L'articolo a mia firma pubblicato su Repubblica Napoli il 28 giugno. Una riflessione sulla violenza negli stadi nel giorno dei funerali di Ciro Esposito.
La folla di Scampia che ha accompagnato Ciro Esposito, riunendo tutta Napoli e anche tanti pezzi d’Italia, è un evento civile di rilevanza nazionale.
Sì, nazionale.
Perché quando una folla di migliaia di persone e di tantissimi ragazzi e ragazze di una città ferita piange, in modo così composto, senza proteste né rivendicazioni, un proprio figlio innocente – un ragazzo noto per avere sempre vissuto lontano dalle violenze, un semplice amante del calcio, vittima di follia criminale - vuol dire che un’intera città sta provando a rimettere nell’ordine giusto le cose, a cominciare dalle più sacre e più vere, dalla vita e dalla morte. E sta mostrando che quest’opera di riparazione è possibile ovunque ed è urgente in tutto il Paese.
Per questa straordinaria pagina di civiltà dobbiamo tutti ringraziare una mamma e una famiglia esemplari che si sono sapute fare guida di una città e esempio per l’Italia. Lo hanno fatto usando ogni volta le parole giuste con equilibrio miracoloso. Lo hanno fatto facendo appello alla parte migliore di ciascuno di noi, per riunire proprio la comunità nazionale, ben oltre le appartenenze calcistiche e i campanili, ben oltre i palazzi di Scampia e la città di Napoli, ben oltre lo stesso amore per il pallone. E quando le persone più colpite, dopo una terribile agonia e una morte così tragica, nel mezzo di un dolore che si fa fatica anche solo a nominare, sanno ricorrere alla propria più profonda spiritualità e a uno spirito repubblicano in senso vero e, da cittadini della Repubblica con una qualità etica fuori dal comune, fanno appello alla pace e ci riescono, vuol dire che la riparazione civile, in questo nostro caro Paese, è possibile.
Questa riparazione – alla quale ieri siamo stati chiamati - riguarda molte cose. E – sia chiaro - comporta metterci tutti in discussione, affrontare la fatica positiva di interrogarsi su quel che conta e quel che non conta, su ciò che è bene e ciò che è male. Vuol dire lavoro con se stessi e con gli altri, ascolto reciproco, costanza nel mettere da parte le distruttività che ognuno di noi ha e inventare, raccogliere, costruire speranze.
Questa riparazione non è fatta di parole ma di atti che vanno, appunto, pazientemente messi insieme, uno dopo l’altro.
Il primo di questi atti riguarda la giustizia per Ciro. Se la famiglia di Ciro e una città intera hanno rifiutato ogni parola di vendetta, a maggior ragione la giustizia deve sapersi esprimere nel modo più credibile possibile. La Procura di Roma deve fare bene e presto il suo lavoro, senza ombre e impunità, di alcun tipo.
In secondo luogo va ricostruita – perché non accada mai più – la catena evidente di errori nella gestione di una giornata che non doveva proprio finire così. Da tale ricostruzione vanno, poi, tratte delle conclusioni circa le responsabilità.
Ma è tempo di più profondi mutamenti. Ognuno di noi conosce decine di ragazzi che amano il calcio, che non sono violenti, che si accalorano per la propria squadra ma che non si nutrono di odio contro gli altri per cercare una propria identità. Sono ragazzi dei quartieri protetti e di quelli esclusi, che durante la settimana studiano, lavorano, provano, con vere difficoltà, a trovare le vie per farcela in un momento nel quale non è semplice crescere e costruirsi un futuro; e amano, coltivano amicizie e curiosità infinite per il mondo. Questi ragazzi vanno allo stadio perché vivono la passione ludica per il calcio, che è, in tutto il pianeta, la cosa che unisce più persone, la più grande metafora, comune a tutti, delle meravigliose complessità della vita. E per questi milioni di ragazzi, così come per gli adulti, vi è il sacrosanto diritto di raggiungere lo stadio, sedersi, divertirsi e tornare sani e salvi a casa.
Va finalmente ripristinato un sistema di limiti e di patti che permetta questo.
Le autorità che non sanno garantire neanche le condizioni elementari perché ciò avvenga vanno sostituite. I sistemi di sanzione per le squadre i cui tifosi vanno oltre ogni presidio del limite civile –con l’istigazione alla violenza e il razzismo o con gli atti violenti – deve prevedere una penalizzazione nella posizione in classifica. Alle frange fanatiche e violente di ogni tifoseria va impedito di controllare biglietti e ingressi, di recarsi allo stadio in modo militare, di condizionare il tifo sano in modo intollerabile. Le società di calcio, dopo questo funerale, devono sapere fare un gesto chiaro, scindendo ogni connivenza con quanto non è più accettabile. E anche il giornalismo sportivo deve sapere presto dismettere toni, lessico, costruzioni mentali che nutrono alibi per le violenze.
E, poi, i capi o i rappresentanti delle tifoserie devono mettersi finalmente in discussione e ripristinare dei patti di onore, fondati sul reciproco rispetto. In ogni ambito umano si formano delle leadership. Quando, però, questi leader portano verso il disastro devono trasformarsi, cambiando radicalmente rotta o essere costretti a farlo. A Roma il 3 maggio scorso – va pur detto – sono stati valicati, da parte di una minoranza fanatica, due ulteriori limiti rispetto a ogni tradizione del tifo: è stato cercato lo scontro fisico da parte di una tifoseria di una squadra che non era in campo quella sera ed è stata usata un’arma da fuoco in una rissa tra tifoserie.
Ebbene: quando, nelle dinamiche anche conflittuali tra i gruppi umani, si valicano i limiti simbolici ed insieme, concretamente fattuali che questi stessi gruppi si sono implicitamente dati lungo il tempo, secondo codici reciprocamente riconosciuti, è giunto il momento di ritornare presto a un nuovo patto generale, esplicito, costruito in un luogo simbolico e sulla concorde adesione, un patto di pace capace di avere un’autorevolezza tale da isolare per sempre chi non sa aderire a una nuova più ragionevole maniera di confrontarsi intorno a una comune passione.
E’ questo che devono fare le tifoserie oggi o essere costrette a fare.
Gli adulti che sanno camminare per i quartieri delle città, che fanno gli educatori nelle scuole, nei centri sportivi, nelle parrocchie e che ascoltano i ragazzi sanno che questo è il tempo per ripristinare un presidio dei limiti e anche un onore perduto. Il calcio affianca ogni giorno tutte le attività di milioni di ragazzi e ne plasma e accompagna le idee e le difficoltà, le speranze e le possibilità. La questione calcistica non è – dal punto di vista educativo – una questione come le altre ma in qualche modo le comprende tutte, proprio per la sua potenza metaforica e la sua universalità.
Perciò è tempo di girare davvero pagina.
E, dopo lo straordinario funerale di Scampia, la città di Napoli, che ama la sua squadra, è chiamata a riprendere una posizione nazionale della quale si è dimostrata all’altezza ieri e perciò – proprio nel nome di Ciro e della sua famiglia – a proporre a ogni tifoseria d’Italia una stagione di pacificazione e di vera riparazione civile.