24 maggio, 2010

Bene: le acque non sono più quelle di dieci giorni fa

Daniela aggiorna sul dibattito intorno alle primarie.
Dunque forse a una piccola cosa sensata abbiamo contribuito: si faranno in autunno. Ci sarà tempo per dire come e con chi. Bisogna parlare del cosa fare. Sì, prima del cosa. Poi c’è, certo, da vedere i candidati. Ed è ottimo il sommovimento fatto da Vendola. Muovere le cose, appunto. Poi la strada sarà in salita, si sa. Ma intanto non siamo più a dieci giorni fa. E nei prossimi giorni provo a dire di un’iniziativa entro giugno sui temi della città, nel merito: cosa fare, come, con quali denari, secondo quali urgenze.

18 maggio, 2010

Troppi suicidi al Liceo Umberto

Nella speranza che la ragazzina in questione si salvi, va purtroppo notato che nel liceo più “bene” della nostra città ci sono stati troppi suicidi e tentativi di suicidio. A meno che si pensi che sia colpa di quella scuola – e io non lo penso – o che sia un caso – che è riduttivo - c’è da fare un ragionamente pubblico sull’adolescenza in difficoltà nella città; ed è un compito ormai inderogabile, urgente.
Così oggi su la Repubblica Napoli ho fatto questa primissima riflessione, sperando che ci sia un confronto vero sull’educare oggi.


Una ragazza si è buttata da una finestra del Liceo Umberto. Preghiamo che si salvi e che, una volta affrontate le ferite del corpo, possa incontrare un aiuto che lenisca la difficoltà acuta di stare al mondo che l’ha spinta verso un gesto così estremo e che l’aiuti a stare meglio dentro se stessa. E stiamo vicino alla mamma e al papà, al loro smarrimento. Solidarietà e presenza sono l’aurora di ogni relazione umana, di ogni comunità. A volte bisogna ritornare all’aurora, ritrovare il senso primo. E fermarsi per poterlo fare.
Stiamo ora vicino ai ragazzini e alle ragazzine di questa scuola. Essi, infatti provano pena per la loro compagna e, al contempo, provano pena anche per se stessi. Perché – com’è normale – i gesti estremi rimescolano i propri più intimi pensieri, le angosce del proprio crescere. Perciò: va oggi dato loro uno spazio di ascolto e di riflessione. Pacato. Serio. Si sospendano le lezioni. Ci si metta in cerchio nelle aule. Si parli, ci si ascolti. I docenti ascoltino, dicano la loro con rispetto per le difficoltà del crescere oggi ma senza rinunciare all’essere sponda adulta. Si tratta di fare questo, semplicemente, così come tante volte tanti docenti già fanno, con competenza e sensibilità. Non è il primo episodio che accade in questo
liceo. C’è bisogno di dare parola alla pena. Di trovare un tempo dedicato.
Molti docenti, ovunque in Italia - d’accordo con i dirigenti e con le direzioni regionali della pubblica istruzione - stanno avviando modi per stare più vicino ai ragazzi. Senza, con questo, rinunciare alla propria funzione docente, al rigore che ogni apprendimento richiede, all’assetto di una scuola che sia tale. Si può fare. A dicembre un’alunna di una scuola del Nord si è uccisa gettandosi nel vuoto, subito dopo scuola. C’era di mezzo l’amore. Come spesso è in adolescenza. E l’abbandono. I ragazzi della sua scuola si sono fermati. Hanno potuto parlare di sé. Hanno raccontato. Hanno espresso ora il senso di colpa, ora la rabbia, ora l’incomprensione o l’avversione per il gesto della compagna, ora lo smarrimento intollerabile per la perdita. Hanno pianto e hanno cercato le parole perché il rischio del vivere che ciascuno sentiva potesse essere parte di qualcosa di comune. E’ stato un rito di passaggio. Infatti ci vogliono riti per poter contenere e elaborare l’impotenza di fronte al dispiacere, alla frustrazione, all’assenza di senso di molte umane vicende. Ci vogliono riti mentre si cresce. E sono i riti che ora mancano. Quella esperienza ha rimescolato il clima di quella scuola. Ha fatto emergere possibilità di rinascita e di progetto, ha ricreato una comunità fatta di parole, propositi e azioni comuni. Si sono organizzate gite, gruppi di studio, mostre. Si è ri-inventato anche l’apprendere. Perché, gradualmente, intorno all’apprendere si è rafforzata e meglio articolata la cornice di empatia, di solidarietà, di incontro tra generazioni e tra coetanei. I genitori hanno fatto parte di questo moto. Hanno portato i loro saperi a scuola, si sono offerti di aggiustare quel che c’era da aggiustare, hanno ri-pattuito insieme la alleanza tra adulti che sta a presidio delle regole, hanno scoperto che si può dare e non solo chiedere a una scuola.
Nessuno può togliere la pena dal mondo. Nessuno può eliminare la fatica e il rischio di crescere. Ed è insensato pensare che la scuola da sola possa assolvere a una funzione adulta generale che è sparita dai media, dalla politica, dal senso comune. La società intera deve ri-acquisire pulsioni, ambizioni e soprattutto competenze educative. E’ un processo che sarà lungo e faticoso. Che si deve nutrire di atti, di gesti significativi. I genitori vanno trattati da alleati permanenti ma anche chiamati a rispettare la scuola, per il bene di chi ci cresce dentro.
Va ripreso da noi tutti il tema dell’adolescenza, del suo profondo significato di passaggio verso la differenziazione e identificazione di ogni persona in crescita. Nelle scuole c’è da lavorare sulla dimensione gruppale degli adolescenti che risulta ancora poco osservata e curata. Il gruppo è un luogo di attribuzione di significati, di problematizzazione e di ricerca di senso. E’ uno spazio mentale e di immaginazione in cui la soggettività del singolo si alimenta costruttivamente. Dovrebbe e potrebbe costituire l’occasione per una presa di coscienza di sé come presa di coscienza del mondo, rappresentare un ponte tra l’interiorità e il collocarsi spazialmente e temporalmente nella comunità.
L’educare deve ridiventare un’ambiziosa sfida della nostra collettività. La città tutta intera deve trovare anch’essa uno spazio per ripensarsi come luogo nuovamente educante.

13 maggio, 2010

Napoli può riprendersi la parola!

Domani dovrebbe uscire su la Repubblica Napoli questo appello di Sergio D'angelo e mio. Chi vuole aderire, potrà firmarlo lì.

L’Italia non esce dalla crisi economica, sociale e istituzionale se solo una parte del Paese detta l’agenda per tutti. Non ne esce senza il Mezzogiorno e senza la città di Napoli. E Napoli può aspirare a rifondare il suo patto con il Paese. Per farlo deve rinnovare il patto con se stessa: chiamare i cittadini a raccolta intorno alle priorità della vita comune. Ripulire l’ambiente e curare i nostri rifiuti. Combattere la povertà e la disoccupazione. Rompere con gli sprechi. Ridare alla città servizi degni e produzioni industriali. Rifondare la macchina amministrativa e chiudere con ogni forma di clientelismo. Riportare i ragazzi alla scuola e alla formazione. Colpire la camorra e dare possibilità vere a chi vuole uscire dalla strada sbagliata.
Perciò: per ritrovare la voce e il senso della vita civile è tempo di smettere di piangersi addosso e di litigare tra vecchi e logori potentati. Le energie migliori della città, il recupero del suo orgoglio e della sue potenzialità hanno bisogno di un immediato cambio di passo, di voce e di proposta.

Il centro-sinistra utilizzi l’anno che ci separa dal voto per il sindaco di Napoli per ridare la parola ai napoletani in modo che l’appuntamento amministrativo divenga un concorso di idee e una mobilitazione per il riscatto civile. Si cominci col decidere ora che le elezioni primarie di tutte le forze di centro-sinistra siano una vera prova di democrazia, fondata sulle cose da fare e che si tengano entro l’autunno.

In questa direzione, allo scopo di combattere logiche lobbistiche e autoreferenziali, è assolutamente necessario che singoli cittadini e quella parte di società attiva, che da tempo si organizza in comitati, associazioni, cooperative, comunità resistenti, gruppi di altra economia, esperienze dal basso, la vasta galassia di uomini e donne che si stanno interrogando sul da farsi, trovino la forza e le modalità per riprendere voce e capacità di contare.
La storia non è già scritta e, soprattutto, non c’è alcuna ragione per lasciarla scrivere agli altri.

Napoli può riprendersi la parola!

Sergio D’Angelo
Marco Rossi-Doria

12 maggio, 2010

Meridionalismo. O dell’assumersi responsabilità


Mentre i leghisti vomitano ideologia, il signor Letta, quello junior, ci dice che siamo una zavorra e il presidente di Sudd, il signor Bassolino, si offende per tali affermazioni, si fa davvero grande fatica a partire dai dati di realtà – così come dovrebbe, invece, fare ogni politica degna di questo nome.
La responsabilità politica nasce dall’analisi fattuale. Per poi ricercare, sobriamente, le soluzioni possibili. Questo è stato il metodo del Meridionalismo. Assumersi responsabilità di analisi e di proposta realistica. Senza paroloni, polemiche strumentali di un tipo o dell’altro e infingimenti. Questa fu il modo e l’ispirazione che unì persone diverse: Fortunato, Sturzo, Salvemini, Nitti…Che si misero al crocevia dell’unità d’Italia dicendo la verità sul Mezzogiorno e proponendo soluzioni.Si stanno, in questi giorni, festeggiando i 150 anni dell’unità d’Italia. Per parteciparvi sarebbe bello attingere alle parole dure e savie di questi nostri grandi meridionalisti, per i quali, oggi più che mai, si sente un debito di riconoscimento e una grande nostalgia.
Domenica scorsa, per festeggiare in forma privata l’Unità, sono andato a Bezzecca e ho riportato queste foto.
E, per provare a iniziare a dire le cose vive su ciò che divide l’Italia unita, riporto qui di seguito solo alcuni passaggi dell’audizione che la Commissione indagine sull’esclusione sociale detta Commissione povertà ha fatto, il 22 aprile scorso, con Giancamillo Trani della Caritas Diocesana di Napoli.Perché non riprendere la via della responsabilità e dunque aprire un dibattito finalmente serio a partire da queste cose?

“Il 2008 è stato l’ennesimo “annus horribilis” per l’economia campana. Secondo l’annuale relazione della Banca d’Italia, nel corso dell’ anno il Pil è sceso, ulteriormente, del 2,8% per la Svimez e dell’1,6% per Prometeia.Il 22% dei nuclei familiari (quindi, quasi uno ogni quattro) vive al di sotto della soglia di povertà, il doppio della media nazionale. Sale vertiginosamente il debito delle amministrazioni locali della Campania, arrivando a toccare quota 12 miliardi di euro; fino al mese di marzo 2009, le ore di cassa integrazione sono state cinque volte superiori che nel 2008. Nei soli primi tre mesi del 2009, secondo il Rapporto Svimez, la Campania ha perso 32.000 occupati.
Nella regione risiedono 5 milioni ed 812 mila persone, con una maggiore concentrazione tra Napoli città e la sua provincia. Il numero di famiglie supera i 2 milioni di unità. Nonostante sia la regione più giovane d’Italia (è quella che annovera il maggior numero di ragazzi di età compresa tra 0 e 14 anni) si registra un aumento della disoccupazione del 13,4% (era il 10,9% nel 2007);
la Campania è anche la regione che registra il tasso migratorio più alto verso altre regioni italiane. Napoli e provincia segnano il record della crescita del debito delle famiglie, con un incremento del 116, 36% negli ultimi cinque anni.La crisi economica e sociale che sta investendo il territorio campano sta penalizzando, in particolar modo, le fasce più deboli della popolazione, che stanno vedendo progressivamente diminuire non solo le possibilità occupazionali, i redditi e la capacità di acquisto, ma anche i servizi sociali e tutte quelle misure di sostegno di cui le famiglie più disagiate hanno maggiormente bisogno.E non sarà poi un caso se, anche il “Rapporto sull’Economia” curato dalla Camera di Commercio di Napoli, segnali la Campania come la più povera tra le regioni d’Italia, con oltre 140mila social cards rilasciate nel 2008 (dati Inps), pari al 23% del totale nazionale.
Collegandosi alla più o meno recente ipotesi di alcune forze politiche circa l’introduzione delle cd. “gabbie salariali”, è utile precisare che i redditi del Sud saranno anche alti, se rapportati al costo della vita, ma di sicuro vanno divisi tra più persone rispetto a quanto accade al Nord. Il record spetta alla Campania, dove ogni euro da lavoro o da pensione deve soddisfare 2,3 persone (percettore compreso), mentre all’estremo opposto della classifica c’è l’Emilia Romagna con 1,5 persone. Scorrendo i dati Istat, come già richiamato in precedenza, la Campania è la regione italiana con il maggior numero di giovani (16,7% contro il 14% della media nazionale) e quella con il più basso tasso di occupati per la popolazione attiva (appena 40,7% delle persone in età da lavoro contro il 57,4% della media nazionale).
Questi fattori hanno, come conseguenza immediata, un bassissimo numero di percettori di reddito, appena 43,3 ogni cento persone. Meno della Calabria e della Sicilia, che raggiungono almeno quota 47% (le regioni del nord sono attestate su una media del 64-65%). E’ anche per questo che Campania, Calabria, Puglia e Sicilia sono le regioni che l’Unione Europea considera in grave ritardo di sviluppo, al punto da meritare i fondi dell’asse 2007-2013, a conferma che il dato sui percettori di reddito è un indicatore sintetico della situazione economica complessiva e dei differenziali tra le regioni…”

08 maggio, 2010

Difendere la scuola e chi la fa

Ieri hanno dovuto asportare la milza a una maestra Maria Marcello del 48° circolo, zona orientale di Napoli, un luogo della tenuta civile ed educativa in mezzo alla barbarie. Ma molti episodi del tutto simili avvengono ovunque in Italia, a Nord e a Sud. Per questo ho scritto l’articolo che segue, che appare su Repubblica Napoli di oggi.


Un bambino dà un calcio che spappola la milza a una maestra. La prima cosa che noi tutti dobbiamo fare è esprimere vera vicinanza, affetto e solidarietà alla maestra. Scriviamole delle lettere. Mandiamole delle cartoline. Al 48° circolo di Napoli. In tanti. Sosteniamone la pena in queste ore.
E facciamolo con uno spirito che vada oltre la solidarietà umana. E’, infatti, tempo di difendere la scuola e chi la rende possibile. Faccio parte di quella moltitudine di docenti che provano da anni a cambiare la scuola. Perché così com’è non va. Ma da altrettanto tempo penso che c’è da fare una scelta netta: difendere con forza la scuola comunque. E ben oltre questo come altri episodi terribili, che destano naturale sdegno e solidarietà.
Questa scelta a sostegno della scuola è inderogabile. Per noi tutti. Lo è perché oggi le scuole sono rimaste il solo luogo comunitario, presente ovunque in Italia, quotidiano, costante dove adulti e bambini o ragazzi condividono spazi, parole, affetto, difficoltà, fatiche, speranze, sogni, scherzi, frustrazioni, dispiaceri. E lo fanno senza tornaconto economico, lontano dall’idea di bambino o ragazzo come consumatore. E lo fanno in un contesto distinto dal particulare che ogni famiglia necessariamente rappresenta. Oggi la scuola va sostenuta perché è questo. E lo è in mezzo a una società in cui è saltato il patto tra adulti. Quel patto che fonda e rende possibile la trasmissione simbolica dei valori, delle regole, dei modi di porgere e porgersi che passano da una generazione all’altra. La rottura di questo patto ha molte cause. Contano enormemente i modelli veicolati dall’insieme della società e dai media. I valori dei genitori non si formano più entro comunità culturalmente omogenee bensì in modi molto differenziati e spesso distratti, poveri. E la società italiana sta conoscendo anche una crisi drammatica nel presidio delle procedure e del limite. Che sono alla base del poter educare. Così non esistono più i quartieri e i paesi dove tutti e ciascuno aiutano a fare crescere insieme i nostri figli, presidiono i limiti condivisi, danno santa ritualiità ai gesti, portano rispetto alle regole, credono nell’esempio, cercano con pazienza le parole per chi è nato dopo di noi. E la tv mostra ottocento volte il gesto di Totti e zero volte i mille gesti solidali che tengono in piedi il Paese.
Nel mezzo di questo deserto è rimasta la scuola. Sola. Con sul groppone un compito titanico, quasi impossibile. Il compito di difendere il senso della parola educare.
E, mentre tutto questo sta sotto i nostri occhi, l’Italia è piena di “soloni” che parlano male della scuola e degli insegnanti. Si annidano nei media e nei salotti bene, giocano a spiegarci come dovrebbe essere il mondo, pontificano con i paroloni. Una cosa li accomuna: non hanno mai passato più di due minuti in una classe di scuola d’infanzia o media o primaria o in una sezione del biennio di un istituto superiore. Non conoscono la fatica di dirimere una lite, di insegnare di nuovo a salutare o ad alzarsi in autobus o sul treno durante la gita scolastica per fare posto alla donna incinta, al signore anziano, al disabile. Non hanno idea di cosa sia calmare una mamma ansiosa e provare a pattuire con i genitori una vera condivisione su cosa fare con i ragazzi. Non immaginano nemmeno quanta fatica c’è nel ridare motivazione a chi ha quindici anni e ripete che non crede in nulla e non sa fare nulla. O nel placare un bimbo o un ragazzo che dà di matto. O dare calma e ritmo di lavoro, giorno dopo giorno, a intere schiere di bimbi e ragazzi che sempre più spesso non riescono più a domare il proprio agire, a governare la normale frustrazione, a rispettare i limiti, gli altri, le cose.
Questo episodio è successo a Napoli. In un quartiere difficilissimo. In una scuola che conosco per il suo impegno. Sì, è accaduto in mezzo a una città che è allo stremo, in un contesto per il quale la scuola rappresenta il presidio della Repubblica in un un posto che, nella migliore delle ipotesi, è “terra di nessuno” ma che è spesso la terra dei nemici della legge e della città.
Ma oggi, per una volta, l’episodio non va visto come l’ennesimo segno della Napoli in degrado, ferita, povera, abbandonata. Cose così stanno accadendo ovunque. Dalla Brianza ai paesoni della Padania, dai piccoli e medi centri della civilissima Italia centrale alle metropoli del Nord come del Sud.
E’ una grande questione nazionale. E’ tempo di rispondere alla crisi educativa generalizzata, diffusa ovunque. Una crisi di magnitudo paurosa. Che dovrebbe creare allarme anche maggiore di quello per la crisi economica. Perché investe le nostre ragioni prime, quelle che consentono di poter vivere insieme negli stessi posti. Perciò: la solidarietà alla maestra Maria la si deve a lei e la si deve all’impegno civile per riprendere a educare in Italia.

07 maggio, 2010

Muovere la situazione


“A salute è a primma cos’”. Allo sfascio del territorio, c’è chi prova a reagire, sia pure a fatica. Guardatevi cosa racconta Francesco in merito.

Più in generale… Fare cose, avanzare proposte con chiunque, muovere la situazione, anche se il filo che tiene su la speranza è davvero esile. E’ questo a cui ci chiama una situazione che appare chiusa. C’è da uscire dalla trappola.
Questo è anche un po’ il tema dell’intervista radiofonica che ho rilasciato a Norberto. Dove non nascondo pessimismo ma dico che dobbiamo provare a muovere l’acqua stagnante. Ho ripreso ancora l’idea di primarie ad ottobre. Spero che presto si possa fare un appello su questo. Da fuori delle nomenclature. E soprattutto per rimettere al centro del dibattito pubblico le priorità di Napoli e avanzare proposte realistiche. Napoli deve aspirare a rifondare il suo patto con il Paese e con se stessa. Per fare questo la prospettiva non può essere arrendersi ai nomi che girano per sindaco, a sinistra e a destra. Ma soprattutto non può essere arrendersi in partenza a questa miserabile assenza di respiro culturale e alla totale mancanza di proposte che spingano la città e i cittadini a aspirare a…
Bisogna inventare, smuovere… per quanto sia difficile.