Dopo le giornate di
Repubblica delle idee a Napoli, che hanno visto 50 mila presenze agli eventi,
ho scritto questa riflessione sul rapporto tra eventi e la mia città, su
Repubblica Napoli del 10 giugno:
In questi giorni di La
Repubblica delle idee a Napoli si sono visti di nuovo i segni di speranze e
proponimenti. E di nuovo, quasi per incanto, a Napoli si è potuto parlare in
modo serio dell’Italia e in Italia di Napoli.
Per i tanti che sono venuti – moltissimi giovani – questo ha
dato un senso di possibilità. In fondo: chi l’avrebbe mai detto che nel caldo
del primo week end da mare si riempissero teatri, corti, piazze, in silenzio
teso, intorno ai grandi temi?
Ma questa volta il sentimento di speranza, autentico, forse
si è finalmente accompagnato a un sano tono guardingo, a una sorveglianza, a
sentimenti e pensieri di difesa. La città non vuole più illudersi per
disilludersi. Ha riempito davvero questo evento. Ma forse con nuovo spirito,
più adulto.
Quando un evento tocca una città, è difficile sapere quanta
sia l’influenza più profonda che provoca, cosa viene stimolato nel tessuto
civile, quali promesse possono sedimentarsi e a quali condizioni gli stimoli -
intorno a idee, analisi, proposte - possono restare più a lungo, nutrirsi per proprio
conto, andare oltre l’evento stesso.
Vedremo se avvengono altre cose, se saranno messe in campo,
da più parti, proposte più lunghe, se si saprà dare continuità, in qualche
forma, a queste stesse giornate.
Vedremo se sarà…
Il fatto è ben conosciuto nel profondo di ognuno. Ed è che Napoli,
negli ultimi venti anni, ha vissuto molti eventi che hanno creato attese,
rimesso in moto intelligenze e speranze, provocato investimenti emotivi e
cognitivi, insieme. Qualche volta questi eventi hanno provocato azioni e
dibattito “più lunghi”; e, quando ripetuti a regolare scadenza, hanno
effettivamente avuto un seguito. Molte volte proprio no.
Il G8 napoletano fu l’esempio paradigmatico di un evento di
grande potenza che permise di far “uscire dal profondo” gli orgogli ritrovati e
la voglia di protagonismo, stimolò un’autentica riflessione pubblica sul
potenziale della nostra città, fece intravedere la possibilità di un’altra
Napoli, oltre l’arredo urbano e le pulizie di facciata. Ma tanto più fu forte
quell’impulso - che veniva dopo un lungo sonno civile - tanto più è stata
cocente, prolungata e profonda la disillusione per la promessa mancata. Ci
voleva un piano strategico e un effettivo uso dei territori da rigenerare. E la
costanza santa dedicata a ogni manutenzione ordinaria. Come avvenne a Torino o
altrove. Non ci furono. Su scala ben minore, è stato molto meglio l’evento,
ripetuto ogni anno, del Maggio dei
monumenti, che fece scuola ovunque in Italia. O lo è il Festival del teatro. O lo fu la stagione
dell’Educativa territoriale, che
purtroppo finì ma almeno durò e poté sedimentare politiche riconoscibili.
Il mondo è imperfetto e perfettibile: bisogna partire ogni
volta dalle cose che si fanno, anche esse imperfette; da quelle più resistenti,
più capaci di fornire storie lunghe, ripetizioni che consolidano.
Così, gli eventi – anche questo di Repubblica delle idee - sono i segni che annunciano possibili
stagioni migliori. Ma se poi non sbocciano in molte giornate di costruzione del
bene comune, diventano cattivi ricordi. E’ passato tempo; ora lo si può e deve
dire che è così.
Ormai per intere generazioni Napoli ha attraversato la stagione
infinita dell’illusione e della disillusione. E forse – questo si è potuto
toccare in queste giornate - abbiamo iniziato finalmente a imparare una cosa,
una cosa che avremmo dovuto sempre sapere, che forse sapevamo pure ma che in
troppi abbiamo voluto ogni volta rimuovere. E’ una cosa chiara e
incontrovertibile: per una città come per le persone quel che davvero conta non
è il grido di indignazione o l’annuncio gridato ma la costanza artigianale,
certosina, anche noiosa che consente costruzione e manutenzione di quanto
promesso.
Una classe dirigente (non solo politica) locale è tale se
prende gli eventi e li collega, facendone una costanza, aggregando stabilità
intorno alle misure di questa costanza, dando seguito vero all’annuncio.
Altrimenti è e resta notabilato che galleggia, che annaspa e che, poi,
approfitta di ogni cosa per restare lì.
Una classe dirigente è tale se sa strutturare un lavoro
riparativo e innovativo insieme, che dia possibilità e anche responsabilità a
ognuno. Un lavoro che, come tale, costa fatica. Napoli è già piena di queste “buone
fatiche”. Nelle scuole che, con mille limiti ma anche tante invenzioni positive,
sono ogni mattina lì, nelle imprese che resistono e promuovono innovazioni, nell’azione educativa e sociale in ogni
quartiere, nel gesto dei cittadini che fanno tanta strada per portare la
differenziata nel posto giusto. Ma Napoli ha, al contempo, enormi potenziali
fermi, congelati da decenni: Bagnoli, il porto, l’avvio di imprese vere per i
ragazzi, le misure per rendere costanti le politiche culturali, una spinta per
suscitare, insieme al resto d’Italia, misure per il lavoro vero e non per le solite
rendite e, poi, misure serie contro le povertà. Ha potenziali qui che sono
anche potenziali risposte a questa grande crisi italiana.
La classe dirigente di questa città, per fare ripartire
queste potenzialità e per sostenere davvero le “tante buone fatiche” che
abbiamo, deve essere costretta, quasi forzata a uscire dalle sue difese, deve
essere messa in mora se è disonesta – non c’è solo Milano o Venezia, lo
sappiamo – deve uscire dal “piangi e fotti” - che non è meridionalista - e
riprendere un posto serio nell’Italia.
Queste giornate, dense, piene di persone oggi più
consapevoli ci raccontano una città che può pensare queste cose, perché è
finalmente fuori dalle facili illusioni. Poi, però, ci vuole il tempo della
raccolta delle cose che funzionano, della costruzione dei legami sociali,
dell’analisi di come si amministra o non amministra…un impegno ulteriore,
libero da appartenenze strumentali, che chiama a nuove
responsabilità.
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