Oggi a Galassia Gutenberg c'è stato un pomeriggio dedicato al ricordo di Fabrizia Ramondino a un anno dalla sua scomparsa.
Oltre Napoli: la vita e l’opera di Fabrizia Ramondino
L'incontro è stato curato da Goffredo Fofi con Patrizia Cotugno, sono intervenuti e hanno portato testimonianze Iaia Caputo, Arturo Cirillo, Valentina De Rosa, Patrizio Esposito, Wlodek Goldkorn, Enzo Golino, Peppe Morrone, Giovanni Mottura, Andreas Muller, Livia Patrizi, Enrico Pugliese, Valeria Parrella, Paola Splendore, Assunta Signorelli.
Ho detto qualcosa anch'io e questo è il testo che ho cercato di seguire.
Esattamente 3 anni fa, il 30 maggio 2006, Fabrizia mi ha chiamato al telefono da Itri – si era simbolicamente candidata nella nostra lista, contenta di farlo, sapendo di straperdere; sì, il giorno dopo la sconfitta elettorale della nostra avventura di “decidiamo insieme” mi ha chiamato. E ha parlato un po’ di altro con la voce di ogni volta; poi è venuta rapidamente al dunque; e io ho annotato quello che mi ha detto:
“Marco caro, lo sai già, ma proprio perché hanno vinto così tanto, quelli fatti come noi, la strana gente che siamo, abbiamo maggiore responsabilità nel far valere il programma quello vero per i cittadini e per la città; c’è da tanto ma tanto da fare…”
Fabrizia si occupava d’altro. Lo sappiamo e le siamo riconoscenti. Ma la politica “la pensava” sempre.
E, allora - mi chiedo - quale era “ ‘sto programma quello vero per i cittadini e la città” che stava in testa a Fabrizia? Da dove veniva questa sua idea? E che cosa erano queste “maggiori responsabilità” di cui parlava?
Ce lo spiega bene Fabrizia nella sua bella intervista a Franco Sepe titolata “Questi vetruzzi finiti sulla spiaggia mi sembrano tante vite umane, chissà da dove vengono…”
“Come donna, come persona, come napoletana sono stata sempre impegnata nella questione sociale, poco dal punto di vista ideologico molto a livello concreto. La sinistra ufficiale, soprattutto quella comunista, tranne eccezioni, ha spesso considerato le nostre iniziative come inutili – la classica goccia nel mare – o addirittura le ha contrastate. Per formazione politica appartengo al filone del socialismo libertario – la mia tesi di laurea su Proudhon fu pubblicata nel ’65 sulla rivista anarchica “Volontà”, fondata da Giovanna Berneri, il cui marito Camillo fu ucciso durante la guerra di Spagna dagli stalinisti. Ovviamente ho salutato tutte le rivoluzioni sociali, da quella di Masaniello e di Cromwell alla rivoluzione francese alla Comune di Parigi a quella bolscevica. E naturalmente la lunga marcia di Mao. Ma il potere è una brutta bestia, logora e corrompe chi ce l’ha. Per me esercitare il potere significa che già mentre lo eserciti lo condividi e lo estendi a quanti più individui possibile.”
Questa suo orizzonte politico era costante nel tempo. Sette anni prima ne parlammo in occasione dell’uscita della versione italiana del libro “il bambino e la città” dell’anarchico inglese Colin Ward. Gli erano piaciute due citazioni.
La prima era del grande anarchico Petr Kropotkin, dalla sua definizione dell’anarchia, scritta per la Enciclopaedia Britannica. La lesse due volte ad alta voce, estasiata. Eccola:
“l’armonia non si ottiene per sottomissione alla legge o obbedienza alle autorità, ma grazie ai liberi accordi conclusi tra gruppi diversi, territoriali e professionali, liberamente costituiti nel nome della produzione e del consumo, nonché per il soddisfacimento dell’infinita varietà di bisogni e aspirazioni degli esseri civili”
La rileggeva. E mi piace ricordare i suoi occhi soddisfatti, ridenti.
La seconda era da Martin Buber e oggi pare quasi un controcanto a quello che Fabrizia ci ha lasciato in quella ultima intervista, quando dice che si era impegnata nella questione sociale e che diffidava del potere…. Eccola:
“Il predominio del principio politico, del potere, della gerarchia e del dominio sul principio sociale dell’associazione spontanea per le esigenze comuni provoca una continua diminuzione della spontaneità sociale espressa nella capacità e nella volontà di svolgere un ruolo attivo nella comunità.”
“Accussì, proprio accussì” – ripeteva.
E alla domanda , sempre di Franco Sepe – “secondo te come si combatte il potere?” – ecco la sua risposta:
“Tanto i grandi poteri, che provocano guerre fra popoli, opprimono le libertà individuali, ignorano il senso del limite, quanto quelli quotidiani, familiari o amicali, si combattono con l’immaginazione, la facoltà di immedesimarsi nell’altro, popolo o singolo che sia. E soprattutto con la diffusione dell’istruzione e della cultura – la vera cultura che non ha niente a che fare con l’indottrinamento ideologico o con l’uso che ne fanno sempre più i mezzi di comunicazione di massa. Se fossi un ministro della pubblica istruzione introdurrei già all’asilo l’insegnamento della musica classica antica e moderna, che con il suo metalinguaggio unisce invece di dividere. Kafka sosteneva che la cosa più difficile al mondo sono i quotidiani rapporti umani.”
E’ una risposta complicata. E anche sofferta. Parla di educazione – quando la politica non sa risolvere si parla sempre di educazione. Parla di musica e del carattere speciale di quel linguaggio. Quando pare che i linguaggi faticano ad avere un senso comune, si invoca la musica. E non è un caso che la citazione di Kropotkin sull’anarchia inzia, appunto, con la parola ‘armonia’. E parla poi – con uno scatto tipico di Fabrizia – delle relazioni tra persone, della difficoltà dei rapporti umani quotidiani. Rapporti quotidiani che sono stati difficili, spesso, per Fabrizia e con Fabrizia.
La impossibilità di una politica che sia lontano dal tessuto sociale vivo – che diventa tecnica del dominio – si lega all’idea della fatica delle relazioni e all’aspirazione all’armonia.
Un giorno sulla spiaggia di Laurito, commentando non ricordo quale vicenda di quella che comunemente si chiama politica, al commento di qualcuno – fatto con un velato senso di ammirazione - che diceva che non so chi aveva avuto grande “cazzimma”, Fabrizia, secca, replicò:
“ ‘a cazzimme è ‘a cazzimm e la politica e la politica”.
Ne seguì una delle molte, infinite nostre discussioni sulla relazione tra le due cose…. Ma era evidente che Fabrizia aveva scelto da tempo immemorabile la politica che non avesse relazione con quel altro ente.
Fabrizia perciò, fin da ragazza, si era dedicata alla questione sociale e alle sue azioni concrete come dimensione politica. Per libera scelta disincantata. Disincantata come è il disincanto di chi viene dalla borghesia e si impegna dall’altra parte perché, come una volta scrisse Fabrizia:
“Se l’esempio non viene dai ‘signori’ essi non sono degni di essere tali”.
Di chi si può permettere di fare senza incanto, appunto; e, dunque, di crederci – e lei ci credeva molto - ma sapendo anche tutto il resto.
Così voglio ricordare ancora una volta le sue giornate con i bambini della Torre a Quarto e della Pigna dove Fabrizia ha lavorato ogni giorno dalle 9 alle 16, per 6 anni, prendendo dalla vita gli argomenti per aprire con i ragazzi le vie del sapere, andando con loro in giro, fermandosi poi in una stanza semivuota qualsiasi, tra campagna e periferia, raccogliendo i loro racconti….
“Così ho celebrato il mio passaggio all’età adulta”.
Vi è un legame antico tra l’aspirazione alla politica – o, se si vuole all’utopia ma nella sua funzione politica – e i bambini.
Non so dirla altimenti che con la visione del profeta Isaia che piaceva molto a Fabrizia, su un tempo che sarà:
“Il vitello e l’orso frequenteranno insieme i medesimi pascoli e i loro piccoli riposeranno insieme… e farà loro da pastore un fanciulletto”
30 maggio, 2009
29 maggio, 2009
minuti 10 per la scuola
Brutte elezioni.
Ci sono 1600 candidati e una scheda di 50 centimetri per la nostra Provincia.
E nessuno quasi che parla di contenuti.
A sorpresa la coalizione di centro-sinistra che si riferisce a Nicolais mi ha chiesto di parlare per minuti dieci dei temi ai quali mi dedico da sempre, nel merito.
Non ho voluto dire di no. Perché dire anche poco sulle cose vive vale la pena comunque in questo deserto.
E, poi, parlo per quello che nei fatti sono: uno che si occupa di scuola e integrazione sociale, libero da appartenenze ma comunque non di destra.
24 maggio, 2009
Perdonate ma insisto
"Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Non amano l'acqua, molti di loro puzzano perchè tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si costruiscono baracche di legno ed alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci. Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti.
Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l'elemosina ma sovente davanti alle chiese donne vestite di scuro e uomini quasi sempre anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano non solo perchè poco attraenti e selvatici ma perchè si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche quando le donne tornano dal lavoro.
I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel nostro paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, attività criminali."
"Propongo che si privilegino i veneti e i lombardi, tardi di comprendonio e ignoranti ma disposti più di altri a lavorare. Si adattano ad abitazioni che gli americani rifiutano pur che le famiglie rimangano unite e non contestano il salario. Gli altri, quelli ai quali è riferita gran parte di questa prima relazione, provengono dal sud dell'Italia. Vi invito a controllare i documenti di provenienza e a rimpatriare i più. La nostra sicurezza deve essere la prima preoccupazione".
Relazione dell'Ispettorato per l'Immigrazione del Congresso americano sugli immigrati italiani negli Stati Uniti, Ottobre 1912.
La foto è del 1947, dall'archivio di Life Magazine.
17 maggio, 2009
Napoli divisa tra razzismo e antirazzismo
Un anno fa a Ponticelli, nella periferia est di Napoli, un campo rom è stato assaltato e gli abitanti scacciati. Oggi una manifestazione della Caritas e della Comunità di S. Egidio ricorda quell'episodio.
Ho scritto questo articolo per la Repubblica Napoli di oggi.
A un anno dall’assalto ai campi rom di Ponticelli si tiene al centro della nostra città una manifestazione per ricordare e per riflettere. E’ un’occasione civile importante. Che chiama a un esame impietoso di noi stessi. Come italiani e come napoletani.
Perché l’anno che è passato non è stato un buon anno per l’Italia in fatto di sentimenti e di azioni volte all’effettiva difesa dei diritti di tutti. Tanto è vero che il Capo dello Stato chiama a vigilare contro la crescente xenofobia e che, per la prima volta nella storia, è in atto un aperto conflitto tra il massimo garante posto a tutela dei diritti umani a livello planetario – le Nazioni Unite – e il governo del nostro Paese.
Ma anche a Napoli – bisogna pur dirlo – stiamo vivendo un tempo cupo, che vede la città profondamente divisa tra chi è preso dalla regressione razzista e chi si batte per una civiltà dei diritti.
E sono i nudi fatti a dircelo, a partire proprio da quelli di un anno fà a Ponticelli. Ricordiamone la triste sequenza. Mentre le autorità annunciavano lo sgombero legale, per ragioni igienico-sanitarie, di alcuni campi rom lasciati per decenni all’abbandono più scandaloso, bande di giovani e meno giovani, spesso con precedenti di mala, assaltavano le baracche rom e le bruciavano lanciando molotov dai motorini, mirando non solo ai luoghi ma alle persone. Nelle strade vicine, dinanzi alle telecamere della Rai, si urlava in loro convinto sostegno perché si dovevano “vendicare i furti di bambini”, un’accusa antica, che – nella storia umana – ha sempre accompagnato la persecuzione dei gruppi minoritari da parte di maggioranze frustrate dalle persistenti povertà e aizate dalle menzogne.
A Ponticelli ci si riferiva in quelle ore a un episodio di intrusione in una casa del quartiere da parte di una minorenne, subito assicurata alla giustizia e sulle cui circostanze e responsabilità la magistratura stava già indagando, minorenne poi risultata innocente.
Ma a Ponticelli, come nei pogrom nella Russia zarista dell’ottocento, il pregiudizio si mescolava anche agli interessi più grevi. E presto gli incursori rivelavano ai giornalisti che le attività illegali dei rom facevano aumentare la presenza, per loro fastidiosa, della polizia nel quartiere e che i rom erano loro diretti concorrenti nell’accumulazione di ferro, alluminio e rame da rivendere. E, infatti, bruciato il primo campo, i poliziotti erano costretti ad allontanare le bande di predatori che intendevano “riprendersi rame e ferro”. Intanto i TG della sera riprendevano gruppi di donne del quartiere che ballavano e urlavano come nelle feste delle orde; e esaltavano la vendetta contro la comunità rom in quanto tale, rea di essere tutta intera “ladra di bambini”… un’adagio cupo, che fin dal Medioevo ha accompagnato l’attacco agli ebrei e agli zingari d’Europa, fino alla Shoah.
Così lo sgombero legale annunciato è stato sostituito dall’assalto incendiario contro chi è diverso. Così lo stato ha ancora una volta perso il monopolio della forza. E così il diktat della camorra di quartiere si è sposato con la crescita del pregiudizio xenofobo. Il “sistema” ha fatto le ronde per assicurare il quieto vivere dell’economia illegale di sempre mentre annunciava strada per strada di “proteggere la popolazione dagli zingari cattivi”.
Resterà nella memoria negativa di Napoli il fatto che roghi e assalti hanno costretto alla fuga notturna circa 500 persone - vecchi, donne, bambini inermi - protette solo dai poliziotti e dai volontari della Caritas e della Comunità di S. Egidio. E resterà nella memoria positiva che questi volontari - circondati da una folla attrezzata al linciaggio, quello vero - hanno coraggiosamente trovato i furgoni e le auto per portare in salvo, viaggio dopo viaggio, decine di persone sistemandole per la notta nelle abitazioni di cittadini civili di questa città.
L’indomani, alla fine del saccheggio, bande di squadristi rovistavano tra le povere cose lasciate. Ma nelle aule del 88° circolo didattico dove, di lì a breve, avrebbe dovuto concludersi un progetto tra bambini rom riconquistati alla scuola pubblica e altri bimbi del quartiere – un lavoro basato sulla narrazione di fiabe rom, che uniscono – i bambini di Ponticelli coinvolti nel lavoro didattico piangevano disperati: “Abbiamo visto i nostri compagni di classe fuggire piangendo tra la folla inferocita”.
E la politica? Mentre venivano lanciate le molotov i partiti di destra e il PD, all’unisono, tacevano sulle violenze e insistevano sullo smantellamento dei campi. E il PD affiggeva un manifesto per le vie della sua roccaforte elettorale che resterà un’onta nella sua storia perché confondeva rifiuti e presenza rom chiamando alla loro immediata cacciata dal quartiere mentre le bande erano già all’assalto.
Ma quel che è ancor più grave è che nessuno con una funzione di rappresentanza politica è stato lì sul posto insieme alle forze dell’ordine. Né un parlamentare né un solo rappresentante di comune o provincia o regione. Nessuno è stato in grado di parlare con le due parti.
Queste cose sono avvenute l’anno scorso nella nostra città e – per la loro inaudita gravità - sono state oggetto di studio e riflessione da parte degli studiosi del razzismo e delle persecuzioni dell’Europa intera. E queste cose non sono, purtroppo, restate isolate. Anzi. Da allora c’è stato il massacro di lavoratori neri a Castel Volturno, i cortei contro gli stranieri nella zona occidentale, il pestaggio di un ragazzo italiano perché non era bianco, l’astio contro alunni rom di una scuola elementare sol perché una bimba rom era risultata positiva al test della TBC senza essere malata, la separazione “d’autorità” di una mamma africana dal suo bimbo appena nato in un ospedale cittadino.
Di fronte a tutto ciò sono poco credibili le ricorrenti prediche auto-assolutorie sulla buona natura partenopea, che sarebbe diversa da quella di altre parti d’Italia. Ed è davvero tempo che si torni anche a Napoli all’impegno sui diritti umani e civili.
Ho scritto questo articolo per la Repubblica Napoli di oggi.
A un anno dall’assalto ai campi rom di Ponticelli si tiene al centro della nostra città una manifestazione per ricordare e per riflettere. E’ un’occasione civile importante. Che chiama a un esame impietoso di noi stessi. Come italiani e come napoletani.
Perché l’anno che è passato non è stato un buon anno per l’Italia in fatto di sentimenti e di azioni volte all’effettiva difesa dei diritti di tutti. Tanto è vero che il Capo dello Stato chiama a vigilare contro la crescente xenofobia e che, per la prima volta nella storia, è in atto un aperto conflitto tra il massimo garante posto a tutela dei diritti umani a livello planetario – le Nazioni Unite – e il governo del nostro Paese.
Ma anche a Napoli – bisogna pur dirlo – stiamo vivendo un tempo cupo, che vede la città profondamente divisa tra chi è preso dalla regressione razzista e chi si batte per una civiltà dei diritti.
E sono i nudi fatti a dircelo, a partire proprio da quelli di un anno fà a Ponticelli. Ricordiamone la triste sequenza. Mentre le autorità annunciavano lo sgombero legale, per ragioni igienico-sanitarie, di alcuni campi rom lasciati per decenni all’abbandono più scandaloso, bande di giovani e meno giovani, spesso con precedenti di mala, assaltavano le baracche rom e le bruciavano lanciando molotov dai motorini, mirando non solo ai luoghi ma alle persone. Nelle strade vicine, dinanzi alle telecamere della Rai, si urlava in loro convinto sostegno perché si dovevano “vendicare i furti di bambini”, un’accusa antica, che – nella storia umana – ha sempre accompagnato la persecuzione dei gruppi minoritari da parte di maggioranze frustrate dalle persistenti povertà e aizate dalle menzogne.
A Ponticelli ci si riferiva in quelle ore a un episodio di intrusione in una casa del quartiere da parte di una minorenne, subito assicurata alla giustizia e sulle cui circostanze e responsabilità la magistratura stava già indagando, minorenne poi risultata innocente.
Ma a Ponticelli, come nei pogrom nella Russia zarista dell’ottocento, il pregiudizio si mescolava anche agli interessi più grevi. E presto gli incursori rivelavano ai giornalisti che le attività illegali dei rom facevano aumentare la presenza, per loro fastidiosa, della polizia nel quartiere e che i rom erano loro diretti concorrenti nell’accumulazione di ferro, alluminio e rame da rivendere. E, infatti, bruciato il primo campo, i poliziotti erano costretti ad allontanare le bande di predatori che intendevano “riprendersi rame e ferro”. Intanto i TG della sera riprendevano gruppi di donne del quartiere che ballavano e urlavano come nelle feste delle orde; e esaltavano la vendetta contro la comunità rom in quanto tale, rea di essere tutta intera “ladra di bambini”… un’adagio cupo, che fin dal Medioevo ha accompagnato l’attacco agli ebrei e agli zingari d’Europa, fino alla Shoah.
Così lo sgombero legale annunciato è stato sostituito dall’assalto incendiario contro chi è diverso. Così lo stato ha ancora una volta perso il monopolio della forza. E così il diktat della camorra di quartiere si è sposato con la crescita del pregiudizio xenofobo. Il “sistema” ha fatto le ronde per assicurare il quieto vivere dell’economia illegale di sempre mentre annunciava strada per strada di “proteggere la popolazione dagli zingari cattivi”.
Resterà nella memoria negativa di Napoli il fatto che roghi e assalti hanno costretto alla fuga notturna circa 500 persone - vecchi, donne, bambini inermi - protette solo dai poliziotti e dai volontari della Caritas e della Comunità di S. Egidio. E resterà nella memoria positiva che questi volontari - circondati da una folla attrezzata al linciaggio, quello vero - hanno coraggiosamente trovato i furgoni e le auto per portare in salvo, viaggio dopo viaggio, decine di persone sistemandole per la notta nelle abitazioni di cittadini civili di questa città.
L’indomani, alla fine del saccheggio, bande di squadristi rovistavano tra le povere cose lasciate. Ma nelle aule del 88° circolo didattico dove, di lì a breve, avrebbe dovuto concludersi un progetto tra bambini rom riconquistati alla scuola pubblica e altri bimbi del quartiere – un lavoro basato sulla narrazione di fiabe rom, che uniscono – i bambini di Ponticelli coinvolti nel lavoro didattico piangevano disperati: “Abbiamo visto i nostri compagni di classe fuggire piangendo tra la folla inferocita”.
E la politica? Mentre venivano lanciate le molotov i partiti di destra e il PD, all’unisono, tacevano sulle violenze e insistevano sullo smantellamento dei campi. E il PD affiggeva un manifesto per le vie della sua roccaforte elettorale che resterà un’onta nella sua storia perché confondeva rifiuti e presenza rom chiamando alla loro immediata cacciata dal quartiere mentre le bande erano già all’assalto.
Ma quel che è ancor più grave è che nessuno con una funzione di rappresentanza politica è stato lì sul posto insieme alle forze dell’ordine. Né un parlamentare né un solo rappresentante di comune o provincia o regione. Nessuno è stato in grado di parlare con le due parti.
Queste cose sono avvenute l’anno scorso nella nostra città e – per la loro inaudita gravità - sono state oggetto di studio e riflessione da parte degli studiosi del razzismo e delle persecuzioni dell’Europa intera. E queste cose non sono, purtroppo, restate isolate. Anzi. Da allora c’è stato il massacro di lavoratori neri a Castel Volturno, i cortei contro gli stranieri nella zona occidentale, il pestaggio di un ragazzo italiano perché non era bianco, l’astio contro alunni rom di una scuola elementare sol perché una bimba rom era risultata positiva al test della TBC senza essere malata, la separazione “d’autorità” di una mamma africana dal suo bimbo appena nato in un ospedale cittadino.
Di fronte a tutto ciò sono poco credibili le ricorrenti prediche auto-assolutorie sulla buona natura partenopea, che sarebbe diversa da quella di altre parti d’Italia. Ed è davvero tempo che si torni anche a Napoli all’impegno sui diritti umani e civili.
14 maggio, 2009
Legalità sostenibile
Difficile curare il blog quando si passa molto tempo viaggiando su e giù per lo stivale. Spero di tornare a maggiore regolarità.
Mi sto occupando sempre di innovazione della scuola e dell’apprendimento professionale a Trento – dove ormai sto abitualmente quattro giorni a settimana. A proposito di scuola in generale segnalo il sito educationduepuntozero di cui curo la pagina dedicata alla “città educativa”.
Ho passato questa volta l’inizio settimana a Napoli. Dove 1500 (!) candidati si presentano per le provinciali, una roba terrificante e che da sola dimostra che non c’è spazio per contenuti, dibattito, confronto vero su cosa è e cosa dovrebbe o potrebbe essere la nostra provincia.
Mi sono incuriosito di altro perciò. Per esempio delle notizie su miei alunni ancora una volta emigrati al Nord dai Quartieri mentre altri, al contrario, sono in rientro a causa di licenziamenti al Nord. Mi ha poi colpito l’episodio – l’ennesimo – dei due giovanissimi motociclisti morti nella notte tra domenica e lunedì perché gareggiavano nella corsia preferenziale, da poco asfaltata, del Rettifilo (va chiamato proprio così in questo caso il Corso Umberto) e che si sono ‘toccati’ a quasi 200 km all’ora… La corsia sta ormai stabilmente assumendo la funzione di pista per scommesse e i feriti e i morti si moltiplicano. Polizia a controllare? Nemmeno dipinta. Mah?
E a proposito di “cambio di destinazione d’uso” di luoghi urbani vi è stato il blitz dei vigili a Piazza Mancini di cui scrivo su la Repubblica di Napoli di domani. Dopo aver letto le cronache degli eventi, ho preso il coraggio e chiamato l’assessore, prof. Raffa, che reputo brava persona e conosco da quasi quaranta anni. Mi pare che provi, almeno, a voler fare qualcosa in senso un po’ sensato e partecipativo: il mercato del pesce è stato bonificato e attrezzato, i venditori giovani del Centro antico hanno avuto occasioni legali di vendita nel Borgo orefici, vuole convincere a pensare in termini – finalmente! – di “legalità sostenibile”. Resta che gli stranieri devono fuggire con la mercanzia ogni due ore e che c’è stato lo scontro di piazza stamattina con tanto di minaccia con pistola sguainata da parte di un vigile urbano... Ma Napoli è anche molto complicata. Ecco comunque l’articolo:
Ieri mattina i vigili hanno tentato di avviare la trasformazione di Piazza Mancini da luogo che da lungo tempo è un mercato ad area attrezzata, con zone a parcheggio a pagamento.
I venditori si sono ribellati. Un vigile ha reagito estraendo una pistola, senza, per fortuna, sparare. Ne è nato un parapiglia, la minaccia di un presidio permanente e l’avvio di una mediazione tra amministratori e commercianti di strada.
L’amministrazione sta cercando di mettere ordine nell’uso dei suoli pubblici e di regolare meglio i mercati promuovendo un passaggio a una “legalità sostenibile” dei tanti diversi tipi di commerci di strada. Ci vorrà tempo. Ma forse c’è un disegno teso a creare spazi di vendita regolati senza penalizzare chi già vive di commercio. Dunque forse si riconosce - in particolare, da parte dell’assessore Raffa - che è tempo di superare una tipica trappola della vita della nostra città: tracciare confini rigidi tra ciò che è consentito e ciò che non lo è ma senza proporre vie di uscita per i soggetti interessati, salvo, poi, trovare soluzioni “aum aum”, ossia fondate sulla mediazione fatta fuori da ogni disegno pubblicamente espresso e luogo deputato. Dunque speriamo che davvero si affronti il nodo del come coinvolgere le persone che vivono di commercio in un processo di trasformazione del proprio lavoro e del proprio rapporto con gli spazi della città e con la legge.
In tale prospettiva l’episodio di Piazza Mancini può essere utile. Perché è un tipico esempio della complessità alla quale si deve rispondere con soluzioni condivise e differenziate. Infatti lì vi sono stati sempre posti vendita. Ma di natura diversa. Banchi vendita nati per strada ma divenuti fissi nel tempo e con clientele stabili. Banchi oggetto di ripetuta compravendita – si vende la mera occupazione di un dato spazio – e, dunque passati da molte mani in modo spesso poco chiaro. Oppure commerci di sussistenza di migranti, con o senza permesso di soggiorno, costretti a fuggire a ogni arrivo della polizia, come altrove in città; e stretti tra i fornitori, spesso legati al malaffare, la dura concorrenza e anche il conflitto con gli italiani, la necessità di sopravvivere. Tutti questi commerci - spesso direttamente legati a varie filiere controllate dalla camorra, altre volte no - sono certamente illegali. Così come lo sono molti parcheggi o pulmini abusivi o vendite porta a porta o lavoro domestico, ecc. E’ questa, però, una delle condizioni per sopravvivere in una città segnata dalla precarietà del lavoro e dalla vita sotto la soglia di povertà di quasi un terzo dei nostri concittadini. In questi modi intere famiglie hanno sbarcato il lunario, sposato i figli, pagato il mutuo. Piaccia o non piaccia. Fa parte del modello di sviluppo dei nostri luoghi, quello reale, quello tollerato e con il quale conviviamo tutti.
Misurarsi con questo e anche cambiare questo stato di cose si può. Lo si è fatto altrove nel mondo. Ma a condizione di discutere di un qualche modello di sviluppo che riprenda le mosse dalle produzioni di beni e servizi. Deve tornare finalmente all’ordine del giorno una città che produce – ora come ai tempi di Francesco Saverio Nitti. La vita civile non può fondarsi solo sulla gestione della spesa pubblica da parte della politica. E anche a condizione di proporre, appunto, vie di uscita per tutti e per ciascuno. Nel nostro caso: lotta tenace al controllo criminale sui commerci, riconoscimento della funzione economica e anche civile del commercio di strada, sostegno allo studio per i diversi tipi di licenze, spazi regolati e tassati ma anche accessibili. Di queste cose si può parlare con le persone di Piazza Mancini e altrove; e con la città. Perché la crescita della città si misura anche da queste piccole grandi cose.
Mi sto occupando sempre di innovazione della scuola e dell’apprendimento professionale a Trento – dove ormai sto abitualmente quattro giorni a settimana. A proposito di scuola in generale segnalo il sito educationduepuntozero di cui curo la pagina dedicata alla “città educativa”.
Ho passato questa volta l’inizio settimana a Napoli. Dove 1500 (!) candidati si presentano per le provinciali, una roba terrificante e che da sola dimostra che non c’è spazio per contenuti, dibattito, confronto vero su cosa è e cosa dovrebbe o potrebbe essere la nostra provincia.
Mi sono incuriosito di altro perciò. Per esempio delle notizie su miei alunni ancora una volta emigrati al Nord dai Quartieri mentre altri, al contrario, sono in rientro a causa di licenziamenti al Nord. Mi ha poi colpito l’episodio – l’ennesimo – dei due giovanissimi motociclisti morti nella notte tra domenica e lunedì perché gareggiavano nella corsia preferenziale, da poco asfaltata, del Rettifilo (va chiamato proprio così in questo caso il Corso Umberto) e che si sono ‘toccati’ a quasi 200 km all’ora… La corsia sta ormai stabilmente assumendo la funzione di pista per scommesse e i feriti e i morti si moltiplicano. Polizia a controllare? Nemmeno dipinta. Mah?
E a proposito di “cambio di destinazione d’uso” di luoghi urbani vi è stato il blitz dei vigili a Piazza Mancini di cui scrivo su la Repubblica di Napoli di domani. Dopo aver letto le cronache degli eventi, ho preso il coraggio e chiamato l’assessore, prof. Raffa, che reputo brava persona e conosco da quasi quaranta anni. Mi pare che provi, almeno, a voler fare qualcosa in senso un po’ sensato e partecipativo: il mercato del pesce è stato bonificato e attrezzato, i venditori giovani del Centro antico hanno avuto occasioni legali di vendita nel Borgo orefici, vuole convincere a pensare in termini – finalmente! – di “legalità sostenibile”. Resta che gli stranieri devono fuggire con la mercanzia ogni due ore e che c’è stato lo scontro di piazza stamattina con tanto di minaccia con pistola sguainata da parte di un vigile urbano... Ma Napoli è anche molto complicata. Ecco comunque l’articolo:
Ieri mattina i vigili hanno tentato di avviare la trasformazione di Piazza Mancini da luogo che da lungo tempo è un mercato ad area attrezzata, con zone a parcheggio a pagamento.
I venditori si sono ribellati. Un vigile ha reagito estraendo una pistola, senza, per fortuna, sparare. Ne è nato un parapiglia, la minaccia di un presidio permanente e l’avvio di una mediazione tra amministratori e commercianti di strada.
L’amministrazione sta cercando di mettere ordine nell’uso dei suoli pubblici e di regolare meglio i mercati promuovendo un passaggio a una “legalità sostenibile” dei tanti diversi tipi di commerci di strada. Ci vorrà tempo. Ma forse c’è un disegno teso a creare spazi di vendita regolati senza penalizzare chi già vive di commercio. Dunque forse si riconosce - in particolare, da parte dell’assessore Raffa - che è tempo di superare una tipica trappola della vita della nostra città: tracciare confini rigidi tra ciò che è consentito e ciò che non lo è ma senza proporre vie di uscita per i soggetti interessati, salvo, poi, trovare soluzioni “aum aum”, ossia fondate sulla mediazione fatta fuori da ogni disegno pubblicamente espresso e luogo deputato. Dunque speriamo che davvero si affronti il nodo del come coinvolgere le persone che vivono di commercio in un processo di trasformazione del proprio lavoro e del proprio rapporto con gli spazi della città e con la legge.
In tale prospettiva l’episodio di Piazza Mancini può essere utile. Perché è un tipico esempio della complessità alla quale si deve rispondere con soluzioni condivise e differenziate. Infatti lì vi sono stati sempre posti vendita. Ma di natura diversa. Banchi vendita nati per strada ma divenuti fissi nel tempo e con clientele stabili. Banchi oggetto di ripetuta compravendita – si vende la mera occupazione di un dato spazio – e, dunque passati da molte mani in modo spesso poco chiaro. Oppure commerci di sussistenza di migranti, con o senza permesso di soggiorno, costretti a fuggire a ogni arrivo della polizia, come altrove in città; e stretti tra i fornitori, spesso legati al malaffare, la dura concorrenza e anche il conflitto con gli italiani, la necessità di sopravvivere. Tutti questi commerci - spesso direttamente legati a varie filiere controllate dalla camorra, altre volte no - sono certamente illegali. Così come lo sono molti parcheggi o pulmini abusivi o vendite porta a porta o lavoro domestico, ecc. E’ questa, però, una delle condizioni per sopravvivere in una città segnata dalla precarietà del lavoro e dalla vita sotto la soglia di povertà di quasi un terzo dei nostri concittadini. In questi modi intere famiglie hanno sbarcato il lunario, sposato i figli, pagato il mutuo. Piaccia o non piaccia. Fa parte del modello di sviluppo dei nostri luoghi, quello reale, quello tollerato e con il quale conviviamo tutti.
Misurarsi con questo e anche cambiare questo stato di cose si può. Lo si è fatto altrove nel mondo. Ma a condizione di discutere di un qualche modello di sviluppo che riprenda le mosse dalle produzioni di beni e servizi. Deve tornare finalmente all’ordine del giorno una città che produce – ora come ai tempi di Francesco Saverio Nitti. La vita civile non può fondarsi solo sulla gestione della spesa pubblica da parte della politica. E anche a condizione di proporre, appunto, vie di uscita per tutti e per ciascuno. Nel nostro caso: lotta tenace al controllo criminale sui commerci, riconoscimento della funzione economica e anche civile del commercio di strada, sostegno allo studio per i diversi tipi di licenze, spazi regolati e tassati ma anche accessibili. Di queste cose si può parlare con le persone di Piazza Mancini e altrove; e con la città. Perché la crescita della città si misura anche da queste piccole grandi cose.
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