La vicenda degli sprechi nelle neonate municipalità (vicenda antica ma esposta finalmente ai cittadini solo grazie all’azione del consigliere di municipalità di Decidiamo Insieme Norberto Gallo che ha sollevato il coperchio, unico tra i trecento consiglieri di ogni parte politica) e poi del costo pauroso delle società miste in Campania, spesso o inutili o dannose, ci ricordano il problema centrale della responsabilità della politica in ogni scandalo nella gestione della cosa pubblica. E’ questo il senso delle rinate puntuali campagne di stampa che troviamo sulle pagine locali, per un lungo periodo abituate alla lode o alla ossequiosa e garbata osservazione una tantum. Prendete una qualsiasi pagina napoletana di Repubblica di uno o due anni fa e quelle di oggi: sono due diversi mondi. Si annuncia una nuova stagione. E tale stagione implica la indicazione delle responsabilità politiche.
In altre parole è vero – qui come negli Stati Uniti o in Kenya o in Spagna o in Argentina ecc. ecc. - quel che diceva Pasolini: chi governa è responsabile in primis, che abbia o no responsabilità diretta in singoli episodi o vicende, che abbia o no ragionevoli attenuanti. Quando, ai suoi tempi, parlava di processare la DC non intendeva se non questo: al di là della vittoria elettorale, che va sempre riconosciuta, nelle vicende di cattiva gestione delle pubbliche risorse, si rende necessario anche un civile dito puntato contro chi, a furia di amministrare male, porta sciagura alla cosa pubblica. Uno studioso attento della funzione e della degenerazione della politica in Campania come Percy Allum dice – a tal proposito - sull’ultimo numero dell’Espresso che ancora oggi il modello di chi è al potere a Napoli e in Campania ha i tratti che egli aveva studiato nel periodo di Gava. Se, poi, allo sperpero delle risorse, colposo o colpevole che sia, si aggiungono i grandi temi della quotidianità che non rende possibile il vivere civile – non sapere gestire i nostri rifiuti in modo responsabile e razionale, non sapere contrastare il crimine che nega di fatto i diritti fondamentali alla sicurezza e alla libertà, non dare speranza ai giovani e a chi sta peggio – beh, allora, oltre alla difesa del denaro pubblico c’è il tema della funzione stessa della politica come leva per salvaguardare e migliorare la vita da una generazione all’altra. Insomma: nella crisi napoletana e campana che oggi torna prepotente su tutti i media nazionali, vi è comunque il segno sicuro che gli ultimi 15 anni di esperienza politica di centro-sinistra hanno portato a un vicolo cieco e tradito ogni promessa.
E questo è. Ben oltre le difficoltà obiettive che noi tutti riconosciamo e i compiti complessi.
E questo significa un’altra cosa. Da parte di questo gruppo dirigente di centro-sinistra la candidatura alla guida politica del risanamento e del riscatto è improponibile. Si sta aprendo, infatti, la stagione della constatazione dei danni a cui va affiancata la stagione delle alternative di metodi e di uomini e donne. Queste stagioni, in politica, sono interdette a chi i danni ha contribuito a farli.
30 ottobre, 2006
24 ottobre, 2006
Povertà, democrazia, scuola
Ho riguardato con cura i dati sulla povertà relativa in Italia e nella nostra regione e città.
Mi occupo di povertà da anni perché un indicatore importante del fatto che la scuola pubblica assolva alla sua primaria funzione, in un qualsiasi paese del mondo – secondo tutti i documenti ONU e tutti gli studi - risiede nel fatto che vi sia mobilità sociale ossia che i figli di operai o disoccupati o contadini o impiegati abbiano la scelta di fare cose diverse dai propri genitori e guadagnare anche meglio, che abbiano, dunque, scelte disponibili e opportunità tendenzialmente sempre più uguali agli altri cittadini più fortunati. Si tratta della scuola nella sua funzione di leva per la “discriminazione positiva” che è quella cosa per la quale si dà di più a chi parte svantaggiato e si evita di perpetuare l’ineguaglianza dando cose standard e uguali a persone in condizioni di partenza non uguali. Per i giovani cittadini in crescita questa possibilità di emancipazione dalla condizione di partenza grazie alla scuola pubblica è internazionalmente considerato anche un indicatore di democraticità della società perché è acclarato che maggiore sapere facilita cittadinanza e possibilità partecipative che, a loro volta, nella società della conoscenza, favoriscono competenza deliberativa a livello locale e nazionale. Democrazia e mobilità sociale verticale sono tra loro legate e hanno origine in un buon sistema scolastico pubblico. E il primo passo in questa direzione sta nella possibilità che un figlio o figlia di poveri, grazie alla scuola, non riproduca la condizione di partenza ma, invece, esca dallo stato di povertà.
Chi è un povero oggi in Italia? Si considera povera una famiglia di due persone che vive con meno di 936,58 euro al mese. Si ottiene questa cifra moltiplicando la spesa media pro-capite nel Paese per un coefficiente che calcola le ottimizzazioni ed è al contempo legato al numero dei membri della famiglia. Così un single è povero se guadagna meno di 561,95 euro al mese mentre una famiglia di quattro persone lo è sotto i 1.526,63 euro al mese.
Ebbene. La povertà relativa riguarda l’11,1% della famiglie italiane, ben 7.577.000 persone che sono il 13,1% dell’intera nostra popolazione. La percentuale aumenta per le famiglie con 1 lavoratore dipendente, per quelle con più persone in cerca di occupazione, per le donne sole e per famiglie più numerose, tanto che la percentuale di poveri ragazzi e bambini è maggiore della media. Ma attenzione: quasi tutti questi fattori trovano i picchi al Sud e si tratta, negli ultimi 2 anni, del 24% - 25% della famiglie meridionali – 1 su 4 ! – che sono povere nel Mezzogiorno. Ciò a fronte del 6,0% - 7,3% delle famiglie del Centro dell’Italia e del 4,5% – 4,7% delle famiglie del Nord. Inoltre la percentuale è sostanzialmente ferma per il Centro, è in lieve diminuzione per il Nord ma aumenta, invece, di circa 3 punti percentuali al Sud e l’intensità di povertà – il quanto si è sotto quella soglia – è ben più elevata a Sud.
La situazione in assoluto più grave è quella della Campania dove il 27% delle famiglie è povera e in costante aumento. E, entro la Campania, i picchi della crisi sono le zone metropolitane della Provincia di Napoli e, in modo esponenziale, le periferie e i quartieri interni della città di Napoli in particolare. Se si incrociano questi dati con quelli relativi a disattesa scolastica e fallimento formativo vi è piena corrispondenza: nelle aree territoriali di massima povertà aumenta il fallimento scolastico.
Inoltre la mobilità sociale verticale in Italia è sostanzialmente ferma, in generale, da circa 15 anni ed è chiaramente peggiorata dal periodo 1960- 1980. Allora i figli di operai e braccianti avevano più possibilità di emanciparsi e migliorare di quanto non lo abbiano oggi i figli di operai, impiegati e poveri a lavoro precario. E’ una situazione estrema tra i paesi sviluppati. La mancata mobilità sociale verticale è, poi, letteralmente precipitata nel Sud, in Campania e nell’area di Napoli in modo ancor più grave che altrove. E ciò spiega largamente la ripresa dell’emigrazione interna dalle nostre zone verso il Centro- Nord. La scuola italiana è dunque tra quelle meno capaci di favorire emancipazione, è una scuola più “di classe” delle altre dei cosiddetti paesi sviluppati ed è più “di classe” oggi che ai tempi di Don Milani. Non promette molto ai soggetti più deboli in termini di conoscenze e possibilità di lavoro futuro, non favorisce i processi democratici nella società della conoscenza per chi ne è fuori alla nascita, immette pochi ragazzi più esclusi nei processi di orientamento e nel mercato del lavoro locale, intercetta poco la fascia in assoluto più debole della popolazione adolescenziale che è quella che non termina o termina a stento gli 8 anni di obbligo, consente pochissima formazione continua nelle diverse età della vita in generale e per chi non l’ha fatta prima. Tutti questi indicatori sono ancor più marcati in Campania e a Napoli.
Non tutto dipende dalla scuola e un miglioramento della scuola senza strategie di sviluppo equilibrato sarebbe una politica monca. Tuttavia la scuola deve cambiare. E solo se cambia conserva la sua ragione d’essere. Altrimenti serve per dare buona scuola pubblica quasi gratis a chi ne ha meno bisogno – come acutamente osservava Domenico Starnone qualche anno fa. Questa constatazione significa porsi il problema di cosa cambiare nel modo di fare scuola a favore dell’apprendimento, coinvolgimento e sostegno maggiore ai ragazzi. Qual è la direzione per ritrovare la missione primaria della scuola? Non è facile indicare gli indirizzi. Ma alcune cose sono evidenti. Se i cambiamenti implicano più soldi ai docenti ma anche una trasformazione radicale nel modo di essere docenti in termini di reale maggiore libertà e di maggiore diretta responsabilità sull’organizzazione scolastica e sui processi di apprendimento si va nella direzione giusta. Se si superano le logiche di brutale standardizzazione dei processi di apprendimento a scuola (stesse lezioni, stessi compiti, stessi assetti didattici a tutti) a favore di un sistema misto che salvaguardi cose comuni ma sappia anche differenziare per dare di più o diverso a chi ne ha bisogno si va nella direzione giusta. Se si applica il principio “uguale salario a uguale lavoro” (tanto per usare la formula classica che fu addirittura di Marx ed Engels) e si abbandona la pretesa di dare “uguale salario a tutti” si va nella direzione giusta. Se i soldi vanno a premiare chi sta con i ragazzi e promuove innovazione, al contempo, ma come gruppo di docenti e non come singolo si va nella direzione giusta. Se si smontano le burocrazie e il delirio aziendalista, per di più anacronistico anche nelle aziende, a favore di vera autonomia scolastica per la quale le scuole rispondono al territorio del loro lavoro e concordano le modalità entro le quali possa avvenire una valutazione partecipata e premiano il protagonismo dei gruppi docenti organizzati come comunità di pratiche d’accordo con i dirigenti si va nella direzione giusta. Se si accoglie l’emergenza campana e napoletana e di altre aree di grave crisi nel Mezzogiorno e si dà sostegno straordinario alle buone cose ordinarie che si fanno ogni giorno a scuola e alle azioni che combattono la dispersione scolastica di massa si va nella direzione giusta. Se si premiano le innovazioni che funzionano si va nella direzione giusta. E’ questo di cui si deve discutere. Si tratta di una battaglia difficile e lunga che è “di democrazia”.
Non mi pare che oggi dalle nostre parti si intenda la politica come discussione di merito su queste cose.
Mi occupo di povertà da anni perché un indicatore importante del fatto che la scuola pubblica assolva alla sua primaria funzione, in un qualsiasi paese del mondo – secondo tutti i documenti ONU e tutti gli studi - risiede nel fatto che vi sia mobilità sociale ossia che i figli di operai o disoccupati o contadini o impiegati abbiano la scelta di fare cose diverse dai propri genitori e guadagnare anche meglio, che abbiano, dunque, scelte disponibili e opportunità tendenzialmente sempre più uguali agli altri cittadini più fortunati. Si tratta della scuola nella sua funzione di leva per la “discriminazione positiva” che è quella cosa per la quale si dà di più a chi parte svantaggiato e si evita di perpetuare l’ineguaglianza dando cose standard e uguali a persone in condizioni di partenza non uguali. Per i giovani cittadini in crescita questa possibilità di emancipazione dalla condizione di partenza grazie alla scuola pubblica è internazionalmente considerato anche un indicatore di democraticità della società perché è acclarato che maggiore sapere facilita cittadinanza e possibilità partecipative che, a loro volta, nella società della conoscenza, favoriscono competenza deliberativa a livello locale e nazionale. Democrazia e mobilità sociale verticale sono tra loro legate e hanno origine in un buon sistema scolastico pubblico. E il primo passo in questa direzione sta nella possibilità che un figlio o figlia di poveri, grazie alla scuola, non riproduca la condizione di partenza ma, invece, esca dallo stato di povertà.
Chi è un povero oggi in Italia? Si considera povera una famiglia di due persone che vive con meno di 936,58 euro al mese. Si ottiene questa cifra moltiplicando la spesa media pro-capite nel Paese per un coefficiente che calcola le ottimizzazioni ed è al contempo legato al numero dei membri della famiglia. Così un single è povero se guadagna meno di 561,95 euro al mese mentre una famiglia di quattro persone lo è sotto i 1.526,63 euro al mese.
Ebbene. La povertà relativa riguarda l’11,1% della famiglie italiane, ben 7.577.000 persone che sono il 13,1% dell’intera nostra popolazione. La percentuale aumenta per le famiglie con 1 lavoratore dipendente, per quelle con più persone in cerca di occupazione, per le donne sole e per famiglie più numerose, tanto che la percentuale di poveri ragazzi e bambini è maggiore della media. Ma attenzione: quasi tutti questi fattori trovano i picchi al Sud e si tratta, negli ultimi 2 anni, del 24% - 25% della famiglie meridionali – 1 su 4 ! – che sono povere nel Mezzogiorno. Ciò a fronte del 6,0% - 7,3% delle famiglie del Centro dell’Italia e del 4,5% – 4,7% delle famiglie del Nord. Inoltre la percentuale è sostanzialmente ferma per il Centro, è in lieve diminuzione per il Nord ma aumenta, invece, di circa 3 punti percentuali al Sud e l’intensità di povertà – il quanto si è sotto quella soglia – è ben più elevata a Sud.
La situazione in assoluto più grave è quella della Campania dove il 27% delle famiglie è povera e in costante aumento. E, entro la Campania, i picchi della crisi sono le zone metropolitane della Provincia di Napoli e, in modo esponenziale, le periferie e i quartieri interni della città di Napoli in particolare. Se si incrociano questi dati con quelli relativi a disattesa scolastica e fallimento formativo vi è piena corrispondenza: nelle aree territoriali di massima povertà aumenta il fallimento scolastico.
Inoltre la mobilità sociale verticale in Italia è sostanzialmente ferma, in generale, da circa 15 anni ed è chiaramente peggiorata dal periodo 1960- 1980. Allora i figli di operai e braccianti avevano più possibilità di emanciparsi e migliorare di quanto non lo abbiano oggi i figli di operai, impiegati e poveri a lavoro precario. E’ una situazione estrema tra i paesi sviluppati. La mancata mobilità sociale verticale è, poi, letteralmente precipitata nel Sud, in Campania e nell’area di Napoli in modo ancor più grave che altrove. E ciò spiega largamente la ripresa dell’emigrazione interna dalle nostre zone verso il Centro- Nord. La scuola italiana è dunque tra quelle meno capaci di favorire emancipazione, è una scuola più “di classe” delle altre dei cosiddetti paesi sviluppati ed è più “di classe” oggi che ai tempi di Don Milani. Non promette molto ai soggetti più deboli in termini di conoscenze e possibilità di lavoro futuro, non favorisce i processi democratici nella società della conoscenza per chi ne è fuori alla nascita, immette pochi ragazzi più esclusi nei processi di orientamento e nel mercato del lavoro locale, intercetta poco la fascia in assoluto più debole della popolazione adolescenziale che è quella che non termina o termina a stento gli 8 anni di obbligo, consente pochissima formazione continua nelle diverse età della vita in generale e per chi non l’ha fatta prima. Tutti questi indicatori sono ancor più marcati in Campania e a Napoli.
Non tutto dipende dalla scuola e un miglioramento della scuola senza strategie di sviluppo equilibrato sarebbe una politica monca. Tuttavia la scuola deve cambiare. E solo se cambia conserva la sua ragione d’essere. Altrimenti serve per dare buona scuola pubblica quasi gratis a chi ne ha meno bisogno – come acutamente osservava Domenico Starnone qualche anno fa. Questa constatazione significa porsi il problema di cosa cambiare nel modo di fare scuola a favore dell’apprendimento, coinvolgimento e sostegno maggiore ai ragazzi. Qual è la direzione per ritrovare la missione primaria della scuola? Non è facile indicare gli indirizzi. Ma alcune cose sono evidenti. Se i cambiamenti implicano più soldi ai docenti ma anche una trasformazione radicale nel modo di essere docenti in termini di reale maggiore libertà e di maggiore diretta responsabilità sull’organizzazione scolastica e sui processi di apprendimento si va nella direzione giusta. Se si superano le logiche di brutale standardizzazione dei processi di apprendimento a scuola (stesse lezioni, stessi compiti, stessi assetti didattici a tutti) a favore di un sistema misto che salvaguardi cose comuni ma sappia anche differenziare per dare di più o diverso a chi ne ha bisogno si va nella direzione giusta. Se si applica il principio “uguale salario a uguale lavoro” (tanto per usare la formula classica che fu addirittura di Marx ed Engels) e si abbandona la pretesa di dare “uguale salario a tutti” si va nella direzione giusta. Se i soldi vanno a premiare chi sta con i ragazzi e promuove innovazione, al contempo, ma come gruppo di docenti e non come singolo si va nella direzione giusta. Se si smontano le burocrazie e il delirio aziendalista, per di più anacronistico anche nelle aziende, a favore di vera autonomia scolastica per la quale le scuole rispondono al territorio del loro lavoro e concordano le modalità entro le quali possa avvenire una valutazione partecipata e premiano il protagonismo dei gruppi docenti organizzati come comunità di pratiche d’accordo con i dirigenti si va nella direzione giusta. Se si accoglie l’emergenza campana e napoletana e di altre aree di grave crisi nel Mezzogiorno e si dà sostegno straordinario alle buone cose ordinarie che si fanno ogni giorno a scuola e alle azioni che combattono la dispersione scolastica di massa si va nella direzione giusta. Se si premiano le innovazioni che funzionano si va nella direzione giusta. E’ questo di cui si deve discutere. Si tratta di una battaglia difficile e lunga che è “di democrazia”.
Non mi pare che oggi dalle nostre parti si intenda la politica come discussione di merito su queste cose.
16 ottobre, 2006
Ci si può credere o no
Stavolta un po' di risposte a chi viene e commenta.
Giovanna: con "yé-yé" non volevo intendere “paperetta” bensì “di grido”. E comunque se è percepito come offensivo me ne scuso. Ma il punto è – ci crediate o no – che io sono preoccupato quando vi è il rischio che un qualsiasi lavoro collettivo viene rappresentato al singolare e quando la dimensione eroica può nascondere la complessità del lavoro reale a favore dell’ inclusione sociale delle giovani persone in crescita. Chi mi conosce nel lavoro sa, Giovanna, che, come tutti, commetto una montagna di errori e ho molti difetti… ma non quelli che sospetti tu. E forse hai ragione che sono presuntuoso ma non per quello che dici tu ma perché si dovrebbe prima vedere il prodotto e poi criticarlo e io, invece, ho esternato preventivamente la mia perplessità e forse non va proprio bene. Comunque grazie per le osservazioni.
Trovo ottima l’idea di Federico sull’associazione soprattutto perché penso che le persone che si mettono in gioco su un progetto di impegno civico oggi a Napoli fanno una cosa santa e che le strade per farlo sono le più diverse e possono apprendere le une dalle altre. Forse Roberto Saviano si può rintracciare ma non così, per evidenti ragioni di sicurezza. E, a tal proposito, voglio ricordare l’appello per non lasciare Roberto solo, che sta girando e che sta anche sul sito www.decidiamoinsieme.it e a cui penso si debba dare grande seguito.
Giovanna Grimaldi pone la questione di una più seria informazione da raccogliere sugli sprechi. Credo che Decidiamo Insieme ci stia già lavorando; so che oggi Norberto Gallo mi ha mandato alcuni dati, che Daniela Lepore è andata a vedere i siti delle municipalità di altre città italiane. Propongo una commissione a termine o gruppo volontario che costruisca un libro bianco su questa cosa, capace, da un lato, di denunciare ma, dall’altro, anche di proporre soluzioni. Nel mio piccolo, in un articolo su la Repubblica sulle municipalità (si può leggere insieme ad altri nella rassegna stampa su Decidiamo Insieme) ho provato a muovermi in questa duplice direzione anche grazie ad alcuni preziosi suggerimenti di Monica Tavernini. Una commissione che giri, che chieda ai cittadini, che proponga come fare un decentramento partecipativo, prendendo suggerimenti anche da altre città, contenendo le spese e soprattutto rendendole funzionali.
E ho deciso di rispondere più lungamente a chi si firma quella di rif.(ex) che è la persona che mi ha attaccato in modo più forte. Alcuni amici dicono che non devo rispondere alle lettere offensive ma io non sono d’accordo. Perché penso che il clima in città vada svelenito e che si debba e possa poter parlare tra persone per quello che fanno, che pensano, che dicono. Nel merito.
Precari: sono assolutamente d’accordo con quanto l’anonima di rif. (ex) dice sullo scandalo del precariato. E ho risposto esattamente in tal senso alla intervistatrice di la Repubblica il 10 ottobre, semplicemente riportando quanto è scritto nella Legge finanziaria e quanto in più circostanze - e contro gli attacchi della destra, quella vera, e anche contro la volontà di tagli ben più massicci da parte del Ministero dell’Economia - il ministro Fioroni ha detto in queste ultime settimane: i precari devono tutti essere assunti e messi in grado di svegliarsi la mattina e andare a lavorare con tranquillità… Il ministro ha, su questo tema, una posizione molto seria. Infatti si tratta dell’assunzione di 150.000 insegnanti precari. E finalmente, aggiungo!!! Nessun governo ci aveva mai pensato seriamente. E tanto meno in periodi di “vacche magre”. Se rif. (ex) rilegge l’intervista con temperanza noterà che questo dice il mio virgolettato e che poi riporto quanto deciso dal governo… ossia che non si vogliono fare gli errori del passato e che non si creerà altro precariato perché si accederà all’insegnamento per concorso con graduatorie che scadranno dopo due anni in modo da evitare proprio la sofferenza del precariato e per non creare nuove illusioni, una volta sanata, però, la situazione entro il 2010. Aggiungo che in queste settimane si sta facendo uno screening di verifica che ha il compito di mettere in ordine i dati stessi sul numero dei precari che – altra mancanza scandalosa – non conosciamo con certezza come dovremmo. Per fare un solo esempio: si sta verificando che molte migliaia di persone ancora risultano precari perché la legge non prevede che se entri di ruolo in una graduatoria sei fuori dalle altre o almeno devi scegliere. Così, rispetto alle cifre complessive sul precariato, vi è una quota parte, da accertare, che è in realtà già di ruolo perché assunta in una classe di concorso diversa da quella per la quale si è stati considerati e dunque contati come precari. Insomma, io leggo e riporto dalle proposte di legge e dalle dichiarazioni ufficiali che si sta lavorando – l’amministrazione e anche il sindacato - per mettere ordine nei numeri, procedere alle assunzioni evitando esclusioni e per chiudere bene questa terribile storia del precariato in Italia, facendo entrare di ruolo i colleghi con cui abbiamo lavorato fianco a fianco. A riprova voglio ricordare che il giorno 18 settembre, durante una trasmissione televisiva RAI 3 – se ne può chiedere la registrazione - ho condiviso queste posizioni pubblicamente con una collega del coordinamento nazionale dei precari della scuola.
Allora… con calma. Mi dispiace che di fronte a questi problemi e alla chiarezza della mia posizione che, nel metodo, riportava quanto scritto in Finanziaria e nel merito sosteneva l’assunzione di tutti gli attuali precari, mi si debba accusare di dire l’esatto contrario di ciò che io ho detto più volte e pubblicamente. Mi dispiace perché è un metodo – ripetere il falso e alla fine qualcuno ci crederà - che purtroppo, in buona o cattiva fede, è usato in politica troppo spesso e che, però, ha avuto dei teorizzatori nel secolo scorso i cui nomi fanno tremare i polsi.
E, in aggiunta, mi dispiace che ci si debba esprimere con tanto astio e, sempre protetti dall’anonimato, che si debba offendere il mio lavoro passato o presente, cosa che personalmente non faccio con nessuno – anche quando sono in forte disaccordo - e che non mi piace subire perché credo che una persona che lavora alle volte fa bene e altre no e per ragioni sempre alquanto complesse ma che abbia il diritto di essere rispettato come persona e come lavoratore. Lo dico per l’ennesima volta e mi ci soffermo così a lungo perché trovo davvero che il clima della città stia facendo saltare anche il minimo buon senso e rispetto per il metodo democratico e per l’altro da sé in quanto altro. Si può polemizzare anche con durezza ma nel merito di quel che l’altro dice e non di quello che non ha mai detto e nel rispetto comunque del lavoro e della dignità delle persone. Sempre. Poi se rif. (ex) mi vuole venire a trovare nel mio nuovo lavoro o vuole informarsi su come ho lavorato a scuola e per quanto e fino a quando prima di Chance o a Chance o su come sono entrato nella scuola o su come nella mia famiglia – altra cosa che penso si debba tenere rispettosamente fuori dalle mischie - s’intendeva e s’intende il percorso verso il lavoro e la eticità dello stesso o se intende capire su cosa sono effettivamente esperto e perché o su cosa non sono affatto esperto, beh – ci si può credere o no - a me farebbe vero piacere poterne parlare con misura con rif. (ex), pubblicamente o prendendo un caffè. Mi può scrivere una lettera al mio indirizzo privato che trova sull’elenco telefonico.
Insomma, ben al di là di un commento a un post, si deve cambiare metodo oggi a Napoli. Altrimenti la politica – nel senso di preoccupazione propositiva per la città – muore. Parlare, riconoscersi reciprocamente anche se a fatica, litigare con rispetto e magari scoprire che su delle cose si è finanche d’accordo.
Giovanna: con "yé-yé" non volevo intendere “paperetta” bensì “di grido”. E comunque se è percepito come offensivo me ne scuso. Ma il punto è – ci crediate o no – che io sono preoccupato quando vi è il rischio che un qualsiasi lavoro collettivo viene rappresentato al singolare e quando la dimensione eroica può nascondere la complessità del lavoro reale a favore dell’ inclusione sociale delle giovani persone in crescita. Chi mi conosce nel lavoro sa, Giovanna, che, come tutti, commetto una montagna di errori e ho molti difetti… ma non quelli che sospetti tu. E forse hai ragione che sono presuntuoso ma non per quello che dici tu ma perché si dovrebbe prima vedere il prodotto e poi criticarlo e io, invece, ho esternato preventivamente la mia perplessità e forse non va proprio bene. Comunque grazie per le osservazioni.
Trovo ottima l’idea di Federico sull’associazione soprattutto perché penso che le persone che si mettono in gioco su un progetto di impegno civico oggi a Napoli fanno una cosa santa e che le strade per farlo sono le più diverse e possono apprendere le une dalle altre. Forse Roberto Saviano si può rintracciare ma non così, per evidenti ragioni di sicurezza. E, a tal proposito, voglio ricordare l’appello per non lasciare Roberto solo, che sta girando e che sta anche sul sito www.decidiamoinsieme.it e a cui penso si debba dare grande seguito.
Giovanna Grimaldi pone la questione di una più seria informazione da raccogliere sugli sprechi. Credo che Decidiamo Insieme ci stia già lavorando; so che oggi Norberto Gallo mi ha mandato alcuni dati, che Daniela Lepore è andata a vedere i siti delle municipalità di altre città italiane. Propongo una commissione a termine o gruppo volontario che costruisca un libro bianco su questa cosa, capace, da un lato, di denunciare ma, dall’altro, anche di proporre soluzioni. Nel mio piccolo, in un articolo su la Repubblica sulle municipalità (si può leggere insieme ad altri nella rassegna stampa su Decidiamo Insieme) ho provato a muovermi in questa duplice direzione anche grazie ad alcuni preziosi suggerimenti di Monica Tavernini. Una commissione che giri, che chieda ai cittadini, che proponga come fare un decentramento partecipativo, prendendo suggerimenti anche da altre città, contenendo le spese e soprattutto rendendole funzionali.
E ho deciso di rispondere più lungamente a chi si firma quella di rif.(ex) che è la persona che mi ha attaccato in modo più forte. Alcuni amici dicono che non devo rispondere alle lettere offensive ma io non sono d’accordo. Perché penso che il clima in città vada svelenito e che si debba e possa poter parlare tra persone per quello che fanno, che pensano, che dicono. Nel merito.
Precari: sono assolutamente d’accordo con quanto l’anonima di rif. (ex) dice sullo scandalo del precariato. E ho risposto esattamente in tal senso alla intervistatrice di la Repubblica il 10 ottobre, semplicemente riportando quanto è scritto nella Legge finanziaria e quanto in più circostanze - e contro gli attacchi della destra, quella vera, e anche contro la volontà di tagli ben più massicci da parte del Ministero dell’Economia - il ministro Fioroni ha detto in queste ultime settimane: i precari devono tutti essere assunti e messi in grado di svegliarsi la mattina e andare a lavorare con tranquillità… Il ministro ha, su questo tema, una posizione molto seria. Infatti si tratta dell’assunzione di 150.000 insegnanti precari. E finalmente, aggiungo!!! Nessun governo ci aveva mai pensato seriamente. E tanto meno in periodi di “vacche magre”. Se rif. (ex) rilegge l’intervista con temperanza noterà che questo dice il mio virgolettato e che poi riporto quanto deciso dal governo… ossia che non si vogliono fare gli errori del passato e che non si creerà altro precariato perché si accederà all’insegnamento per concorso con graduatorie che scadranno dopo due anni in modo da evitare proprio la sofferenza del precariato e per non creare nuove illusioni, una volta sanata, però, la situazione entro il 2010. Aggiungo che in queste settimane si sta facendo uno screening di verifica che ha il compito di mettere in ordine i dati stessi sul numero dei precari che – altra mancanza scandalosa – non conosciamo con certezza come dovremmo. Per fare un solo esempio: si sta verificando che molte migliaia di persone ancora risultano precari perché la legge non prevede che se entri di ruolo in una graduatoria sei fuori dalle altre o almeno devi scegliere. Così, rispetto alle cifre complessive sul precariato, vi è una quota parte, da accertare, che è in realtà già di ruolo perché assunta in una classe di concorso diversa da quella per la quale si è stati considerati e dunque contati come precari. Insomma, io leggo e riporto dalle proposte di legge e dalle dichiarazioni ufficiali che si sta lavorando – l’amministrazione e anche il sindacato - per mettere ordine nei numeri, procedere alle assunzioni evitando esclusioni e per chiudere bene questa terribile storia del precariato in Italia, facendo entrare di ruolo i colleghi con cui abbiamo lavorato fianco a fianco. A riprova voglio ricordare che il giorno 18 settembre, durante una trasmissione televisiva RAI 3 – se ne può chiedere la registrazione - ho condiviso queste posizioni pubblicamente con una collega del coordinamento nazionale dei precari della scuola.
Allora… con calma. Mi dispiace che di fronte a questi problemi e alla chiarezza della mia posizione che, nel metodo, riportava quanto scritto in Finanziaria e nel merito sosteneva l’assunzione di tutti gli attuali precari, mi si debba accusare di dire l’esatto contrario di ciò che io ho detto più volte e pubblicamente. Mi dispiace perché è un metodo – ripetere il falso e alla fine qualcuno ci crederà - che purtroppo, in buona o cattiva fede, è usato in politica troppo spesso e che, però, ha avuto dei teorizzatori nel secolo scorso i cui nomi fanno tremare i polsi.
E, in aggiunta, mi dispiace che ci si debba esprimere con tanto astio e, sempre protetti dall’anonimato, che si debba offendere il mio lavoro passato o presente, cosa che personalmente non faccio con nessuno – anche quando sono in forte disaccordo - e che non mi piace subire perché credo che una persona che lavora alle volte fa bene e altre no e per ragioni sempre alquanto complesse ma che abbia il diritto di essere rispettato come persona e come lavoratore. Lo dico per l’ennesima volta e mi ci soffermo così a lungo perché trovo davvero che il clima della città stia facendo saltare anche il minimo buon senso e rispetto per il metodo democratico e per l’altro da sé in quanto altro. Si può polemizzare anche con durezza ma nel merito di quel che l’altro dice e non di quello che non ha mai detto e nel rispetto comunque del lavoro e della dignità delle persone. Sempre. Poi se rif. (ex) mi vuole venire a trovare nel mio nuovo lavoro o vuole informarsi su come ho lavorato a scuola e per quanto e fino a quando prima di Chance o a Chance o su come sono entrato nella scuola o su come nella mia famiglia – altra cosa che penso si debba tenere rispettosamente fuori dalle mischie - s’intendeva e s’intende il percorso verso il lavoro e la eticità dello stesso o se intende capire su cosa sono effettivamente esperto e perché o su cosa non sono affatto esperto, beh – ci si può credere o no - a me farebbe vero piacere poterne parlare con misura con rif. (ex), pubblicamente o prendendo un caffè. Mi può scrivere una lettera al mio indirizzo privato che trova sull’elenco telefonico.
Insomma, ben al di là di un commento a un post, si deve cambiare metodo oggi a Napoli. Altrimenti la politica – nel senso di preoccupazione propositiva per la città – muore. Parlare, riconoscersi reciprocamente anche se a fatica, litigare con rispetto e magari scoprire che su delle cose si è finanche d’accordo.
11 ottobre, 2006
Mitologie televisive e realtà da costruire con fatica
Post del 11 ottobre.
Torno da Perugia dove mi sono recato per la conferenza degli enti locali di tutto il mondo per la pace e dove ho portato l’impegno del Ministero della Pubblica Istruzione a sostenere un protocollo d’intesa, su questo tema, tra enti locali e scuole.
Sono incazzato perché si farà una fiction evidentemente a sfondo mitologico e del tutto fuorviante sui maestri di strada come eroi in sigolar tenzone. E, invece, è un lavoro collegiale e non singolare, per nulla eroico e che ha sempre combattuto contro lo stereotipo dei super-eroi che salvano i poveri ragazzini disperati. Non è così. Ma non ho armi perché la fiction si baserà su scrittura altrui. Infatti la produzione ha preso un libro di Paola Tavella – giornalista yé-yé, passata da Il Manifesto a Il Foglio - che aveva pubblicato con Mondatori alcune cronache del lavoro di Chance a S. Giovanni e Barra durante l’anno di grazia 1998. “liberamente tratto”. E invece i giornalisti continuano a chiedere opinioni a Cesare Moreno e a me. Ripeto le mie convinzioni su cosa sia il lavoro sociale ed educativo come opera incerta, aperta e collettiva, fatta da docenti, ragazzi stessi, educatori, formatori e anche istituzioni. Ho la voce stanca. Me ne rendo conto. Ripeto che ne ho già parlato per il Corriere del Mezzogiorno e che temo una trama diseducativa perché piena di stereotipi.
Arrivo nell’accumulazione enorme e rogo dei rifiuti a cielo aperto che è il segno odierno della nostra città.
Mi chiama Gabriel C. S., candidato di Decidiamo Insieme di 19 anni e mi racconta come 5 giovani più grandi di lui lo hanno fermato all’imbocco di Vico Neve sul Corso Amedeo di Aosta mentre rientrava a casa sabato sera, gli hanno chiesto il cellulare e, dato che non era di loro gradimento, lo hanno picchiato 5 contro 1 per dieci minuti. Si è rannicchiato proteggendosi il viso e il capo e poi è scattato su ed è corso via… e gli è andata bene…. Non vuole uscire di casa però e non è riuscito a dare l’esame che aveva preparato con cura. Degli amici ben informati mi hanno riferito che durante la notte bianca sono avvenuti una dozzina di episodi analoghi. “Non hai quello che vogliamo. E allora ti scommiamo di sangue”. Si puniscono ormai da mesi i giovani perché non hanno.
Abbiamo bisogno di iniziativa. E la stiamo costruendo, sia pure faticosamente. Sto sostenendo sulla stampa le giuste motivazioni di Norberto di auto-sospendersi dalle commissioni del consiglio di municipalità di Vomero-Arenella. Saremo presenza attenta e critica alla presentazione del piano strategico.
Incontro tante e tanti per strada che spingono a impegnarsi di più. Ai nostri iscritti che mi chiedono, spiego le difficoltà, in termini di tempo minimo necessario, di fare le cose con costanza pur non essendo ceto politico. E’ una ricchezza l’essere persone normali e che pure intendono impegnarsi ma il tempo per fare le cose è davvero molto meno. Ripeto che stiamo “attrezzandoci” per il nostro incontro autunnale. Scriviamo però perché si discute sulla base di riflessioni scritte.
Il tempo è splendido. Che peccato, una città così bella… Non molliamo e diamoci l’agio per poter tenere sui tempi lunghi. Un passo da maratona è cosa da pochi, ma forse si può imparare.
Torno da Perugia dove mi sono recato per la conferenza degli enti locali di tutto il mondo per la pace e dove ho portato l’impegno del Ministero della Pubblica Istruzione a sostenere un protocollo d’intesa, su questo tema, tra enti locali e scuole.
Sono incazzato perché si farà una fiction evidentemente a sfondo mitologico e del tutto fuorviante sui maestri di strada come eroi in sigolar tenzone. E, invece, è un lavoro collegiale e non singolare, per nulla eroico e che ha sempre combattuto contro lo stereotipo dei super-eroi che salvano i poveri ragazzini disperati. Non è così. Ma non ho armi perché la fiction si baserà su scrittura altrui. Infatti la produzione ha preso un libro di Paola Tavella – giornalista yé-yé, passata da Il Manifesto a Il Foglio - che aveva pubblicato con Mondatori alcune cronache del lavoro di Chance a S. Giovanni e Barra durante l’anno di grazia 1998. “liberamente tratto”. E invece i giornalisti continuano a chiedere opinioni a Cesare Moreno e a me. Ripeto le mie convinzioni su cosa sia il lavoro sociale ed educativo come opera incerta, aperta e collettiva, fatta da docenti, ragazzi stessi, educatori, formatori e anche istituzioni. Ho la voce stanca. Me ne rendo conto. Ripeto che ne ho già parlato per il Corriere del Mezzogiorno e che temo una trama diseducativa perché piena di stereotipi.
Arrivo nell’accumulazione enorme e rogo dei rifiuti a cielo aperto che è il segno odierno della nostra città.
Mi chiama Gabriel C. S., candidato di Decidiamo Insieme di 19 anni e mi racconta come 5 giovani più grandi di lui lo hanno fermato all’imbocco di Vico Neve sul Corso Amedeo di Aosta mentre rientrava a casa sabato sera, gli hanno chiesto il cellulare e, dato che non era di loro gradimento, lo hanno picchiato 5 contro 1 per dieci minuti. Si è rannicchiato proteggendosi il viso e il capo e poi è scattato su ed è corso via… e gli è andata bene…. Non vuole uscire di casa però e non è riuscito a dare l’esame che aveva preparato con cura. Degli amici ben informati mi hanno riferito che durante la notte bianca sono avvenuti una dozzina di episodi analoghi. “Non hai quello che vogliamo. E allora ti scommiamo di sangue”. Si puniscono ormai da mesi i giovani perché non hanno.
Abbiamo bisogno di iniziativa. E la stiamo costruendo, sia pure faticosamente. Sto sostenendo sulla stampa le giuste motivazioni di Norberto di auto-sospendersi dalle commissioni del consiglio di municipalità di Vomero-Arenella. Saremo presenza attenta e critica alla presentazione del piano strategico.
Incontro tante e tanti per strada che spingono a impegnarsi di più. Ai nostri iscritti che mi chiedono, spiego le difficoltà, in termini di tempo minimo necessario, di fare le cose con costanza pur non essendo ceto politico. E’ una ricchezza l’essere persone normali e che pure intendono impegnarsi ma il tempo per fare le cose è davvero molto meno. Ripeto che stiamo “attrezzandoci” per il nostro incontro autunnale. Scriviamo però perché si discute sulla base di riflessioni scritte.
Il tempo è splendido. Che peccato, una città così bella… Non molliamo e diamoci l’agio per poter tenere sui tempi lunghi. Un passo da maratona è cosa da pochi, ma forse si può imparare.
02 ottobre, 2006
Il mondo è complicato, per fortuna
La notte bianca è passata. Sono sceso per strada e ho capito che alcune intuizioni che avevo avuto non erano poi così balorde. La notte non è stata affollata come l’anno scorso ma affollata sì. E’ stata meglio organizzata e per fortuna non è successo niente di spiacevole. Non è stata una apoteosi di cittadinanza ma l’evento è stato preso, anche nei quartieri difficili, come una piccola “occasione di moratoria”, una pausa piacevole entro il quadro delle difficoltà quotidiane e delle insopportabilità. L’avevo scritto qualche giorno fa: la gente ha anche voglia di sfogo, divertimento, spazio salvo dall’angoscia. Non si può schiattosamente condannare questa aspirazione. Capita durante le guerre. Perché non può capitare a Napoli? E’ legittimo e va rispettato. La protesta c’è stata ma non è stata massiccia e eclatante. Ciò, però, non significa che tutti siano omologati a un’idea di festa fatta per rimuovere dalla mente i guai. Anzi. Parlando per strada proprio durante la notte bianca ho sentito dire che le cose non vanno affatto bene e che c’è tanto da dire e fare. Ma intanto c’era festa, musica, possibilità di incontro. Il mondo è complicato: cose diverse convivono. La gente è contenta per strada in un momento di spazio pubblico e ciò è comunque un bene e non è che, con questo, si accontenti della straordinarietà di una nottata. Un ordinario di città vivibile è possibile e dobbiamo capire come, con eventi speciali e, però, soprattutto con eventi normali. La denuncia e l’indignazione vanno riprese insieme a nuove proposte. Il mondo è complicato.
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