Un mio articolo scritto dopo alcune scene impressionanti avvenute nella periferia est della città e pubblicato su Repubblica Napoli il 25 Marzo.
E’ un normale martedì di marzo. Ma è un tempo di seria riflessione per la nostra città.
Ponticelli. Le telecamere dei carabinieri riprendono una strada per vari mesi. Lo si capisce dagli abiti delle persone riprese. Prima calzoncini e magliette. Poi abiti invernali. Sono scene che si ripetono nel tempo. E’ un luogo dove non vi è la legge. Non è un singolo episodio. E’ la ripetizione nel tempo che colpisce. Con una normalità della scena, una consuetudine nei gesti. Il monopolio della forza sul quale si basa ogni stato di diritto è evidentemente eclissato. La via è in mano, mese dopo mese, episodio dopo episodio, a bande, giovanissime, che vengono, vanno, ritornano. Gli abitanti sono terrorizzati.
I giudici, i carabinieri, i funzionari della Questura ripetono che non sembra l’Italia. Lo ripetono con voce misurata e affaticata, in modo accorato, dolorante. Colpisce che dicano questo dopo avere appena arrestato oltre 60 persone di tre diversi clan. Non cantano affatto vittoria. Non minimizzano, non sono soddisfatti. Molti degli arrestati sono giovanissimi. Giudici e forze dell’ordine parlano con toni preoccupatissimi. Dicono che si deve fare molto di più. Chiamano a una nuova stagione di impegno straordinario tutte le istituzioni e la nostra comunità. Hanno ragione.
Dobbiamo fermarci a capire cosa sta succedendo. Guardo queste scene sullo schermo con gli amici che lavorano da anni in questi quartieri, insegnanti, operatori del sociale che hanno, nel tempo, costruito una conoscenza, una competenza straordinaria, unica in Italia.
Guardiamo i ragazzi in moto che entrano, come una banda senza comando, nella larga via, ora dal fondo, ora da una traversa. Sono in due su ogni moto. Senza casco. Le donne del rione con i bimbi corrono via terrorizzate, due cani e altri bambini scappano. I ragazzi sulle moto impugnano le pistole e si sparano l’un l’altro. Finisce la sequenza ed eccone un’altra. Altra fuga di donne e bimbi. Alcuni ragazzi si passano le pistole. Riprendono a correre sulle moto. Sparano verso le finestre, per aria, in modo insensato… Altra scena, altre fughe, altre pistole che sparano.
I reati contestati agli arrestati sono quelli del malaffare dei quartieri di Napoli che si ripetono da anni: spaccio, tentato omicidio, associazione mafiosa, estorsione, contrabbando. Chi lavora in questi luoghi racconta quello che ognuno già sa: intere vie vengono chiuse da catene e paletti, le forze dell’ordine tolgono i paletti e dopo un giorno sono di nuovo lì, le case bunker sono sorvegliate da telecamere dei clan e da giovanissimi armati; tutto è sotto controllo; l’assegnazione delle case popolari viene stravolto dagli ordini dei criminali. Il territorio non appartiene alla Repubblica.
Ma queste scene non dicono i reati contestati e neanche gli agiti di un territorio in balia della camorra per come la conosciamo. Aggiungono qualcosa, che è nuova, che sta emergendo, che va guardata con attenzione. Non c’è una costruzione ben pensata nei gesti di queste bande. Ed è un movimento violento lungo confini meno definiti di quelli ai quali siamo abituati. Sono certamente scorribande per controllare affari criminali e marcare il territorio. Ma il modo è umorale, improvvisato.
Molti capi sono in carcere con lunghe pene detentive o agli arresti domiciliari. La catena di comando è labile. I giovanissimi si fanno avanti. Sono impulsivi, bizzosi ma molto determinati. E poi – lo registra ormai anche chi si occupa di recupero e di scuola in questi quartieri - le armi arrivano più facilmente in mano ai giovanissimi, sono più facilmente acquisibili fuori dal controllo di chi comanda. E’ così anche in altri quartieri. E le risse di una volta stanno lasciando il posto alle pistole: “qui le mani non si portano più”.
Qualcosa sta mutando nell’assetto del controllo e nella gerarchia nei gesti. Gli atti secondo codici che, per quanto criminali, conservavano una qualche logica causale, sta lasciando il campo a un sistema sempre più impulsivo, umorale, in balia del momento. Non è sempre così. Ma molti segnali dicono che queste novità ci sono. E che è in campo una generazione che si fa avanti, con criteri per agire che non sono chiari neanche a chi agisce, gente giovanissima ma che è avvezza all’uso delle armi per dirimere conflitti tra bande di tipo grave o non grave poco importa o per fare presidio di confini considerati tali secondo circostanze molto mobili o anche per dirimere controversie interne o personali anche secondarie. La vecchia cultura della strada sta evaporando, il criterio codificato in base al quale agire sta cedendo terreno all’atto fuori dai controlli di una volta. E sostituisce le parole, i ragionamenti, le negoziazioni e anche le azioni criminali finalizzate secondo convenienza e consuetudine.
Del resto registriamo ovunque la debolezza di ogni comunità e una caduta del presidio adulto, una fragilità mentale diffusa in tanti adolescenti, un aumento impressionante di stati di confusione e senso di perdita che a tratti spingono all’azione anche impensabile fino a poco prima, senza alcuna capacità di parola, domanda di aiuto, controllo, narrazione, distinzione, rielaborazione. “Sembra un’epidemia” – così ripete una sapiente docente di quel quartiere – “non ascoltano, non danno appiglio, non trovano parola; e non riguarda solo i ragazzi che vanno verso il malaffare”.
E’ tempo di riconquistare quei territori alla Repubblica, ripristinando il monopolio della forza dello Stato, senza esitazioni. E, al contempo, è urgente una grande, nuova stagione che rimetta in moto le nostre comunità, che ridia spazio alla legge e all’essere adulti. Sarebbe ora che se ne parlasse seriamente, senza scorciatoie e che anche la politica distogliesse lo sguardo da se stessa, guardasse alla scena vera che abbiamo davanti e con umiltà si rimettesse a pensare e proporre.
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