritte alla Mensa, volgendole in decalogo: Non nominare il nome di Motta invano, non desiderare la Motta altrui, non motteggiare… Era stato raccomandato dal futuro suocero per entrarvi e quando si licenziò il suo dirigente gli disse: Lei sputa sul pane. E lui replicò: No, sul panettone. Mario invece non fu assunto alla Pirelli perché comunista. Livio ora faceva il soffiatore di vetro in una fabbrica di bottiglie, ora faceva il correttore di bozze all'Avanti. Mio marito faceva il garzone di bell'aspetto presso mia zia, che aveva un magazzino di antiquariato in Via della Spiga. Trascorrevamo le serate alla trattoria dell'Angelo e al Bar Giamaica a Brera, che allora non erano chic come oggi, ma frequentati da operai e studenti poveri. A Piazza Duomo si discuteva fino all'alba con le persone più strane. Io, ho tradotto tre libri, uno al nero su Kokoschka, due con la mia firma, per Il Saggiatore e per Schwarz. Poi ho lavorato come segretaria presso una società che vendeva a ricchi tedeschi e milanesi appezzamenti di terreno nell'allora costruenda Brasilia. Ma risultò un imbroglio, vendevano pezzi di foresta vergine. Una mattina dinanzi all'ufficio trovai la polizia. Per fortuna, essendo un piccolo impiegato, non fui implicata. Devo anche dirti delle mie difficoltà per trovare un lavoro di segretaria con conoscenze di tre lingue, dattilografia e stenografia. Superati brillantemente colloqui e prove, misteriosamente non venivo accettata. Questo perché da poco era stata varata una legge che tutelava le donne durante la gravidanza e dopo. E siccome ero sposata, temevano una gravidanza e non assumevano. Insomma fatta la legge, creato l'inganno.

Insomma, mi sembra che Milano sia stata importante per te.

Quell'anno sì. Mentre nel 68-69 rincorrevo la città di dieci anni prima. Era già tutto cambiato. Ma tra le città italiane dove sono vissuta e che prediligo, ho amato Milano per la sua carica umanitaria, socialista, industriale, mentre ho sempre detestato Roma.

Perché?

Forse a causa della "romanità" fascista. Forse perché centro del potere pubblico, amministrativo, religioso. Forse perché avrei auspicato, come sosteneva Braudel, che la vera capitale d'Italia avrebbe dovuto essere Napoli, la porta dell'Occidente verso l'Oriente e dell'Oriente verso l'Occidente. Mi ha sempre colpito poi l'epigrafe di Savinio al suo saggio su Maupassant: "Maupassant era un romano". Che mi spiego con la differenza che traccia Gadda tra Eros e Priapo. A Roma sento Priapo, a Napoli Eros.

Ma prima del tuo periodo milanese c'è stato quello tedesco, dal '54 al '57.

Sì, con alcune interruzioni, viaggi in autostop attraverso l'Europa, brevi soggiorni romani. Quello che avevo da dire l'ho scritto nel Taccuino tedesco. La mia esperienza con la Germania non può essere chiusa dal momento che i miei due nipotini vivono con mia figlia a Berlino e sono bilingui. Ma da molti anni, quando vengo a Berlino, mi sento come una casalinga italiana o turca in visita ai parenti. Non sono più curiosa. Come detesto la vita cultural-mondana in Italia – anche per questo vivo a Itri – così la detesto in Germania. Anche se ogni paio d'anni vi presento i miei libri. Ma più per ragioni di mercato che per altro. Come sai, una certa critica mi apprezza, ma vendo poco. Berlino mi piace d'estate, quando si può andare ai laghi. Come il Sud Italia quando si può andare al mare in luoghi protetti dalla folla.

Ti capita qualche volta di soffrire la solitudine?

No. Soffro di troppa famiglia – se se ne estende il senso agli amici. Ai tanti compagni di strada conosciuti nel corso della mia vita disordinata e poco lineare negli amori, nelle attività sociali, politiche, culturali. Forse è stato tutto troppo, tante vite in una sola. Un'immensa folla di vivi e sempre più di morti, nella quale mi sono aggirata. A cui bisogna aggiungere i tanti scrittori letti, di cui riconosco i volti, come se fossero vivi. Perciò non sono sola. Ma vorrei esserlo di più. Me ne accorgo quando mi concentro. Anche su una sola parola. E questa parola scaccia i troppi fantasmi.

E quale parola sceglieresti in questo momento?

Non più il vetruzzo approdato sulla spiaggia, che reca le tracce di tante vite umane. Ma un piccolo semplice sasso in cui è inscritta la storia dell'universo, che mi è ignota.

Nota
Questo colloquio, che ne avrebbe dovuto includere numerosi altri per espandersi e dar luogo a un libro-intervista, come era nostra intenzione fin dal primo momento, è ciò che oggi rimane dopo l'improvvisa scomparsa di Fabrizia Ramondino, maestra di impegno e di scrittura, oltre che carissima e insostituibile amica, avvenuta nello scorso giugno.