
Se passa la proposta del governo, in quale orario lavoreranno le maestre? E cosa cambia rispetto alla situazione attuale? E che nessi ci sono con le diverse tradizioni orarie e con i contesti sociali e culturali del Paese?
Il ministro Gelmini ha fatto sostanzialmente 2 dichiarazioni pubbliche tra loro apparentemente contraddittorie. Dichiarazione 1: si ri-porterà il tempo a scuola dei nostri bambini al solo orario anti-meridiano. Dichiarazione 2: il tempo pieno non si toccherà.
Vediamo con metodo. Perché la cosa non è semplice.
Cos’è, intanto, l’orario anti-meridiano? Si tratta del tempo-scuola italiano classico: si va a scuola e si insegna solo di mattina, 6 giorni per 4 ore al giorno. Ben diverso dal modello di orario-scuola tripartito che c’è in gran parte del mondo (germanico, nord-europeo, anglo-sassone, colonie comprese, e mittel-europeo e assunto anche in Francia successivamente alla I guerra mondiale) che vede un primo tempo anti-meridiano di lezioni, un secondo tempo per il pasto a scuola o per l’andata a casa e il ritorno e anche, però, per le attività spontanee e/o ludiche e sportive nei
play-ground, nei luoghi sociali intorno agli edifici scolastici e un terzo tempo di ulteriori lezioni o di avvio dei compiti per casa ma a scuola. La via italiana alla scuola pubblica è stata, invece, il tutti a scuola ma solo la mattina. E’ un tempo-scuola che nacque con la già citata legge Casati e successive modifiche, che attraversò, inalterata, la riforma Gentile e continuò anche nel secondo dopoguerra fino alla legge 148 del 1990 che istituì più docenti e più lungo orario per ogni classe. E’ il tempo-scuola che chiunque abbia più di 40 anni ha conosciuto da bambino e che hanno sperimentato tutti i docenti entrati a scuola prima del 1990. Che vedeva la quasi assoluta coincidenza di orario tra insegnante e bambino a scuola, fatte salve le riunioni pomeridiane, la preparazione e correzione di compiti. Che terminava con il pranzo all’italiana, fatto dalla mamma che restava a casa spesso insieme a nonne e zie e ai fratellini piccoli. E’ la scuola che permetteva ai figli di contadini, artigiani e commercianti di aiutare i genitori nel lavoro di pomeriggio e che non conosceva il week-end lungo. Il tempo scuola italiano è stato così per 130 anni, tranne che per i convitti nazionali, istituiti ad hoc e per i collegi privati religiosi, che riunivano i bambini delle famiglie più povere e dove l’istruzione era inglobata entro un’istituzione totale “di cura educativa” .

E’ questo tempo che si ruppe, anche un po’ tardivamente rispetto alle trasformazioni sociali in atto, appunto con la legge 148 del 1990. Perché va pur ricordato che tale legge nacque da mutamenti profondi nella struttura e nel clima della società italiani. Infatti fu anticipata dalle esperienze del primo tempo pieno. Che si attuò, soprattutto nel Nord, in risposta, da un lato, all’introduzione delle 40 ore con la settimana corta nelle fabbriche (contratti 1969) e, dall’altro lato, all’emancipazione di centinaia di migliaia di donne che, in numero crescente, stavano diventando lavoratrici e non più unicamente casalinghe. E che fu anticipata da una stagione di protagonismo pedagogico – sia laico che cattolico - soprattutto nelle nostre scuole elementari, appunto, le quali conobbero la creazione di laboratori e di esperienze molteplici di scuola attiva, anticipate, fin dagli anni ’40, in particolare dal movimento di cooperazione educativa, che portò in Italia le esperienze di Freinet e delle scuole attive del tempo del Fronte popolare tra le due guerre in Francia. Una stagione ricca di pratiche innovative, che hanno fatto della nostra scuola elementare il migliore comparto tra tutti i segmenti di scuola e capace davvero, volta dopo volta, di includere tutti (poveri, portatori di handicap, stranieri). E anche di fare cose diverse dalla scuola tradizionale pur salvaguardandone le parti buone. Si pensi alle uscite fuori dalle mura scolastiche, ai laboratori creativi, ai giornalini, al teatro, alla musica, ai campi scuola, all’uso dei nuovi media. Si pensi – a proposito dell’uso di più insegnanti - alle esperienze delle cosidette “classi aperte” che vedevano le maestre e i maestri unici che, però, di comune accordo – e entro i più ampi poteri conquistati dai collegi dei docenti all’inizio degli anni settanta (decreti delegati) – aprivano la aule, si sostituivano nei compiti o decidevano di fare cose insieme, formando gruppi tra bimbi di classi diverse, della stessa etrà o i più grandi con i più piccoli, scambiandosi ruoli tra colleghi, nella convinzione che si potesse imparare uno dall’altro e che uno sa fare meglio certe cose rispetto ad altre e può farle anche in classi diverse dalla propria e con reciprocità.
Il ritorno al maestro unico, chiuso nella sua classe, ha in sé una retorica che richiama l’antico, che ci ricorda la nostra o il nostro insegnante, qualcosa di molto rassicurante. Ma dall’altra parte rappresenta, nel profondo, una vera regressione, un ritorno a prima di quella stagione. Anche se noi abbiamo avuto grandi maestri solitari, molto venerati… mentre il lavoro faticoso del collettivo ha conosciuto minori lodi e apprezzamenti. C’è da riflettere, in ogni caso, sul diverso senso pedagogico dell’essere solo o in più dinanzi ai bambini e sul diverso assetto, anche in termini psicologici, che le due cose assumono. E ci tornerò.
Ma se c’è questa spinta regressiva nella proposta di “maestro unico”, perché, poi, il ministro Gelmini ha anche detto e ripetuto che salvaguarderà quell’altra tradizione, nata dall’attivismo pedagogico e dunque le scuole dove si fa il tempo pieno?
In verità non ne può fare a meno. Se la mangerebbero viva nel Nord proprio i suoi elettori. Infatti le classi con il tempo pieno (un’organizzazione, peraltro semplice, che vede 2 docenti impegnate su ogni classe con orario 22 + 2 di programmazione comune, in modo da garantire ai bimbi 5 giorni lunghi di 8 ore) sono il 27% del totale, circa 38.000 su 140.000 in Italia. Ma sono concentrate – e con una ben consolidata tradizione – nel Centro ma soprattutto nel Nord. Si pensi che sono, per esempio, il 96% delle classi a Milano città. La voce grossa di Bossi con la Gelmini e la remissività dello stesso Tremonti sul tempo pieno altro non sono che il buon senso di chi conosce i suoi elettori e soprattutto elettrici, che non possono accettare il fatto che i propri bambini tornano a casa alle 12.30 dopo che per quaranta anni la scuola a tempo lungo ha consentito alle mamme di lavorare - sia come dipendenti che come lavoratrici autonome - e raddoppiare il reddito delle famiglie, a differenza che nel Mezzogiorno. E di chi sa che ciò è avvenuto sotto tutte le amministrazioni locali, di destra, di sinistra, leghiste o non.
Le due diverse affermazioni del ministro, dunque, non rappresentano alcuna confusione ma sono il programma politico, in qualche modo coerente, di chi fotografa un Paese spaccato a metà e lo congela al fine di tagliare i bilanci. Di chi, in buona sostanza, sa che o non ci sono o sono assai fragili al Sud l’integrazione tra enti locali e scuola così come le mense, indispensabili alla tenuta del tempo lungo a scuola; di chi sa che non c’è credibile rappresentanza politica delle fasce deboli a difesa del tempo-scuola al Sud né, dunque, vero pericolo di proteste delle famiglie; e di chi sa che le donne al Sud non lavorano e non lavorer

anno poiché il tasso di partecipazione delle donne al mercato del lavoro (quelle che lavorano e quelle che cercano attivamente lavoro) nel Mezzogiorno conosce percentuali tra le più basse in Europa, intorno al 27%… e si tratta di valori fermi o addirittura peggiorati negli ultimi venti anni, e che mostrano non solo una crescente difficoltà a trovare lavoro, ma anche una crescente sfiducia nel cercarlo. E’ il sapiente programma politico di chi sa, pertanto, che, alla fine, ripristinato l’anziano tempo-scuola di 4 ore per 6 giorni o la sua variante con week-end di 5 ore per 5 giorni con un dì più corto, tutto comunque rigorosamente di mattina, si risparmierà un bel po’. E’ il programma di chi registra e certifica che le donne meridionali, tagliate fuori dal mercato del lavoro in modo disperante, se li andranno a prendere i bimbi a scuola, come già, peraltro, fanno con l’attuale tempo-scuola, maggioritario nel Sud (due prolungamenti e tre giorni fino alle 13 con 3 maestre su due classi a 22 ore di lezione ciascuna + due ore di programmazione comune). Se li andranno a prendere per debolezza del tempo pieno dovuta a una debolezza delle scuole autonome e degli enti locali, che a loro volta fotografano la mancata emancipazione economica delle donne del Sud. Sì, li andranno a prendere per il pranzo a casa, come facevano le loro madri e le loro nonne. Con poche eccezioni che hanno resistito nel mezzogiorno grazie all’eroismo pedagogico di quelle scuole, veri e propri presidi nel deserto. E, una volta abrogata la terza insegnante per ogni due classi, le maestre torneranno a lavorare solo di mattina, senza più tempo di progettazione in comune, 24 ore in una sola classe o, al massimo, riusciranno a salvaguardare un minimo di varietà, sfruttando le norme sull’autonomia delle scuole e dividendosi gli ambiti di insegnamento con 12 ore su 2 classi ciascuna, d’accordo con la collega, ri-inventando le classi aperte, senza oneri per lo Stato. E sarà di nuovo il lavoro bello ed eroico e silente che in tanti abbiamo saputo fare. E che con dedizione sapremo riprendere. Ma è giusto che questa sconfitta, accolta con decoro, la si rimarchi con il lutto al braccio. E i bimbi che se lo possono permettere avranno pagate da babbo le attività pomeridiane; e i bimbi che non se lo possono permettere – quelli dei tanti quartieri come il mio – staranno dinanzi al tv color o per strada o avranno cose offerte loro grazie alla generosa azione del volontariato. Alla faccia dell’idea liberale di scuola di stato e alla stessa idea liberale di Stato, nato grazie alla Destra storica per ri-equilibrare le disparità e affossata dalla destra stracciona dei nostri giorni. Che ha, però, il merito di avere tolto i veli a ogni falsa coscienza di una sinistra che per interi lustri non ha voluto guardare in faccia e dire parole di verità su questa spaccatura del Paese, beandosi della bella retorica sul tempo pieno per nascondere la nullità dei propri amministratori, la vacuità di un sindacalismo scolastico sempre più dedito al corporativismo e sempre di meno alla scuola, la tragedia di modelli di sottosviluppo che hanno condannato innanzitutto le donne meridionali a una condizione di brutale minorità e che, certo, non sono colpa solo del Cavaliere.