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Marco Rossi-Doria*, intervistato da Enrico Rebeggiani** sulle violenze fatte a Napoli da ragazzi contro altri ragazzi, presenta uno scenario di spiegazioni e indica le strategie più adeguate per un cambiamento
Negli ultimi mesi, tra dicembre e gennaio a Napoli si sono verificati svariati episodi di violenza che sono caratterizzati dal fatto di essere fatti da ragazzi contro altri ragazzi; in due casi le vittime hanno sono state ferite in modo molto grave, hanno rischiato la morte. Questi episodi hanno colpito molto per il fatto di aver visto adolescenti sia nel ruolo delle vittime sia nel ruolo degli aggressori e soprattutto perché sembravano totalmente gratuiti, puri esercizi di violenza di un gruppo contro ragazzi isolati e apparentemente scelti a caso, diversamente da quanto accade di solito in città, dove la violenza non è estranea, ma ha un suo codice comunicativo e sue precise connotazioni gerarchiche. Questo ha fatto sì che si generasse allarme nella società, amplificato da parte dei mezzi di comunicazione e questo ha immediatamente istituzionalizzato il problema, gli è stato dato appunto un nome, è stato etichettato come fenomeno di baby gang e il problema è stato portato su un piano politico, tanto che la settimana scorsa il ministro degli interni ha tenuto una riunione a Napoli.Marco Rossi-Doria è maestro elementare e ha avuto importanti esperienze istituzionali in Italia e all’estero, negli anni ’90 ha iniziato a fare il maestro di strada, questo gli ha permesso di conoscere approfonditamente la condizione dei giovani che la scuola non ha integrato. A lui la ministra dell’Istruzione ha affidato la Cabina di regia sulla dispersione scolastica e la povertà educativa. Marco è un lettore e amico di Inchiesta e ha gentilmente risposto alle nostre domande.
Tu hai una grande esperienza della città, della condizione in cui vivono i giovani, soprattutto quelli più poveri e che vivono in una situazione di svantaggio dal punto di vista della formazione e hai una grande esperienza nella vita quotidiana sia nelle pratiche che sono alla base di azioni di riduzione del danno o di prevenzione. Quale è la tua percezione del fenomeno e come lo inquadreresti?
Vorrei iniziare con la mia opinione su come come guardare questi eventi. Penso che sia importante evitare generalizzazioni e semplificazioni, dare nomi uguali a cose diverse. La dicitura baby gang è salita all’onore delle cronache ed è stata utilizzata dalla stampa quotidiana già più di due anni fa in occasione delle prime cosiddette stese. Si trattava di un fenomeno relativamente nuovo, iniziato nei viali del quartiere di case popolari di Ponticelli. In riprese fatte dai carabinieri in si vedono ragazzi a bordo di motorini, ragazzi di età fra 16 e 19 anni, quindi a cavallo tra maggiore e minore età che con armi da fuoco, pistole e anche di più, in pieno giorno creano paura nel quartiere popolare sparando all’impazzata e costringendo i passanti a mettersi a terra, a stendersi appunto. Sembrava che fosse un fenomeno di violenza gratuita. In realtà un’analisi migliore da parte degli inquirenti e da parte delle persone che nel quartiere lavorano come privato sociale, parrocchie, centri sportivi, con una qualche prossimità con la situazione, ha rivelato che in quel momento i capi della criminalità organizzata del quartiere stavano trascorrendo lunghe pene detentive, si era creato un vuoto in alcune zone sul controllo sul mercato minuto della droga e quindi il fenomeno aveva uno scopo preciso: quello di affermare chi comandasse in quella zona, delimitando il territorio con atti violenti a forte valenza simbolica, appunto le stese. Alcune di queste stese hanno portato a morti più o meno volute e per un periodo atti simili sono stati compiuti anche in altri quartieri della città, alcune hanno anche portato a morti accidentali, come capita se si spara all’impazzata tra i passanti. Come dicevo, lì si è iniziato a fare uso del termine baby gang. Ma per me questo è un altro fenomeno, distinto da quello che abbiamo di fronte oggi. Oggi quella stessa parola la si è usata per un altro tipo di fenomeno, cioè ragazzini che più di sera che di giorno – la questione dell’orario andrebbe indagata – vanno in giro, girare in motorino è una costante, circondano una persona, scelta per caratteristiche che vanno capite, ma che in genere è coetanea e estranea a quel gruppo e si accaniscono contro la vittima in modo particolarmente violento. Nel caso illustrato in precedenza si sparava per spaventare o per uccidere qualcuno che era visto come un nemico, in questo caso no.
Quanti sono stati i casi di questi assalti con motorini?
Stiamo parlando finora di 5 o 6 casi di cui 2 con grave ferimento della vittima. A un ragazzo hanno dovuto asportare la milza, un altro ha avuto gravi problemi alle corde vocali. Per puro caso non si è arrivati alla morte: non c’è controllo, non si fermano, possono essere molto pericolosi.
Finora questo fenomeno non si era mai manifestato in queste forme?
No, mai. Insisto sulla differenza, pur essendo state chiamate tutte e due baby gang la differenza è nell’età. In questi ultimi casi stiamo sicuramente entro la minore età, in alcuni casi sotto i 13 anni. Anche dal punto di vista del diritto non sono giudicabili. Non sono ragazzi di 16-20 anni, la differenza è grande, anche per il tipo di dinamica di gruppo che si instaura. Stiamo parlando per fortuna finora di aggressioni senza armi da fuoco, ma con armi da taglio con catene, pietre, sbarre di ferro. Non volano proiettili, ma ci si ferma e si mena, anche a mani nude, con calci una volta che la vittima è per terra, in tanti contro uno o due e infine con coltelli.
Il coltello è un oggetto che sta avendo importanza crescente nella simbologia di certi giovani.
I coltelli sono in grandissima diffusione in tutti i quartieri; non sono coltelli piccoli e sono almeno 10 anni che vengono utilizzati in ferimenti vari avvenuti a vario titolo e scopo in varie zone della città da ragazzi provenienti da quartieri di periferia o comunque difficili. Accade soprattutto il sabato o la domenica che in diverbi di strada salti fuori il coltello e spesso l’occasione è data da questioni tipo “hai guardato la mia ragazza”, “io non l’ho guardata”, “non ti devi permettere” e parte la coltellata. Questo è avvenuto in varie occasioni tra la villa comunale, Chiaia, il Vomero già da anni. C’è una lunga serie di sequestri di coltelli nelle scuole, i coltelli sono un problema. Tanto lo sono che per esempio vari giornalai, che ormai non vendendo più giornali vendono un po’ di tutto tra cui anche i coltelli da collezione, a me consta che abbiano smesso di tenerli dopo aver visto che venivano comprati da ragazzini sempre più piccoli: fino a 9 o 10 anni. Tornando quindi al punto, questo più recente fenomeno è diverso da quello precedente per le armi usate, per l’età dei ragazzi e per il fatto che l’aggressione non è volta a affermare un controllo sia pure simbolico del territorio, ma ha ragioni molto più nascoste e complesse.
Per riassumere, il primo fenomeno è riferibile a giovani, non solo minori, che rispondono a logiche militari di controllo, a un vuoto di potere o a un passaggio generazionale nelle fila della camorra, che potrebbe essere anche legato al successo dell’azione repressiva dello stato. Diversamente quello che è successo tra la fine del 2017 e l’inizio del 2018 è un fenomeno con caratteristiche nuove, che potrebbe essere definito come l’inasprimento di una pratica di violenza urbana di minorenni armati – ma non con armi da fuoco – rivolto contro coetanei di altre zone della città o anche della stessa zona ma che vengono percepiti come estranei, come bravi ragazzi.
Nei casi accaduti nel centro storico della città le vittime sono appunto ragazzi qualsiasi, abitanti del quartiere che non vengono percepiti come simili da un gruppo coeso, appunto da una banda. C’è un altro tratto che mi ha colpito e sul quale non sono arrivato a conclusioni. Mentre per le stese si tratta di bande con uno scopo di controllo militare del territorio che hanno uno scopo dichiarato non attraverso una simbologia ma attraverso gli atti: abbiamo le armi comandiamo noi, dovete fare i conti con noi e ci facciamo vedere e riconoscere. In questi ultimi casi invece il messaggio della banda non è rivolto all’esterno, ma al suo interno. Ci diamo un nome, sottoscriviamo un patto d’onore se non di affiliazione come può accadere in una banda di adolescenti o preadolescenti che ha bisogno di manifestare un’identità di gruppo in assenza evidentemente di altre maniere per affermare sé stessi. Ma lo scopo è interno.
Quello che è accaduto negli ultimi mesi è quindi un insieme di episodi di violenza urbana che riguarda ragazzi svantaggiati e che segnala un bisogno di protagonismo e di aggregazione. Viene spontaneo, visto anche l’uso del termine baby gang, un collegamento con quanto accade negli Usa. Lì il fenomeno è ormai radicato e si comincia ad affiancare alla pratica repressiva anche un approccio orientato alla riduzione del danno. In un rapporto governativo si evidenzia che questi giovani esprimono un bisogno di identità, di avventura e di rendersi protagonisti della propria vita; una delle molle alla base dell’adesione sta nel bisogno di sicurezza.[1] Far parte della gang viene percepito come una soluzione alla percezione di pericoli che si vivono nella vita quotidiana, la violenza in famiglia, quella da parte di altre gang, la violenza in generale. Pur sapendo che far parte di una gang determina forti rischi la scelta viene percepita come una forma di difesa. Questo viene spesso verbalizzato da ragazzine che aderiscono alle gang e che riportano casi di violenza, anche sessuale tra le mura domestiche. La gang come scelta di reali o potenziali vittime. Secondo te quanto potrebbe essere vero questo anche nel nostro caso?
La domanda è pertinente, ma temo che non abbiamo sufficienti strumenti per rispondere. Quello che ci proviene dagli Usa, e che spesso si articola anche in maniera diversa, ha avuto eco in paesi dell’est europeo, come il caso di bande di ragazzini che escono da istituzioni totali in città russe ucraine o polacche in cui c’è un bisogno di identità che si accompagna alla voglia di proteggersi da qualcosa. Qui c’è un'ipotesi di rivalsa contro altri, che possono essere le parti più protette del proprio quartiere o le parti considerate estranee e nemiche o quelle della propria percepite come favorite dalla sorte. Ma questo è sicuramente troppo presto per poterlo dire. Bisognerebbe potere accedere a un dialogo o a una prossimità con loro che ora non c’è. Così come nel nostro caso di ragazzine non ne sono state viste, stiamo ai fatti, si tratta solo di maschi.
Bisogna secondo me tenere una posizione di sorveglianza costante ed è pericolosa la tentazione, anche per persone che hanno una vasta esperienza in questo campo, di arrivare a conclusioni rapide, magari sospinti dall’emergenza o dalla sensazione di pericolo sociale, dal “facciamo presto”, “occorre inventarsi qualcosa”, “il ministero ha messo i soldi”.
In realtà bisognerà inventarsi qualcosa, bisogna rispondere al senso di insicurezza nella cittadinanza, e bisogna anche rispondere anche alla invocazione che proviene da altre componenti degli stessi quartieri. Mi ha molto colpito il corteo di svariate migliaia di ragazzini che c’è stato a Scampia il 16 gennaio in risposta a uno di questi episodi. Nella manifestazione si chiedeva di intervenire contro la violenza e questa richiesta non solo era perfettamente legittima, proveniva da coetanei e amici delle vittime che esprimevano loro solidarietà, ma costituiva anche un moto di reazione e netta distanza da quegli episodi, “noi non siamo così”, “la città e il nostro quartiere non è così”. C’era la richiesta di intervenire e anche quella di essere ascoltati.
Quindi la necessità di rispondere a una emergenza c’è, ma nello stesso tempo bisogna essere molto attenti a capire a cosa bisogna rispondere: noi non sappiamo esattamente cosa c’è. Quindi noi dobbiamo da un lato rispondere, dall’altro avere un dubbio metodologico vero nel rispondere. Tranne alcune cose che si possono fare subito.
Prendiamo il caso dello schema annunciato dal ministero dell’interno. È articolato sostanzialmente in due azioni. La prima consiste in cento poliziotti in più che controlleranno i motorini e avranno la possibilità di sequestrare armi e nel caso anche i motorini, chiamare i servizi sociali del comune e nel caso di minori di 13 anni anche convocare immediatamente i genitori. In sostanza: elementi di contenimento con i quali lo stato esercita anche il monopolio nell’uso della forza in modo consono a quanto prescrive la legge per quanto riguarda i bambini e i ragazzi.
La seconda azione è costituire personale specializzato di prossimità, cioè immaginare insieme al comune, alla città, degli educatori di strada che abbiano la capacità di venire in contatto di diventare prossimi e interloquire di capire e proporre avventure positive in alternativa a quelle negative. E questo si può fare subito, mentre si cerca di analizzare meglio il fenomeno.
Queste sono le due misure del ministero, prospettata in modo più preciso la prima, perché più vicina a pratiche di intervento consolidate, meno la seconda, ma io spero e mi impegno affinché resti un’apertura per capire meglio di cosa stiamo parlando. Il rischio è che si dica che questi ragazzi sono già pericolosi, sono pronti a diventare come quelli delle stese, sono pronti a quella deriva e quindi agiamo secondo logiche unicamente repressive, oppure – posizione speculare – basta che li mandiamo a scuola, che frequentano la parrocchia o che fanno sport e tutto si risolve da sé. A me pare che queste dimensioni di certezza siano fuorvianti in questa fase.
D’accordo con te sulla necessità di capire meglio le dimensioni del problema, si tratta di un fenomeno molto grave perché può estendersi e acuirsi. Il fatto che negli Usa fenomeni di questo genere siano molto più radicati e il fatto che quella situazione ha una così grande rilevanza nell’immaginario dei nostri ragazzi ci obbliga a pensare e a prevenire. Ma oltre alla necessità di comprensione è forse utile fare un passo indietro e osservare il tema della violenza in prospettiva, in termini macro e in termini di evoluzione storica. Le morti violente sono oggi in Italia 0,77 per 100.000 abitanti, tra i valori più bassi in Europa e quindi nel mondo, incomparabili con quelli degli Usa.[2] Va detto che in Campania il tasso è quasi del doppio, ma comunque poco sopra la media europea. Questo basso tasso generale di morti violente è in diminuzione da decenni: la metà rispetto agli anni ’90 e un terzo rispetto agli anni ’60. Ma siamo tutti convinti che invece aumenti.
La differenza è molta non solo in termini di politiche e di azioni di lungo periodo, ma anche nella interpretazione di ciò che ci accade. Se la violenza è in cima alle nostre preoccupazioni, è molto più probabile che ci capiti di dare risposte esagerate in circostanze che riteniamo minacciose, ma che in realtà non lo erano.
Va ricordato che la tradizione italiana ha contribuito a un trend internazionale che è stato codificato dalla convenzione ONU di New York del 1989, la posizione dell’Italia sulla non carcerabilità e sulla pene alternative al carcere per i minori e il codice penale minorile italiano che ha avuto come ispiratore principale Alfredo Carlo Moro è stata alla base di questo consenso internazionale e ha portato a risultati inoppugnabili che vanno – nello specifico per i minori – nella direzione che indicavi e che è stato considerato un modello da molti paesi, opposto al modello della carcerazione precoce seguito da altri paesi tra cui gli Usa che infatti non hanno firmato la convenzione; anche se pure lì come dicevi c’è un ripensamento. Noi veniamo da un’altra e solida cultura, non esiste in Italia, tranne poche eccezioni, una spinta verso il ripristino di pene in età precoce. La discussione semmai è avvenuta su come applicare le pene, anche quelle non detentive e quelle per i minori. L’orientamento è quello di una maggiore chiarezza e di una maggiore costanza educativa delle sanzioni. Per fare un esempio riferito al nostro caso anziché dire che il tredicenne trovato in possesso di una catena debba andare in carcere, si dice che ci deve essere un costante supporto della genitorialità della mamma, e se c’è anche del padre, e che oltre all’obbligo di andare a scuola ci sia – nell’ambito della comunità educante del suo quartiere, la parrocchia, il privato sociale, – una specifica attenzione nei confronti di questo ragazzino con un mentore, un tutor sufficientemente bravo e a cui lui si possa affidare per una durata non di una settimana ma di sei mesi un anno o più. Ma essere contro le pene detentive per i minori non vuol dire che non bisogna fare nulla; bisogna invece fare e fare in maniera meno sciatta e occasionale di quanto fatto finora. Fin qui però siamo nel solco di quanto già raccomandato dal codice penale per i minori e dalla letteratura costituita dalle migliaia di provvedimenti non necessariamente restrittivi, ma di accompagnamento educativo che i tribunali per i minori hanno emesso fin qui. Il tribunale dei minori infatti per un omicidio commina pene carcerarie e i casi del genere in italia sono complessivamente decine, mentre sono migliaia i ragazzini cui viene dato un programma educativo alternativo. Il problema di questi programmi educativi alternativi è che iniziano bene ma poi non ricevono la necessaria manutenzione. La raccomandazione che proviene dalle considerazioni del ministero della giustizia è che bisogna vigilare sulla continuità delle finalità educative. Credo che dobbiamo continuare su questa linea perché essa è alla base non solo della nostra civiltà giuridica ma anche dei buoni risultati complessivi che citavi.
Un altro aspetto che secondo me è rilevante nelle vicende di cui stiamo parlando è quello delle notizie, del racconto fatto dai mass-media e del clima che hanno contribuito a creare intorno a questo tema. La narrazione di quanto accaduto è stata una narrazione molto allarmata, si è immediatamente creata un’etichetta che abbiamo visto essere sommaria e in generale queste notizie sono sembrate molto appetibili perché truculente. C’erano elementi di drammaticità adatti a trasformarle in titoli a più colonne. Ma in seguito l’enfasi data alla narrazione di questi episodi ha creato un clima che potrebbe essere di per sé pericoloso, nel senso che creare allarme su questioni di questa delicatezza può determinare conseguenze anche gravi. Mi riferisco a due episodi in cui il clima di allarme e la richiesta di interventi repressivi sono stati indirettamente responsabili del ferimento o della morte di minori. Il primo è successo a Milano pochi giorni dopo i fatti di Napoli. Alcuni ragazzi hanno avuto una discussione in autobus con un signore, una volta scesi il signore – che era un autista fuori servizio – ha tirato fuori un coltello e ne ha ferito uno. Inizialmente l’episodio è stato rubricato sotto il capitolo baby gang e violenza giovanile; solo le telecamere a bordo del bus hanno permesso ai carabinieri di capire che i giovani erano le vittime.[3] L’altro è accaduto a Napoli tre anni fa quando dopo una campagna di stampa sulla presenza di criminalità nel rione Traiano un carabiniere che credeva di inseguire un ladruncolo evaso dai domiciliari ha sparato a un ragazzo di 16 anni incensurato, uccidendolo sul colpo. Le fonti giornalistiche hanno narrato la cosa in modo completamente distorto e solo il processo ha ristabilito la verità e l’innocenza del ragazzo morto.[4] Soprattutto quest’ultimo caso va tenuto ricordato tutte le volte che si chiede il polso fermo e la soluzione facile di problemi complessi.
Tornando a noi, quanto conta il modo con cui i mass media raccontano gli episodi di violenza come quelli che sono accaduti di recente?
La storia del rione Traiano è significativa. È un quartiere popolare, con una lunga storia che lo lega alla povertà estrema del primo dopoguerra, alle vicende operaie della siderurgia e nel quale si sono poi insediate alcune famiglie che gestivano una quota, peraltro infima, del mercato della droga in città. Questo ha portato a una sua forte connotazione negativa sui media, alla sua etichettatura come quartiere difficile. È chiaro che questo stigma nasce da fatti concreti, ma finisce per coinvolgere la popolazione dell’intero quartiere. Le forze dell’ordine presidiano l’esterno del quartiere e quindi assumono come ugualmente sospetti tutti quelli che, specialmente di notte, entrano o escono. Questo caso mostra come un problema reale, descritto e etichettato in un certo modo, porta a soluzioni per così dire tecniche che sono pericolose per le persone senza peraltro risolvere il problema. Perché certo non si è risolto il problema dei corrieri di droga in quel quartiere.
C’è una questione che andrebbe trattata separatamente e che richiederebbe molta attenzione: che cos’è un quartiere povero e come si identifica la parte più marginale di un quartiere povero. Comunque, quando le strategie di contenimento della criminalità confondono la parte o addirittura la sottoparte con il tutto si creano le premesse per una serie di errori che non stanno solo nella narrazione dei media, ma in generale nel discorso pubblico sulla città. Per discorso pubblico intendo anche nell’attenzione istituzionale, nell’organizzazione delle forze dell’ordine, nell’intervento e nel lessico delle scuole e della componente migliore, educativa e sociale della città. Questi errori di generalizzazione possono portare a essere inefficaci e retorici, ma anche a conseguenze più tragiche come abbiamo visto.
Rispetto agli adolescenti bisogna stare molto attenti a questo: non radunare sommariamente tutti i ragazzini dei quartieri difficili e neanche tutti i ragazzini della parte più fragile del quartiere difficile sotto l’etichetta della baby gang. In termini più concreti, se si dovessero fare delle scelte di politica pubblica che offrono risorse al terzo settore per fare gruppi attentamente costituiti di educatori di prossimità che stanno in un quartiere, il primo mandato da affidare loro non è andare a cercare le baby gang, ma cercare di capire da vicino cosa fanno tra di loro quegli adolescenti, come si organizzano, cosa fanno, come ragionano, quali sono le loro difficoltà le e loro sofferenze. Dopo questo lavoro di prossimità si potrà capire perché alcuni tra questi si atteggiano a baby gang, se lo fanno per paura, o invece per crearsi un’identità, o se invece – tratto che unifica sempre più la popolazione adolescente italiana, anche quella benestante – hanno poca esperienza di presidio dei limiti da parte degli adulti. Questo andrà capito mentre ci si avvicina a questa situazione di sofferenza, di difficoltà o di agito pericoloso. Evitiamo di dire quello è il quartiere a rischio, occhio su quel quartiere, controllo militare del territorio e magari poi solo alla fine ci mandiamo anche gli educatori. Evitiamo di confondere il tutto con la parte, se lo si fa la tendenza a commettere errori aumenta e con essa la probabilità che la situazione peggiori. Ci sono però dei segnali positivi, il decisore pubblico su questo discorso è avvertito, mi riferisco al Comune, al responsabile della Regione, lo stesso ministro dell’Interno, criticabile per altri aspetti, ha attenzione per questa cosa, il prefetto ha detto che bisogna stare attenti a non chiamare fenomeni nuovi con nomi vecchi. Siamo quindi in presenza di un atteggiamento consapevole e articolato delle istituzioni, non di un’intenzione di risolvere il problema alla svelta e manu militari. Dobbiamo tutti vigilare perché questa consapevolezza porti a risultati altrettanto consapevoli, ma almeno per ora va registrata un’attenzione di questo tipo e uno degli elementi che ha consentito questa attenzione è stata la mobilitazione dei ragazzi. Se non ci fosse stata questa mobilitazione, che si è imposta sui media, avremmo avuto una narrazione delle cose centrata sulla passività e sulla rassegnazione, sulla generale indifferenza al fenomeno.
Torniamo alla questione delle radici del fenomeno. Il problema dei ragazzini violenti e in generale della violenza viene costantemente ricondotto alla concentrazione dello svantaggio sociale in determinati quartieri. Secondo alcuni, per esempio il presidente della corte di appello, la violenza minorile è preoccupante perché agisce anche in zone ritenute sicure.[5] Come dire, il problema è che esce dai ghetti. Cosa pensi di questo interpretazione territoriale?
È vero che una parte della città non parla con l’altra, ma è vero in termini di classe e non di territorio; la borghesia – a differenza di quanto avveniva negli anni ’60 e ’70 – non si avvicina con le sue sensibilità migliori alla vita quotidiana e concreta delle classi cosiddette popolari. Con le dovute eccezioni, ma manca un moto di fondo come è stato in quegli anni, purtroppo. Questo non solo è un arretramento in sé, ma anche una perdita per chi è giovane e ha più risorse: si impara di più e meglio se si vedono più cose nella vita. Ciò premesso, la geografia e la storia della città sono molto più complesse di quanto i media facciano capire. A me colpisce moltissimo quando mi chiedono se davvero i quartieri napoletani sono così come vengono mostrati, non solo da Gomorra, ma anche dai telegiornali. Bisogna spiegare che lì vivono tante persone con condizioni diverse: impiegati, operai, lavoratori molto precari ma assolutamente onesti, persone che vivono di lavoro nero loro malgrado perché di lavoro regolare non se ne trova e sono altrettanto oneste, famiglie in cui si trovano intrecciate cose diverse come il piccolo contrabbando, attività irregolari ma non criminali insieme a piccole attività criminali ma assolutamente marginali rispetto alla criminalità organizzata, vive la manovalanza spicciola della criminalità organizzata che però è distante da quello che racconta Gomorra, e in quella stessa famiglia ci possono essere il fratello, il cugino o lo zio che fa normalmente l’idraulico, ha un bar, una piccola ditta edile o di trasporto. C’è quindi una grande complessità. Il punto è che in un quartiere come ad esempio la Sanità o Secondigliano o Pianura anche rispetto a questa articolazione di condizioni c’è una parte che risulta ancora più marginale. Una parte che nei quartieri popolari i cui figli non sono raggiunti dalle parrocchie, non fanno uno sport, vanno saltuariamente a scuola, sono difficilmente raggiungibili. Gli stessi promotori di sviluppo locale, per esempio la fondazione di comunità san Gennaro alla Sanità che ha un’attività intensa e capillare e che gode di finanziamenti pubblici e privati usandoli bene, non sempre riescono ad avere una relazione con parti del quartiere. Quindi quando si additano singoli quartieri o quando specularmente si dice che Napoli è tutta bella e sana si fanno semplificazioni che non aiutano. Tornando alla questione delle baby gang è possibile che la baby gang sia costituita nel suo nucleo promotore da ragazzini che provengono dalla parte più marginale della quota marginale di un quartiere e che non hanno nessuna rappresentanza e nessun aggancio con adulti significativi che possono prospettare una qualche forma di regolarità di vita: mangiare ad orario, andare a scuola, fare cose normali come andare il sabato a vedere un’altra parte della città; sono ragazzini che per specifica fragilità familiare si trovano in una situazione per cui cercano un’identità. Di questo non ne ho la certezza ed è un’ipotesi da verificare, ma questa ipotesi si può verificare solo se si ha un’idea complessa dei quartieri difficili e popolari, non se si pensa che quelli di un quartiere siano tutti in un modo. Nel caso accaduto a Chiaiano per esempio vittima e carnefici sono della stessa zona, come ce lo spieghiamo?
Nel dibattito sulla violenza minorile si è fatto spesso riferimento alla influenza che il cinema e la letteratura hanno sul comportamento delle persone e nel caso specifico se Gomorra abbia influenzato gli stili di vita di questi adolescenti. La polarizzazione è tra chi sostiene che ci siano responsabilità dirette e chi dall’altra parte le nega e condanna le censure. Luca Sofri ha sostenuto in modo argomentato che la risposta è “Sì, e vale la pena parlarne e rifletterci sopra, ferma restando la totale libertà degli autori di decidere come comportarsi”. [6] Sarebbe ingenuo pensare che una rappresentazione televisiva di successo non abbia conseguenze, non stimoli processi di identificazione e di emulazione. Tutto il cinema e in generale l’arte si fonda sulla partecipazione emotiva dello spettatore. Questo non vuol dire che bisogna censurare le serie televisive. Ma non si può fingere di non sapere. Lo stesso Saviano in Gomorra, il libro, ricorda come la filmografia sulla mafia americana abbia plasmato i gusti dell’immaginario della camorra. Arrivando perfino insegnare modi spavaldi e imprecisi di impugnare la pistola.
Gomorra è stata tirata in ballo per dire che era colpa sua e poi invece per dimostrare che non si potevano rintracciare colpe e responsabilità. Sono d’accordo con Sofri: è ovvio che quei modelli vengono visti e anche imitati dai ragazzini, il problema è che non ne hanno altri e il problema è il contesto nel quale inseriscono queste narrazioni.
Secondo alcuni la questione delle baby gang è una delle periodiche finte emergenze destinate a esaurire velocemente tutta l’attenzione per poi a rientrare in una stanca accettazione dello stato di fatto.
Negare l’emergenza è paradossale e rischioso, rischia di essere un atteggiamento ideologico. Il problema esiste ed è grave, abbiamo il compito di assumerlo e leggerne la complessità.
Per concludere, cosa pensi si debba fare per affrontare questa situazione?
Quello che mi sto sforzando di far passare nel mio rapporto con le istituzioni è che ci vuole costanza nelle politiche generaliste, anche se non è detto che queste siano in grado di avere effetti diretti sullo specifico fenomeno, nondimeno è indispensabile che ci siano. Cosa intendo: ad esempio che in ogni quartiere ci siano centri di aggregazione per ragazzini che funzionano costantemente e con fondi funzionali di lungo periodo, con educatori che hanno una formazione, un monitoraggio e una supervisione seri e un rapporto costante nel tempo, se questi si mettono d’accordo con le scuole in una unica comunità educante in cui ci sono ruoli diversi tra docenti e educatori, tra tempo scuola ordinario e il tempo fuori. Un accordo su alcune costanti pur nella distinzione e nella differenziazione delle funzioni e dei ruoli.
Quando un quartiere è munito di queste cose in maniera costante non abbiamo dato risposta al singolo episodio di violenza giovanile, ma abbiamo la base indispensabile per lavorare fuori dall’emergenza.
Ora si sta avviando un piano per il rione Sanità con dei fondi straordinari e si prospetta che questo divenga un modello replicabile ma non illudiamoci che questo intervento sia in grado di far sparire le baby gang, se lo pensassimo rischieremmo di chiudere tutto al primo nuovo episodio di violenza. Il compito di figure intermedie come me è quello di far capire con parole semplici alle istituzioni e anche ai mass media queste evidenze metodologiche che vengono dalla realtà.
E qual è la considerazione del problema nel dibattito politico?
Le istituzioni sono costrette ad affrontare il problema e ad assumersi responsabilità, nel dibattito politico invece non ravviso parole sensate da nessuna parte.
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*Maestro elementare, esperto di dispersione scolastica e povertà educativa. È stato sottosegretario all’istruzione.
** Dipartimento di Scienze sociali, Università degli studi di Napoli Federico II.
[1] T.R, Simon, N.M. Ritter, R.R. Mahendra, Changing Course. Preventing Gang Membership, U.S. Department of Justice, National Institute of Justice e U.S. Department of Health and Human Services, National Center for Injury Prevention and Control, 2013. https://www.ncjrs.gov/pdffiles1/nij/239234.pdf
[2] Istat, Rapporto Bes 2017. Benessere equo e sostenibile in Italia, 15.dic. 2017. https://www.istat.it/it/files/2017/12/Bes_2017.pdf
[3] Ansa, “Litiga su bus con ragazzini, scende, ne accoltella uno”, 20 gen. 2018. http://www.ansa.it/lombardia/notizie/2018/01/20/aggredito-su-bus-da-adolescenti-ne-accoltella-uno-_cf4194c2-fb7f-4bcc-8cdd-3f51216e2880.html
[4] La vicenda è narrata in un recente libro di inchiesta da Riccardo Rosa, Lo sparo nella notte. Sulla morte di Davide Bifolco, ucciso da un carabiniere, monitor edizioni 2017.
[5] D. Del Porto, “Napoli , sale l’allarme per le baby-gang che agiscono senza zone franche”, La Repubblica-Napoli, 25 gen. 2018. http://napoli.repubblica.it/cronaca/2018/01/25/news/napoli_sale_l_allarme_per_la_delinquenza_giovanile_che_agisce_senza_zone_franche_-187253796/
[6] Luca Sofri, “La risposta è sì”, Wittgenstein, 20 gen. 2018. https://www.wittgenstein.it/2018/01/20/la-risposta-si/