Questo è l’articolo, uscito su La Repubblica Napoli il giorno di Pasqua, con il quale ho argomentato la mia preferenza per Morcone.
Cinque anni fa mi sono presentato alle primarie, che furono annullate; e dunque a sindaco. In tanti costruimmo una lista civica. Con un programma realizzabile e ancora largamente attuale. In quella prova di democrazia – il doppio turno è questo – fummo accusati di favorire Berlusconi e di altre cose non vere. Fui e fummo sconfitti. Ma – come ebbe a dire la compianta Monica Tavernini – “abbiamo commesso errori, abbiamo detto molte verità, fatto proposte serie, perseguito un metodo di confronto tra appartenenze diverse sul da fare per la città e soprattutto ci siamo divertiti”. Siamo tornati ognuno a fare il proprio mestiere. Senza risentimenti, rivendicazioni o cooptazioni. In una città dove la politica è divenuta una pratica aggressiva e noiosa, che viene usata per molte rendite e con pochi risultati, quella dimensione civica, gaia e attenta all’ascolto dell’altro resta la promessa.
Oggi molte persone che hanno vissuto quella esperienza sostengono uno o l’altro degli attuali candidati. E spesso portano alla presente prova elettorale metodi, elementi di programma, speranze nati allora. C’è da esserne contenti. E per fortuna nessuno più si permette di dire che l’avere al primo turno tanti candidati favorisce chi sa quali terribili pericoli.
Ciò detto, il tempo non è passato bene. Né per la città né per la politica.
La povertà ha i tassi più alti del paese. Siamo ultimi per qualità di vita. Quasi centomila persone sono andate via. Sono le persone meglio preparate, più libere, giovani e fattive. Siamo tornati sotto il milione di abitanti, come sessanta anni fa. Non si è fatto mai il piano strategico promesso per uscire dalla crisi industriale che ebbe inizio quaranta anni fa e un idea di città produttiva non ha trovato la sua via. Il piano regolatore è rimasto un moloch disatteso. Ma mentre i suoi proponimenti hanno languito protetti da un delirio dirigista, è successo che, in mille rivoli incontrollati, piccoli e grandi potenti hanno fatto quel che volevano mentre, specularmente, le esperienze di “rispettoso e creativo uso della città” sono state derise e mortificate. Il decentramento amministrativo non ha avuto strumenti per diventare tale. Salvo creare un esercito di mediatori clientelari in ogni quartiere e di ogni colore. La manutenzione ordinaria semplicemente non esiste e strade, sottosuolo, fogne, spazi pubblici ne sono la prova. Non si è mai voluto credere alla raccolta differenziata. La più parte delle opere pubbliche ristagna da anni. La città dei bambini si è eclissata. Le politiche per il welfare e la scuola si sono trascinate nell’inerzia, fino a fare chiudere le tante buone iniziative. La macchina comunale è almeno venti anni indietro rispetto a una normale città europea. Le società partecipate sono state largamente improduttive mentre hanno foraggiato intere schiere di parassiti. Il budget è a un passo dal dissesto.
E la politica? Mancano venti giorni alle elezioni e ancora si spera – lo dico senza ironia - che il sindaco uscente consegni alla città l’elenco delle cose fatte e non fatte, il pubblico bilancio del proprio operato di dieci anni. Vedremo. Ma, intanto, a nessuno sfugge che viviamo in una città peggiorata come poche volte in tempo di pace. E poiché questo non era un risultato inevitabile, è largamente dovuto alla politica locale. In primis al centro-sinistra che ha governato male. E anche alla destra, che non ha proposto vera alternativa. In aggiunta, la gestione della crisi ha visto costanti trasferimenti di capitali da sud a nord colpendo la nostra economia mentre i forti tagli nei trasferimenti pubblici alle città penalizzano chi sta peggio, evidenziando la volontà di punire il Sud da parte di un governo molto amico della lega e poco di Napoli.
Così andiamo al voto. E sappiamo tutti che ci andiamo menomati nella nostra stessa libertà di scelta a causa di un sistema di consenso anomalo perché condizionato da “pacchi di voti” controllati su base di scambio o peggio. Il che, in una città povera, è parte integrante dell’esclusione sociale e civile, qualcosa di molto pervasivo, che attraversa ogni forza politica.
E’ in questa situazione che ho deciso di sostenere la candidatura a sindaco di Mario Morcone.
Infatti non posso votare Lettieri. Perché la sua candidatura è stata decisa su diretta indicazione di Silvio Berlusconi. Perché il centro-destra è condizionato in tutto dalle politiche del governo più anti-meridionalista della storia e perché - una volta conquistate provincia e regione - non ha mostrato alcun buon risultato né orizzonte di speranza. Inoltre egli è legato alla porzione più opaca del suo schieramento, con la forte influenza di Cosentino. Quando sul palco degli appelli finali saranno fianco a fianco il Berlusconi di questi mesi terribili, Cosentino e Lettieri, sarà difficile non vedere di che si tratta.
E rispetto agli altri candidati – intendo dirlo in positivo - preferisco Morcone perché egli rappresenta una chiara cesura: è un prefetto e ha un profilo tale da promettere una ormai indispensabile sospensione del fallimentare primato delle vicende di partiti e correnti di tanto centro-sinistra locale. Egli sta mostrando in queste settimane di volere stare ancorato alle cose da fare, di comprenderne la complessità, di avere più passione per la costruzione di soluzioni che per le denunce e le promesse. Ha un’evidente propensione – nel profilo umano come nel lessico - alla riparazione più che al grido. E Dio sa quanto ne abbiamo bisogno. Infatti Morcone non evoca il salvatore della patria che tanto danno ha fatto alla nostra città, così incline a farsi intrappolare tra mitizzazione del capo-salvatore e sua trasformazione in capro espiatorio. Se della lunga stagione passata dobbiamo imparare qualcosa, questa è che non abbiamo più bisogno di capi eroici a cui giurare fedeltà e di proclami altisonanti. Morcone ha scelto di mostrarsi per quello che è: un capo cantiere sofisticato, solido, pacato e costante. Con cui confrontarsi sulle cose possibili, con garbo e attenzione al come fare. Dicono questo di lui il suo profilo professionale, i suoi tanti estimatori, il suo stile. E poi i risultati del suo lavoro all’estero, sui rifugiati, sui beni sequestrati al malaffare. E lo dice il modo con il quale sono stati conseguiti: ascolto, gioco di squadra, decisione. E’ intorno a una persona così che, con fatica, si possono rimuovere le nostre macerie e far ripartire la città.
28 aprile, 2011
20 aprile, 2011
Le cose più care
Questo editoriale è uscito su L'Unità domenica 17 aprile.
Lunedì mattina la maestra Pina entrerà in classe. Ha cinquantasei anni e nei due terzi del suo tempo di vita ha insegnato a settecento bambini a leggere, scrivere, far di conto, cercare parole sul vocabolario, capire cosa è un atlante. E poi cercare informazioni in rete sul computer, in una sala ricavata in un corridoio, con macchine vecchie di tre generazioni, avendo lei voluto testardamente imparare a sua volta, aiutata dai figli. E ha insegnato la storia patria – così si chiama. Sui libri scelti insieme alle colleghe. Accordandosi sul merito delle diverse opzioni che il libero mercato dei libri offre. Come prescrive la legge. Mai scelti mai per ideologia. Ma perché si capiscono meglio. O sono più idonei a quei bimbi lì. E ha insegnato anche a giocare insieme. Con Nadim che è il più bravo della classe e con Pasquale che ha il padre in carcere e Antonietta che ha un braccio solo. E ha insegnato a cantare. A mettere a posto le cose alla fine della giornata. Ad organizzare la gita fuori città e la visita all’acquario. Mette i bimbi in fila. Vede che si salutino con garbo all’uscita. Si ferma e parla con le mamme del quartiere ogni giorno. Raccoglie le loro lamentele sulla mancanza di lavoro, sui debiti, sulla febbre alta dei fratellini piccoli, sulla nonna incontinente per la quale non ci sono abbastanza pannoloni. Lo fa con serenità, costanza, stile e competenza. Per 1500 euro al mese. Dopo trentacinque anni. Pina è catechista nella parrocchia. Non mi hai voluto dire per chi vota perché “il voto è segreto”. Dice che la scuola pubblica è il luogo salvo del quartiere. Ed è stata contenta quando la CEI a febbraio ha difeso la scuola dagli attacchi del presidente del consiglio. “Il signor B. – così lo chiama – non può parlare né di famiglia né di scuola. Non è titolato. E mi fermo qui. Perché voglio fermarmi, devo fermarmi. Io sono una persona responsabile. Ho fatto della responsabilità il mio lavoro e la mia vita. Sono fatta così. E ora non dobbiamo innervosirci. Dobbiamo solo tenere ancor meglio la scuola. Tutte le scuole. Anche con poche risorse. Lo dobbiamo al rispetto per noi stessi e per l’Italia. Dobbiamo fare come quando si portavano nel rifugio le poche cose più care durante i bombardamenti della guerra – me lo raccontava mia mamma. Dobbiamo aprirle la scuola alle mamme il pomeriggio. Superare le nostre fatiche e andare avanti più forti di prima. Sì, più forti di prima. E lo possiamo fare. E lo sai perché? Perché siamo noi che portiamo il sole in tasca quando usciamo di casa per andare a scuola. Noi!”.
Ci sono un milione di persone – persone! - che, ognuno come può e come sa, fanno come fa Pina. La mia collega da sempre. Con bimbi piccoli o ragazzi grandi. E milioni di papà e mamme e nonni gli consegnano ogni giorno i figli e i nipoti. In una scuola che può e deve migliorare, cambiare. Ma che è “il luogo salvo”. Per tutti e per ciascuno.
Questo è il momento di andare oltre l’indignazione. Il signor B. vuole trascinarci chissà dove. Invece no. Dobbiamo agire da esercito civile, pacifico e capace, quale siamo: responsabilità e tenuta! Ha ragione Pina: “Siamo noi che abbiamo il sole in tasca ogni mattina. Noi!” C’è da lavorare ancor meglio di prima. Guardarsi in faccia. Essere più gentili l’uno con l’altro tra noi che a scuola viviamo. Trovare soluzioni possibili ogni giorno a una emergenza educativa che è grande. E salvare la scuola. Come in tempo di guerra.
Lunedì mattina la maestra Pina entrerà in classe. Ha cinquantasei anni e nei due terzi del suo tempo di vita ha insegnato a settecento bambini a leggere, scrivere, far di conto, cercare parole sul vocabolario, capire cosa è un atlante. E poi cercare informazioni in rete sul computer, in una sala ricavata in un corridoio, con macchine vecchie di tre generazioni, avendo lei voluto testardamente imparare a sua volta, aiutata dai figli. E ha insegnato la storia patria – così si chiama. Sui libri scelti insieme alle colleghe. Accordandosi sul merito delle diverse opzioni che il libero mercato dei libri offre. Come prescrive la legge. Mai scelti mai per ideologia. Ma perché si capiscono meglio. O sono più idonei a quei bimbi lì. E ha insegnato anche a giocare insieme. Con Nadim che è il più bravo della classe e con Pasquale che ha il padre in carcere e Antonietta che ha un braccio solo. E ha insegnato a cantare. A mettere a posto le cose alla fine della giornata. Ad organizzare la gita fuori città e la visita all’acquario. Mette i bimbi in fila. Vede che si salutino con garbo all’uscita. Si ferma e parla con le mamme del quartiere ogni giorno. Raccoglie le loro lamentele sulla mancanza di lavoro, sui debiti, sulla febbre alta dei fratellini piccoli, sulla nonna incontinente per la quale non ci sono abbastanza pannoloni. Lo fa con serenità, costanza, stile e competenza. Per 1500 euro al mese. Dopo trentacinque anni. Pina è catechista nella parrocchia. Non mi hai voluto dire per chi vota perché “il voto è segreto”. Dice che la scuola pubblica è il luogo salvo del quartiere. Ed è stata contenta quando la CEI a febbraio ha difeso la scuola dagli attacchi del presidente del consiglio. “Il signor B. – così lo chiama – non può parlare né di famiglia né di scuola. Non è titolato. E mi fermo qui. Perché voglio fermarmi, devo fermarmi. Io sono una persona responsabile. Ho fatto della responsabilità il mio lavoro e la mia vita. Sono fatta così. E ora non dobbiamo innervosirci. Dobbiamo solo tenere ancor meglio la scuola. Tutte le scuole. Anche con poche risorse. Lo dobbiamo al rispetto per noi stessi e per l’Italia. Dobbiamo fare come quando si portavano nel rifugio le poche cose più care durante i bombardamenti della guerra – me lo raccontava mia mamma. Dobbiamo aprirle la scuola alle mamme il pomeriggio. Superare le nostre fatiche e andare avanti più forti di prima. Sì, più forti di prima. E lo possiamo fare. E lo sai perché? Perché siamo noi che portiamo il sole in tasca quando usciamo di casa per andare a scuola. Noi!”.
Ci sono un milione di persone – persone! - che, ognuno come può e come sa, fanno come fa Pina. La mia collega da sempre. Con bimbi piccoli o ragazzi grandi. E milioni di papà e mamme e nonni gli consegnano ogni giorno i figli e i nipoti. In una scuola che può e deve migliorare, cambiare. Ma che è “il luogo salvo”. Per tutti e per ciascuno.
Questo è il momento di andare oltre l’indignazione. Il signor B. vuole trascinarci chissà dove. Invece no. Dobbiamo agire da esercito civile, pacifico e capace, quale siamo: responsabilità e tenuta! Ha ragione Pina: “Siamo noi che abbiamo il sole in tasca ogni mattina. Noi!” C’è da lavorare ancor meglio di prima. Guardarsi in faccia. Essere più gentili l’uno con l’altro tra noi che a scuola viviamo. Trovare soluzioni possibili ogni giorno a una emergenza educativa che è grande. E salvare la scuola. Come in tempo di guerra.
12 aprile, 2011
Triste Rosa
In un clima segnato da stanche ripetizioni il sindaco di Napoli, Rosa Iervolino Russo, continua a "parlare in mezzo".
E uscente sì. Ma proprio non riesce a non far acide polemiche. O inutili o dannose.
Una donna della sua età e cultura e esperienza avrebbe potuto uscire di scena con un gesto faticoso ma alto. L’uscita dalle cose è importante. E lei, con la città messa com’è, avrebbe potuto provare, almeno in parte, a fare un sobrio bilancio dei suoi dieci anni. Dati. Cose fatte. Cose non fatte. Ragioni. E se non riconoscere torti, almeno dare voce a qualche santo dubbio o assumersi un pochettino pochettino qualche parte di questa storia che ci pesa addosso. La sua parte – sia chiaro – non quella di tutti. Perché non si pretende che dica “io parlo per tutti e rispondo in solido in quanto sindaco”, da buon capitano del vascello civile. Nell’italietta povera di spirito e angusta nel pensare, queste cose qui non appaiono proprio più all’orizzonte…
Ma evidentemente non ne è capace. Né politicamente – similmente a tutti coloro che sono stati a governare la città. E neanche personalmente. Il che è la cosa più triste. Andarsene così, senza parole pacate e vere. Triste, triste…
E uscente sì. Ma proprio non riesce a non far acide polemiche. O inutili o dannose.
Una donna della sua età e cultura e esperienza avrebbe potuto uscire di scena con un gesto faticoso ma alto. L’uscita dalle cose è importante. E lei, con la città messa com’è, avrebbe potuto provare, almeno in parte, a fare un sobrio bilancio dei suoi dieci anni. Dati. Cose fatte. Cose non fatte. Ragioni. E se non riconoscere torti, almeno dare voce a qualche santo dubbio o assumersi un pochettino pochettino qualche parte di questa storia che ci pesa addosso. La sua parte – sia chiaro – non quella di tutti. Perché non si pretende che dica “io parlo per tutti e rispondo in solido in quanto sindaco”, da buon capitano del vascello civile. Nell’italietta povera di spirito e angusta nel pensare, queste cose qui non appaiono proprio più all’orizzonte…
Ma evidentemente non ne è capace. Né politicamente – similmente a tutti coloro che sono stati a governare la città. E neanche personalmente. Il che è la cosa più triste. Andarsene così, senza parole pacate e vere. Triste, triste…
09 aprile, 2011
Intervista a Raffaele Del Giudice
Le vicende di ogni giorno esistono e l'immondizia continua a essere il tratto incombente del vivere quotidiano a Napoli. Ho intervistato Raffaele Del Giudice di Legambiente, una persona che da anni sta cercando di capire e di far capire i meccanismi che costringono la città in questa situazione. Lo fa con grande passione, spesso isolato e lo abbiamo visto in Biùtiful Cauntri mentre ci mostrava la Campania delle discariche.
L’intervista è uscita su la Repubblica Napoli, e la riporto qui nella sua forma integrale.
Quando vivi lontano ti perseguitano le ferite della tua città. E, poi, ogni volta che migliaia di tonnellate di immondizia indifferenziata tornano per strada devi spiegare alle persone intorno cosa è successo. E cosa si può fare. Così qualche tempo fa ho visitato gli impianti di valorizzazione dei rifiuti di Brescia. E lì la prima cosa che colpisce non è quel che esce dagli impianti ma cosa ci entra. Perché hanno, a monte e intorno, un’opera poderosa di differenziazione da parte dei cittadini. Che ha sempre inizio con la separazione del secco dall’umido e che vede azioni di smaltimento plurali: carta, alluminio, vetro, plastica ecc. Senza andare lontano: come a Vico Equense, per esempio. E soprattutto l’esatto opposto di quanto tanti dicevano durante la scorsa campagna elettorale, sindaco uscente compreso: “Il termovalorizzatore è la soluzione”. Ricordo pure una mia replica di allora: “Sindaco, prima di esserlo, c’è da differenziare e da togliere l’umido, che è acqua e l’acqua consuma energia per bruciarsi, non ne produce” E la sua risposta, simile a quella di tanti: “Ma dobbiamo fare presto…”. Invece sono passati altri cinque anni.
“Ma adesso cosa si farà?”– me lo chiede un ragazzo di Padova, che ama Napoli. Gli rispondo: si deve differenziare, subito. Annuisce. Ma lo vedo poco convinto. Così decido di chiamare il mio amico Raffaele Del Giudice, direttore di Legambiente Campania, quel signore che, nel film-documentario Biùtiful Cauntri, gira come un ossesso a controllare lo stato miserevole delle discariche. Gli chiedo di rispondere alle domande in modo breve e propositivo.
Raffaele, ma è possibile fare in poco tempo il 50 per cento di differenziata a Napoli?
Non è bene chiedersi se è possibile. Perché quel chiederselo produce il lassismo e la delega mal riposta di questi anni, con il miraggio degli inceneritori come soluzione di tutto. E’ obbligatorio differenziare! Anche perché quegli impianti - che piacciano o non piacciano - comunque non possono valorizzare acqua, né creare compost o gas dall’umido né fare carta da carta né bruciare alluminio né plastiche clorurate.
Ma scusa, se è così, se al massimo devono bruciare quel che resta e farne energia, perché ne vogliono fare cinque o sei di inceneritori in Campania?
E’ avvenuto sotto la spinta della Fibe. Sostenuta da tanta politica. E’ una follia. O peggio. Comunque dissuade dal differenziare e de –responsabilizza ognununo di noi dal compito di trattare i nostri residui in quanto problema nostro. E mentre lo fa, non c’è che da cercare ogni volta un altro buco, un fosso dove sversare tutto così com’è. Con il percolato che, poi, fa i danni che fa, nelle falde sottostanti o addirittura buttato a mare aum aum! E mentre si cerca un altro fosso, le strade tornano ciclicamente in emergenza monnezza. E questo al netto dei 200 euro a tonnellata per portarla, poi, via dalla regione ormai satura e del rischio di scontri violenti all’apertura di ogni sito.
Ma Acerra c’è. Che ne facciamo?
Acerra c’è e non c’è. Perché oggi tutti i tecnici riconoscono che ci sono stati gravi difetti di progettazione e che non funge come dovrebbe. E aggiungo che - poiché Napoli è co-promotore di quel impianto - oggi ne dobbiamo esigere il funzionamento vero, delle tre linee!
Ok, esigiamolo… Ma cosa ci deve andare dentro?
La stessa roba che hai visto a Brescia, il residuo al netto della differenziata.
Allora torniamo alla differenziata. Per il 50 per cento presto, in concreto cosa si deve fare?
Intanto diciamolo chiaro: se chi diventa sindaco non attrezza tutta la logistica e non costruisce il moto di partecipazione necessario alla differenziata al 50 percento almeno, beh, va veramente sciolto il consiglio comunale, senza ulteriori alibi. Lo dice la legge e lo si faccia.
Ma se dessero a te questo compito del 50 per cento… Con chi lo fai e come?
Lo faccio con l’ASIA.
Con l’ASIA?
Si lavora con quel che c’è. Ma in modo un po’ diverso. Più che concentrarsi sull’impiantistica, lo sguardo va rivolto al chi, quando e come del differenziare. Comunque, ora lasciamo stare le pecche del passato. La situazione è così cronicamente grave che bisogna insistere su proposte concrete passaggio dopo passaggio.
Quali sono?
1 – fare un sopralluogo quartiere per quartiere, strada per strada, di ciò che esiste e funziona e di cosa manca, con i cittadini; dare un volantino sul piano; fare assemblee di strada e mettere subito contenitori differenziati tarati secondo l’urbanistica.
2 – intanto continuare a togliere l’ingombrante. Si è iniziato questo lavoro ma si può fare molto meglio. Gli elettrodomestici, pena multe salatissime, devono essere ritirati dai negozi che li vendono. Mobili, gomme, materassi, ecc. devono vedere una raccolta di 2 giorni sicuri e fissi ogni mese, zona per zona, con unità mobili. Quando ciò avviene le persone collaborano.
3 – i cartoni e anche la carta vanno raccolti separati e già lo si fa; bisogno farlo meglio, con mezzi dedicati , a partire dai grandi magazzini, dai negozi, dagli enti pubblici. I negozi devono avere uno sgravio in cambio di una funzione mobilitante, con i cittadini.
4 - e a proposito dei grandi centri commerciali dove si recano centinaia di migliaia di persone, va ingiunto subito loro di predisporre isole ecologiche e va fatta una campagna battente perché la roba, differenziata, la si porti lì nel week-end. Ci vuole un accordo subito. Perché le cose che non puzzano si possono tenere una settimana.
5 – così si differenzia l’umido da carta, alluminio, plastica e vetro. Come peraltro già accade da anni in tanti comuni virtuosi campani. Se Napoli non lo fa va commissariata. Punto.
Raffaele, perdonami: nove anni fa ci fu un inizio di differenziata. Nel mio quartiere, i Quartieri Spagnoli, i ragazzi delle scuole, anche del progetto Chance differenziavano. Un numero importante di famiglie aderirono. Poi – per dirla alla loro maniera – videro che “nun è nient o vero”. Ci fu una disillusione e una regressione terribili. Fu una vergogna politica, civile, educativa.
Lo so. Ma oggi si possono mostrare i luoghi – campani! – dove già si riconverte in modo eccellente vetro, alluminio, carta, l’olio esausto delle friggitrici, copertoni, plastica e anche i RAE, i rifiuti elettrici ed elettronici. Li mostriamo. Ci portiamo le scuole, le famiglie. Ci vuole una stagione di azione civile. E poi mostriamo le isole ecologiche che raccolgono le diverse cose. Nelle grandi superficie commerciali, appunto e in punti di raccolta, uno per ogni municipalità. Va smontata la filosofia che sta a monte di quel CDR indifferenziato basato sul mito parossistico degli inceneritori di tutto, che copriva e copre gli affari peggiori. CDR che oggi chiamano STIR – stabilimento triturazione rifiuti, che se non si differenzia è solo un cambiamento di nome. Invece vanno trasformati in centri di compostaggio. Quel che Bertolaso non ha voluto fare. Con spesa contenuta è possibile in sei mesi. Ce ne sono 7, che possono in breve trattare un totale di oltre 100 mila tonnellate.
Poi torneremo sul compostaggio. Ma ora, come si prende raccoglie la differenziata?
Come ovunque, con piccoli mezzi nei quartieri diversi, a giorni fissi a settimana. E, in più, anche alle isole ecologiche nei centri commerciali. Con buste differenziate. Con multe vere. E con la mobilitazione immediata, subito, di personale ASIA, volontari, consiglieri di tutti i partiti del nuovo consiglio comunale e di quelli di municipalità. Ci vuole un movimento per la dignità di Napoli. Un immediato scatto di orgoglio. Proprio in occasione della nuova amministrazione. E chi promuove si fa controllore.
I ragazzi almeno delle superiori potrebbero farne parte promuovente di questo movimento?
Può esserci almeno su questo un patto bipartisan prima del voto che questo giornale chiede a tutti?
Magari!!
Allora torniamo al compost.
Si fa con l’umido e anche l’ammendante, i residui legnosi e il fogliame presi dal verde urbano di Napoli.
Ho capito che vuoi invertire il trend voluto da Bertolaso che non favorì i centri per il compostaggio e riciclare in tal senso gli impianti esistenti di vario tipo. Ma come raccogli l’umido?
Con piccoli mezzi tre volte a settimana, magari anche la domenica, giorno in cui l’umido è maggiore. Inoltre le grandi utenze possono avere micro-impianti modulabili che fanno compost in proprio. Esistono già.
La regione ha presentato il suo nuovo piano. Che ne dici?
Ha cose buone. Ma è anche molto sbilanciato, ancora una volta, sui grandi impianti e sugli annunci di soluzioni generali. Poca attenzione agli impianti di compostaggio che già esistono, sul come metterli in moto, sui dettagli essenziali della raccolta, sulle buone pratiche diffuse. E soprattutto sul movimento civile necessario. Che in ogni posto del mondo serve a differenziare a fare funzionare un ciclo virtuoso dei rifiuti.
Chi guida questo movimento, nel concreto della vita cittadina?
Municipalià, ASIA, associazioni, parrocchie. Coinvolgendo, come tu dici, i giovani, le scuole. I giornali regalano un CD. Le tv locali fanno battage.
Ma ci vuole un accordo solenne e solidale tra tutti e davanti all’Italia che non ce la fa più a vederci così?
Sì.
L’intervista è uscita su la Repubblica Napoli, e la riporto qui nella sua forma integrale.
Quando vivi lontano ti perseguitano le ferite della tua città. E, poi, ogni volta che migliaia di tonnellate di immondizia indifferenziata tornano per strada devi spiegare alle persone intorno cosa è successo. E cosa si può fare. Così qualche tempo fa ho visitato gli impianti di valorizzazione dei rifiuti di Brescia. E lì la prima cosa che colpisce non è quel che esce dagli impianti ma cosa ci entra. Perché hanno, a monte e intorno, un’opera poderosa di differenziazione da parte dei cittadini. Che ha sempre inizio con la separazione del secco dall’umido e che vede azioni di smaltimento plurali: carta, alluminio, vetro, plastica ecc. Senza andare lontano: come a Vico Equense, per esempio. E soprattutto l’esatto opposto di quanto tanti dicevano durante la scorsa campagna elettorale, sindaco uscente compreso: “Il termovalorizzatore è la soluzione”. Ricordo pure una mia replica di allora: “Sindaco, prima di esserlo, c’è da differenziare e da togliere l’umido, che è acqua e l’acqua consuma energia per bruciarsi, non ne produce” E la sua risposta, simile a quella di tanti: “Ma dobbiamo fare presto…”. Invece sono passati altri cinque anni.
“Ma adesso cosa si farà?”– me lo chiede un ragazzo di Padova, che ama Napoli. Gli rispondo: si deve differenziare, subito. Annuisce. Ma lo vedo poco convinto. Così decido di chiamare il mio amico Raffaele Del Giudice, direttore di Legambiente Campania, quel signore che, nel film-documentario Biùtiful Cauntri, gira come un ossesso a controllare lo stato miserevole delle discariche. Gli chiedo di rispondere alle domande in modo breve e propositivo.
Raffaele, ma è possibile fare in poco tempo il 50 per cento di differenziata a Napoli?
Non è bene chiedersi se è possibile. Perché quel chiederselo produce il lassismo e la delega mal riposta di questi anni, con il miraggio degli inceneritori come soluzione di tutto. E’ obbligatorio differenziare! Anche perché quegli impianti - che piacciano o non piacciano - comunque non possono valorizzare acqua, né creare compost o gas dall’umido né fare carta da carta né bruciare alluminio né plastiche clorurate.
Ma scusa, se è così, se al massimo devono bruciare quel che resta e farne energia, perché ne vogliono fare cinque o sei di inceneritori in Campania?
E’ avvenuto sotto la spinta della Fibe. Sostenuta da tanta politica. E’ una follia. O peggio. Comunque dissuade dal differenziare e de –responsabilizza ognununo di noi dal compito di trattare i nostri residui in quanto problema nostro. E mentre lo fa, non c’è che da cercare ogni volta un altro buco, un fosso dove sversare tutto così com’è. Con il percolato che, poi, fa i danni che fa, nelle falde sottostanti o addirittura buttato a mare aum aum! E mentre si cerca un altro fosso, le strade tornano ciclicamente in emergenza monnezza. E questo al netto dei 200 euro a tonnellata per portarla, poi, via dalla regione ormai satura e del rischio di scontri violenti all’apertura di ogni sito.
Ma Acerra c’è. Che ne facciamo?
Acerra c’è e non c’è. Perché oggi tutti i tecnici riconoscono che ci sono stati gravi difetti di progettazione e che non funge come dovrebbe. E aggiungo che - poiché Napoli è co-promotore di quel impianto - oggi ne dobbiamo esigere il funzionamento vero, delle tre linee!
Ok, esigiamolo… Ma cosa ci deve andare dentro?
La stessa roba che hai visto a Brescia, il residuo al netto della differenziata.
Allora torniamo alla differenziata. Per il 50 per cento presto, in concreto cosa si deve fare?
Intanto diciamolo chiaro: se chi diventa sindaco non attrezza tutta la logistica e non costruisce il moto di partecipazione necessario alla differenziata al 50 percento almeno, beh, va veramente sciolto il consiglio comunale, senza ulteriori alibi. Lo dice la legge e lo si faccia.
Ma se dessero a te questo compito del 50 per cento… Con chi lo fai e come?
Lo faccio con l’ASIA.
Con l’ASIA?
Si lavora con quel che c’è. Ma in modo un po’ diverso. Più che concentrarsi sull’impiantistica, lo sguardo va rivolto al chi, quando e come del differenziare. Comunque, ora lasciamo stare le pecche del passato. La situazione è così cronicamente grave che bisogna insistere su proposte concrete passaggio dopo passaggio.
Quali sono?
1 – fare un sopralluogo quartiere per quartiere, strada per strada, di ciò che esiste e funziona e di cosa manca, con i cittadini; dare un volantino sul piano; fare assemblee di strada e mettere subito contenitori differenziati tarati secondo l’urbanistica.
2 – intanto continuare a togliere l’ingombrante. Si è iniziato questo lavoro ma si può fare molto meglio. Gli elettrodomestici, pena multe salatissime, devono essere ritirati dai negozi che li vendono. Mobili, gomme, materassi, ecc. devono vedere una raccolta di 2 giorni sicuri e fissi ogni mese, zona per zona, con unità mobili. Quando ciò avviene le persone collaborano.
3 – i cartoni e anche la carta vanno raccolti separati e già lo si fa; bisogno farlo meglio, con mezzi dedicati , a partire dai grandi magazzini, dai negozi, dagli enti pubblici. I negozi devono avere uno sgravio in cambio di una funzione mobilitante, con i cittadini.
4 - e a proposito dei grandi centri commerciali dove si recano centinaia di migliaia di persone, va ingiunto subito loro di predisporre isole ecologiche e va fatta una campagna battente perché la roba, differenziata, la si porti lì nel week-end. Ci vuole un accordo subito. Perché le cose che non puzzano si possono tenere una settimana.
5 – così si differenzia l’umido da carta, alluminio, plastica e vetro. Come peraltro già accade da anni in tanti comuni virtuosi campani. Se Napoli non lo fa va commissariata. Punto.
Raffaele, perdonami: nove anni fa ci fu un inizio di differenziata. Nel mio quartiere, i Quartieri Spagnoli, i ragazzi delle scuole, anche del progetto Chance differenziavano. Un numero importante di famiglie aderirono. Poi – per dirla alla loro maniera – videro che “nun è nient o vero”. Ci fu una disillusione e una regressione terribili. Fu una vergogna politica, civile, educativa.
Lo so. Ma oggi si possono mostrare i luoghi – campani! – dove già si riconverte in modo eccellente vetro, alluminio, carta, l’olio esausto delle friggitrici, copertoni, plastica e anche i RAE, i rifiuti elettrici ed elettronici. Li mostriamo. Ci portiamo le scuole, le famiglie. Ci vuole una stagione di azione civile. E poi mostriamo le isole ecologiche che raccolgono le diverse cose. Nelle grandi superficie commerciali, appunto e in punti di raccolta, uno per ogni municipalità. Va smontata la filosofia che sta a monte di quel CDR indifferenziato basato sul mito parossistico degli inceneritori di tutto, che copriva e copre gli affari peggiori. CDR che oggi chiamano STIR – stabilimento triturazione rifiuti, che se non si differenzia è solo un cambiamento di nome. Invece vanno trasformati in centri di compostaggio. Quel che Bertolaso non ha voluto fare. Con spesa contenuta è possibile in sei mesi. Ce ne sono 7, che possono in breve trattare un totale di oltre 100 mila tonnellate.
Poi torneremo sul compostaggio. Ma ora, come si prende raccoglie la differenziata?
Come ovunque, con piccoli mezzi nei quartieri diversi, a giorni fissi a settimana. E, in più, anche alle isole ecologiche nei centri commerciali. Con buste differenziate. Con multe vere. E con la mobilitazione immediata, subito, di personale ASIA, volontari, consiglieri di tutti i partiti del nuovo consiglio comunale e di quelli di municipalità. Ci vuole un movimento per la dignità di Napoli. Un immediato scatto di orgoglio. Proprio in occasione della nuova amministrazione. E chi promuove si fa controllore.
I ragazzi almeno delle superiori potrebbero farne parte promuovente di questo movimento?
Può esserci almeno su questo un patto bipartisan prima del voto che questo giornale chiede a tutti?
Magari!!
Allora torniamo al compost.
Si fa con l’umido e anche l’ammendante, i residui legnosi e il fogliame presi dal verde urbano di Napoli.
Ho capito che vuoi invertire il trend voluto da Bertolaso che non favorì i centri per il compostaggio e riciclare in tal senso gli impianti esistenti di vario tipo. Ma come raccogli l’umido?
Con piccoli mezzi tre volte a settimana, magari anche la domenica, giorno in cui l’umido è maggiore. Inoltre le grandi utenze possono avere micro-impianti modulabili che fanno compost in proprio. Esistono già.
La regione ha presentato il suo nuovo piano. Che ne dici?
Ha cose buone. Ma è anche molto sbilanciato, ancora una volta, sui grandi impianti e sugli annunci di soluzioni generali. Poca attenzione agli impianti di compostaggio che già esistono, sul come metterli in moto, sui dettagli essenziali della raccolta, sulle buone pratiche diffuse. E soprattutto sul movimento civile necessario. Che in ogni posto del mondo serve a differenziare a fare funzionare un ciclo virtuoso dei rifiuti.
Chi guida questo movimento, nel concreto della vita cittadina?
Municipalià, ASIA, associazioni, parrocchie. Coinvolgendo, come tu dici, i giovani, le scuole. I giornali regalano un CD. Le tv locali fanno battage.
Ma ci vuole un accordo solenne e solidale tra tutti e davanti all’Italia che non ce la fa più a vederci così?
Sì.
08 aprile, 2011
La notte bianca della scuola
A Napoli c’è la campagna elettorale per sindaco che si scalda e che chiama in causa anche la nostra trascorsa vicenda di Decidiamo Insieme. Ci tornerò presto.
Ma stasera mi dedicherò, da Milano, ai temi della scuola. In una manifestazione che vuole riaffermare il valore della scuola pubblica italiana, istituzione fondamentale per il futuro del Paese e dei giovani.
Dalle ore 21 live in streaming.
Ma stasera mi dedicherò, da Milano, ai temi della scuola. In una manifestazione che vuole riaffermare il valore della scuola pubblica italiana, istituzione fondamentale per il futuro del Paese e dei giovani.
Dalle ore 21 live in streaming.
Lutto stretto e vicende d’ogni giorno
Dovremmo stare tutti con un segno di lutto addosso. Un bottoncino nero. Come si usava quando ero bambino.
Perché va manifestata la pena e l’indignazione per le persone lasciate morire nel canale di Sicilia. Quelli buttati a mare stamattina, per i 250 annegati l'altro giorno, per i 4.500 morti di questi anni nel canale di Sicilia. In gran parte rifugiati eritrei e somali come da anni documenta e racconta Gabriele Del Grande.
Ed è questa cosa qui la più importante. Che rimetterebbe le cose nell’ordine giusto. – se riprendessimo a guardare l’Italia in modo serio. Secondo scienza e coscienza.
Per seguire coscienza e curiosità Diego Bianchi è andato a Manduria, a vedere da vicino la "fuga dei clandestini", per scoprire che lo tsunami umano è fatto di persone, normali, con legittime aspirazioni e voglia di un futuro. Così come normali e ragionevoli sono i carabinieri e perfino i cittadini aspiranti giustizieri.
E su cosa significa concretamente accoglienza e su come questo sia giusto, oltre che "conveniente" segnalo gli interventi di Alessandro Leogrande (che sui braccianti stranieri in Puglia ha scritto un bel libro) e di Andrea Stuppini su La voce.
Perché va manifestata la pena e l’indignazione per le persone lasciate morire nel canale di Sicilia. Quelli buttati a mare stamattina, per i 250 annegati l'altro giorno, per i 4.500 morti di questi anni nel canale di Sicilia. In gran parte rifugiati eritrei e somali come da anni documenta e racconta Gabriele Del Grande.
Ed è questa cosa qui la più importante. Che rimetterebbe le cose nell’ordine giusto. – se riprendessimo a guardare l’Italia in modo serio. Secondo scienza e coscienza.
Per seguire coscienza e curiosità Diego Bianchi è andato a Manduria, a vedere da vicino la "fuga dei clandestini", per scoprire che lo tsunami umano è fatto di persone, normali, con legittime aspirazioni e voglia di un futuro. Così come normali e ragionevoli sono i carabinieri e perfino i cittadini aspiranti giustizieri.
E su cosa significa concretamente accoglienza e su come questo sia giusto, oltre che "conveniente" segnalo gli interventi di Alessandro Leogrande (che sui braccianti stranieri in Puglia ha scritto un bel libro) e di Andrea Stuppini su La voce.
01 aprile, 2011
Ecco fatto ben fatto
Vivo a Trento, dove la popolazione immigrata conta già per un decimo dei residenti ed è ben integrata.
Vi invito a leggere come la Provincia Autonoma, affronta la sua parte del flusso migratorio di queste settimane e di cui si ulula in giro in modo insensato.
Con poche azioni coordinate ed operative alcune parti del nostro Paese sanno fare il loro lavoro senza tanto baccano insulso.
Vi invito a leggere come la Provincia Autonoma, affronta la sua parte del flusso migratorio di queste settimane e di cui si ulula in giro in modo insensato.
Con poche azioni coordinate ed operative alcune parti del nostro Paese sanno fare il loro lavoro senza tanto baccano insulso.
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