11 giugno, 2014

Napoli

Dopo le giornate di Repubblica delle idee a Napoli, che hanno visto 50 mila presenze agli eventi, ho scritto questa riflessione sul rapporto tra eventi e la mia città, su Repubblica Napoli del 10 giugno:


In questi giorni di La Repubblica delle idee a Napoli si sono visti di nuovo i segni di speranze e proponimenti. E di nuovo, quasi per incanto, a Napoli si è potuto parlare in modo serio dell’Italia e in Italia di Napoli.
Per i tanti che sono venuti – moltissimi giovani – questo ha dato un senso di possibilità. In fondo: chi l’avrebbe mai detto che nel caldo del primo week end da mare si riempissero teatri, corti, piazze, in silenzio teso, intorno ai grandi temi?
Ma questa volta il sentimento di speranza, autentico, forse si è finalmente accompagnato a un sano tono guardingo, a una sorveglianza, a sentimenti e pensieri di difesa. La città non vuole più illudersi per disilludersi. Ha riempito davvero questo evento. Ma forse con nuovo spirito, più adulto. 

Quando un evento tocca una città, è difficile sapere quanta sia l’influenza più profonda che provoca, cosa viene stimolato nel tessuto civile, quali promesse possono sedimentarsi e a quali condizioni gli stimoli - intorno a idee, analisi, proposte - possono restare più a lungo, nutrirsi per proprio conto, andare oltre l’evento stesso.
Vedremo se avvengono altre cose, se saranno messe in campo, da più parti, proposte più lunghe, se si saprà dare continuità, in qualche forma, a queste stesse giornate.
Vedremo se sarà…



Il fatto è ben conosciuto nel profondo di ognuno. Ed è che Napoli, negli ultimi venti anni, ha vissuto molti eventi che hanno creato attese, rimesso in moto intelligenze e speranze, provocato investimenti emotivi e cognitivi, insieme. Qualche volta questi eventi hanno provocato azioni e dibattito “più lunghi”; e, quando ripetuti a regolare scadenza, hanno effettivamente avuto un seguito. Molte volte proprio no.
Il G8 napoletano fu l’esempio paradigmatico di un evento di grande potenza che permise di far “uscire dal profondo” gli orgogli ritrovati e la voglia di protagonismo, stimolò un’autentica riflessione pubblica sul potenziale della nostra città, fece intravedere la possibilità di un’altra Napoli, oltre l’arredo urbano e le pulizie di facciata. Ma tanto più fu forte quell’impulso - che veniva dopo un lungo sonno civile - tanto più è stata cocente, prolungata e profonda la disillusione per la promessa mancata. Ci voleva un piano strategico e un effettivo uso dei territori da rigenerare. E la costanza santa dedicata a ogni manutenzione ordinaria. Come avvenne a Torino o altrove. Non ci furono. Su scala ben minore, è stato molto meglio l’evento, ripetuto ogni anno, del Maggio dei monumenti, che fece scuola ovunque in Italia. O lo è il Festival del teatro. O lo fu la stagione dell’Educativa territoriale, che purtroppo finì ma almeno durò e poté sedimentare politiche riconoscibili.
Il mondo è imperfetto e perfettibile: bisogna partire ogni volta dalle cose che si fanno, anche esse imperfette; da quelle più resistenti, più capaci di fornire storie lunghe, ripetizioni che consolidano.
Così, gli eventi – anche questo di Repubblica delle idee - sono i segni che annunciano possibili stagioni migliori. Ma se poi non sbocciano in molte giornate di costruzione del bene comune, diventano cattivi ricordi. E’ passato tempo; ora lo si può e deve dire che è così.  
Ormai per intere generazioni Napoli ha attraversato la stagione infinita dell’illusione e della disillusione. E forse – questo si è potuto toccare in queste giornate - abbiamo iniziato finalmente a imparare una cosa, una cosa che avremmo dovuto sempre sapere, che forse sapevamo pure ma che in troppi abbiamo voluto ogni volta rimuovere. E’ una cosa chiara e incontrovertibile: per una città come per le persone quel che davvero conta non è il grido di indignazione o l’annuncio gridato ma la costanza artigianale, certosina, anche noiosa che consente costruzione e manutenzione di quanto promesso.
Una classe dirigente (non solo politica) locale è tale se prende gli eventi e li collega, facendone una costanza, aggregando stabilità intorno alle misure di questa costanza, dando seguito vero all’annuncio. Altrimenti è e resta notabilato che galleggia, che annaspa e che, poi, approfitta di ogni cosa per restare lì.
Una classe dirigente è tale se sa strutturare un lavoro riparativo e innovativo insieme, che dia possibilità e anche responsabilità a ognuno. Un lavoro che, come tale, costa fatica. Napoli è già piena di queste “buone fatiche”. Nelle scuole che, con mille limiti ma anche tante invenzioni positive, sono ogni mattina lì, nelle imprese che resistono e promuovono innovazioni,  nell’azione educativa e sociale in ogni quartiere, nel gesto dei cittadini che fanno tanta strada per portare la differenziata nel posto giusto. Ma Napoli ha, al contempo, enormi potenziali fermi, congelati da decenni: Bagnoli, il porto, l’avvio di imprese vere per i ragazzi, le misure per rendere costanti le politiche culturali, una spinta per suscitare, insieme al resto d’Italia, misure per il lavoro vero e non per le solite rendite e, poi, misure serie contro le povertà. Ha potenziali qui che sono anche potenziali risposte a questa grande crisi italiana.
La classe dirigente di questa città, per fare ripartire queste potenzialità e per sostenere davvero le “tante buone fatiche” che abbiamo, deve essere costretta, quasi forzata a uscire dalle sue difese, deve essere messa in mora se è disonesta – non c’è solo Milano o Venezia, lo sappiamo – deve uscire dal “piangi e fotti” - che non è meridionalista - e riprendere un posto serio nell’Italia.

Queste giornate, dense, piene di persone oggi più consapevoli ci raccontano una città che può pensare queste cose, perché è finalmente fuori dalle facili illusioni. Poi, però, ci vuole il tempo della raccolta delle cose che funzionano, della costruzione dei legami sociali, dell’analisi di come si amministra o non amministra…un impegno ulteriore, libero da appartenenze strumentali, che chiama a nuove responsabilità. 

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