26 febbraio, 2010

Le parole per spiegare gli sgomberi

Con solidarietà e dolore riporto la lettera di queste mie colleghe – che è in continuazione col post precedente, a favore di una scuola che insegni bene e presto le parole. E che sia solidale.

Le maestre scrivono ai loro alunni dopo lo sgombero del campo Rom di Segrate

Ciao Marius, ciao Cristina, Ana, ciao a voi tutti bambini del campo
di Segrate.
Voi non leggerete il nostro saluto sul giornale, perché i vostri genitori non sanno leggere e il giornale non lo comperano. E’ proprio per questo che vi hanno iscritti a scuola e che hanno continuato a mandarvi nonostante la loro vita sia difficilissima, perché sognano di vedervi integrati in questa società, perché sognano un futuro in cui voi siate rispettati e possiate veder riconosciute le vostre capacità e la vostra dignità. Vi fanno studiare perché sognano che almeno voi possiate avere un lavoro, una casa e la fiducia degli altri.
Sappiamo quanto siano stati difficili per voi questi mesi: il freddo, tantissimo, gli sgomberi continui che vi hanno costretti ogni volta a perdere tutto e a dormire all’aperto in attesa che i vostri papà ricostruissero una baracchina, sapendo che le ruspe di lì a poco l’avrebbero di nuovo distrutta insieme a tutto ciò che avete. Le vostre cartelle le abbiamo volute tenere a scuola perché sappiate che vi aspettiamo sempre, e anche perché non volevamo che le ruspe che tra pochi giorni raderanno al suolo le vostre casette facessero scempio del vostro lavoro, pieno di entusiasmo e di fatica. Saremo a scuola ad aspettarvi, verremo a prendervi se non potrete venire, non vi lasceremo soli, né voi né i vostri genitori che abbiamo imparato a stimare e ad apprezzare.
Grazie per essere nostri scolari, per averci insegnato quanta tenacia possa esserci nel voler studiare, grazie ai vostri genitori che vi hanno sempre messi al primo posto e che si sono fidati di noi. I vostri compagni ci chiederanno di voi, molti sapranno già perché ad accompagnarvi non sarà stata la vostra mamma ma la maestra. Che spiegazioni potremo dare loro? E quali potremo dare a voi, che condividete con le vostre classi le regole, l’affetto, la giustizia, la solidarietà: come vi spiegheremo gli sgomberi? Non sappiamo cosa vi spiegheremo, ma di sicuro continueremo ad insegnarvi tante, tante cose, più cose che possiamo, perché domani voi siate in grado di difendervi dall’ingiustizia, perché i vostri figli siano trattati come bambini, non come bambini rom, colpevoli prima ancora di essere nati.
Vi insegneremo mille parole, centomila parole perché nessuno possa più cercare di annientare chi come voi non ha voce. Ora la vostra voce siamo noi, insieme a tantissimi altri maestri, professori, genitori dei vostri compagni, insieme ai volontari che sono con voi da anni e a tanti amici e abitanti della nostra zona.
A presto bambini, a scuola.
Le vostre maestre: Irene Gasparini, Flaviana Robbiati, Stefania Faggi, Ornella Salina, Maria Sciorio, Monica Faccioli.

La foto viene da Scampia ed è di chi rom e... chi no

21 febbraio, 2010

Un appuntamento, please – decidete voi!

E poi insisto ancora sui fondamentali: leggere, capire, scrivere.
Grazie Livia, Francesco, Salvatore, tutti – anche quelli da Daniela. Va bé! Organizzarsi sì allora. Un posto accogliente. Vino e formaggi? (+ il caffè offerto da Fraba). 20 euro min. a testa per mettere su la cosa? Posso prendere il treno. E esserci o il 1 o il 22 marzo. Ci vogliono, secondo me, un disoccupologo, un immigratologo e emigratologo, uno che parla di salute e ambiente, uno di bimbi e ragazzi. Importante è che sullo sfondo ci siano i dati sulla spesa pubblica campana. Altre o diverse proposte sono graditissime. Se si decide il 22 forse si può fare venire qualcuno da fuori. Battage via web e via. Organizzare luogo e dettagli da qui è un po’ difficile, però. Chi se ne occupa?

Poi… ho scritto il seguente articolo su La Stampa, in risposta a una sollecitazione di Paola Mastrocola. Con la quale spesso mi trovo in disaccordo. Non questa volta o non completamente. Uscirà a breve – mi dicono. Parla dell’analfabetismo funzionale. Che è a livelli intollerabili. E’ questione nazionale. Che fa male a tutti ma colpisce di più chi ha di meno. E’ ancor più questione campana: più di un terzo dei nostri ragazzi non finisce la scuola e la metà di tutta la popolazione della nostra regione non capisce quel che legge. Con buona pace della politica. Che anche di questo non parla.

L’altro ieri, su queste pagine, Paola Mastrocola ha ripetuto che bisogna riprendere a imparare bene a scuola la nostra lingua nazionale. E’ proprio così! E lo è tanto più per chi parte con meno. Infatti la conoscenza dell’italiano è la prima arma per emanciparsi e fare meglio dei propri genitori nella vita o per fare strada nel Paese in cui si è venuti a vivere. E la scuola che non insegna bene e presto l’italiano perpetua, più di ogni altra cosa, l’esclusione dalle opportunità.
Non è un tema nuovo. Lo diceva don Milani sessantanni fa. Il professor Tullio De Mauro ne scrive da decenni. L’Unione europea raccomanda la buona conoscenza della lingua come condizione della cittadinanza e della coesione sociale. L’Organizzazione Mondiale della Sanità spiega che è cosa indispensabile per farcela nella vita. Il che significa che saper leggere, capire quel che si legge, scrivere e parlare correttamente non solo ti aiuta a proseguire negli studi, a salvaguardare il tuo posto di lavoro o a trovarne un altro ma anche a difenderti dai soprusi, far valere i tuoi diritti, prevenire e curare malattie, allontanare dipendenze, evitare il carcere, allungare la vita per te e i tuoi figli.
Eppure – dice bene Paola Mastrocola – non si impara più la nostra lingua a scuola. Bisogna iniziare ad urlarlo: è uno scandalo insopportabile. Che va descritto puntigliosamente. Come si fa per le malattie gravi. Le parole non si usano bene e se ne utilizzano sempre di meno. Si legge e si ascolta spesso senza capire: i test invalsi ce lo mostrano con chiarezza. Si scrive per frasi fatte, spesso tratte da stereotipi della tv. Non si conoscono le basi della sintassi. Tanto che le frasi scritte vengono tenute su – si fa per dire! – da parole tuttofare. Così la parola “che” è ormai polivalente: la si trova, indifferentemente, al posto di “a cui”, “di cui”, “in cui” ma anche al posto di “dove” e di “quando”. E’ una questione decisiva. Perché si perde la lingua e si perde la logica, il saper ragionare. Il congiuntivo si è eclissato e muore con esso la capacità di costruire ipotesi. E’ sparito l’uso dei connettivi fondamentali della nostra lingua: “infatti”, “mentre”, “tuttavia”, “sebbene”. E muore l’argomentazione. Non c’è, poi, idea di punteggiatura. E sparisce l’ortografia: le doppie, gli accenti, l’uso della h. O addirittura non si imparano i nostri pochi fonemi: ghe, ghi, che, chi, sce, sci, gli… E pensare che i bambini cinesi, in terza elementare, devono sapere leggere e scrivere almeno 300 ideogrammi, che in Francia si fa il dettato fino al liceo… Mentre il dettato nella nostra scuola primaria è merce rara già dalla seconda classe.
Ma perché? C’è, forse, scritto da qualche parte che la scuola italiana non deve mettere al centro l’apprendimento serio della nostra lingua? Assolutamente no. Anzi. Le indicazioni nazionali – una volta si chiamavano programmi – della nostra scuola di base – materna, primaria e media – insistono proprio sull’Italiano. Sintassi. Grammatica. Lessico. Punteggiatura. In modo dettagliato. E si tratta di norme. Che chi insegna a scuola è tenuto a seguire. Proprio così: pur avendo la libertà di metodo, infatti, si devono garantire alcuni traguardi, che sono irrinunciabili.
Certo, ci sono ragioni antropologiche e storiche che “spiegano” come le regole e i limiti – le grammatiche - siano tristemente spariti da tutta la vita nazionale. Certo, è triste constatare che i tagli alla scuola pubblica colpiscono le scuole primarie del Sud, lì dove c’è meno tempo pieno e più povertà materiale e culturale. Certo, la tv che portava l’italiano ovunque, nel solco della scuola pubblica e gratuita risorgimentale – vi ricordate il maestro Manzi? - è diventata la tv che massacra la nostra lingua.
Ma fa bene Mastrocola a evitare l’analisi e venire alla proposta. Che io condivido: un test prima del biennio delle superiori. Ma perché ciò possa funzionare ci vuole un tempo dedicato a chi è rimasto indietro. E soprattutto ci vuole un altro esame, ben prima. Bisogna ripristinare per tutti – italiani e stranieri – l’esame di quinta elementare. Per salvare l’Italiano è urgente, a dieci anni, una prova vera: dettato, tema, riassunto e test di “uso della lingua”. Perché è a quella età che si consolidano le basi della lingua materna o che si accede con successo a un’altra lingua. Perché la prova spingerà docenti e anche genitori a guardare con altri occhi alle competenze su cui non si transige. E perché è un rito di passaggio, cosa che serve a ogni essere umano che sta crescendo.

20 febbraio, 2010

Vita dei campani. Sotto silenzio


In attesa di capire se davvero ci si può vedere da qualche parte – tra persone che ne hanno voglia - per parlare di cose possibili per migliorare la vita in Campania, vi prego di leggere cosa pensano i medici delle condizioni in cui viviamo. Ché riguarda proprio la nostra vita. Strictu sensu.

Di questo, delle fogne e delle discariche, dell’aspettativa di vita tra le più basse d’Italia e ancor più bassa tra il crescente numero dei poveri e di altre simili amenità – argomenti sconosciuti al circo politico – si può parlare?

09 febbraio, 2010

Incontrarsi da cittadini, almeno una volta

Purtroppo non riescono ad emergere, al momento, elementi di speranza intorno all’avvio della stagione elettorale campana. E’ certamente importante capire quali saranno gli uomini e gli schieramenti. Ma poi ci sono le priorità della vita sociale e civile. E queste sono già relegate in un limbo, altrove dal contendere politico. Così, purtroppo, “nun c’è bisogn’ a zinghera pe’ divinà” e tutto pare già andare nella direzione consueta…

Tra un po' inizierà la ridda dei mostri per un posto in una delle troppe liste, messe su per salvare la pancia e il sottopancia del ceto politico campano; mentre quelli che davvero hanno possibilità di entrare in consiglio regionale avvieranno le pratiche delle promesse, che poi dovranno saldare. Non è qualunquismo il mio. Sono amare constatazioni.
Perché, invece, sarebbe di vitale importanza poter ricominciare a credere nei processi democratici e anche nella possibilità di ridare senso alla rappresentanza. Ma – perché ciò possa avvenire – sarebbe semplicemente normale che le questioni della vita economica e sociale, dell'educazione e del funzionamento della macchina regionale, il nodo del mancato sviluppo e della crescente povertà, non siano cose relegate alle retoriche ma il centro del confronto.
E va pur ricordato – a noi stessi – che questo modo di decidere su chi ci governerà non ha luogo in un mondo che resta fermo. L'Italia è già candidata a restare ai margini delle nuove mappe che, a livello planetario, stanno emergendo da questi anni di impetuosa ridefinizione dello sviluppo, dei mercati, delle conoscenze e del potere. E la Campania - se resta governata con questi metodi e senza neanche la capacità di analizzare la propria reale situazione - è destinata a rendere stabile la sua condizione di periferia della periferia, il fanale di coda della parte debole dell'Italia drammaticamente divisa in due, una terra - ancora una volta - di saccheggio, speculazione senza sviluppo, sciatteria amministrativa, radicamento criminale, disoccupazione e povertà di massa, immigrazione miserabile e emigrazione che riprende, declino culturale.

Ma la gente seria che sa e sa fare e che non ha debiti da pagare con la politica né poltrone da difendere – e ce ne è - quale posizione o proponimento può assumere in questa campagna elettorale? Deve per forza ritirarsi? O deve per forza schierarsi entro questo gioco, così com’è?
E’, forse, ancora possibile almeno dare un segnale di testimonianza. Per esempio: chiamare a raccolta – un sabato mattina - chi intende analizzare “la condizione campana” e raccontare quel che, realisticamente, sarebbe bene o possibile fare e proporre. Con il contributo dei dati e degli argomenti seri e soppesati. Con al centro una domanda: cosa servirebbe oggi alla Campania, cosa servirebbe davvero?
Possiamo provare a proporre almeno un incontro che non serva al candidato ma ai cittadini? In una facoltà universitaria, in un bar, in una sala di municipalità, in una galleria d’arte, in una chiesa sconsacrata? Al centro o a Bagnoli o a Scampia? Insomma: un pubblico dire in un pubblico spazio. Che serva a mostrare l'agenda politica vera, quella che sarebbe urgente e che dovrebbe essere? A cui chiamare un giornalista interessato alla vita e non solo ai soliti inciuci. Magari non di Napoli. Magari una firma. E un’autorità della vita culturale nazionale: uno scrittore, un direttore d’orchestra, uno storico autorevole e pacato…
C’è chi vuol almeno provare a farlo?

La foto è dalla locandina di Concerto, dove si parla di politica, desideri e canagliate.

04 febbraio, 2010

Quale politica ci riguarda?

La vicenda della designazione del candidato contro la destra per le regionali della Campania riguarda molti nudi fatti propri della “sfera separata della politica”. Il fatto che il lungo regno bassoliniano viene colpito a morte e che il colpo che gli viene inferto da Vincenzo De Luca, il quale ha sempre condiviso i medesimi metodi, più "bravo” stavolta nel medesimo gioco. Il fatto che vincitore e sconfitto, fino a prova contraria, hanno sempre considerato la politica come “n’ata cosa”, separata dalla vita e dalla società e riservata agli iniziati e non ai cittadini. Il fatto che questo scacco subito dal vecchio regnante sta suscitando i furibondi e anche patetici colpi di coda da parte di Bassolino e di gran parte del suo notabilato. Il fatto che un’altra parte dello stesso notabilato subito corre sul carro del vincitore, nella migliore tradizione del trasformismo italico e meridionale. E così via. Di tutto ciò racconta, con vera sapienza descrittiva, d.l., che invito a leggere con cura.
Ma per chi vuole una effettiva rinascita della politica, resta il fatto che, nel deserto angosciante lasciatoci dal bassolinismo, bisogna trovare il modo di dare voce e affrontare le questioni vere della vita in Campania. E’ con questo pensiero in testa che ho scritto l’articolo che segue, pubblicato oggi su Repubblica – Napoli.

Così, dopo settimane di attesa per capire chi avrebbe sfidato il candidato del centrodestra Stefano Caldoro per il posto di governatore della Campania, nessuno – tranne il sindaco di Salerno, Vincenzo De Luca – si è presentato alle primarie del Partito democratico. Hanno voglia a lamentarsi i lamentosi. Da che mondo è mondo, quando una squadra non si presenta in campo entro l´ora stabilita, pattuita di comune accordo, perde a tavolino.
Ma la lamentela della squadra che non si è presentata in campo, capeggiata, in questo caso, dal governatore uscente Antonio Bassolino, nel lamentarsi, ha parlato di altri candidati, potenziali, «più unitari». Che, però, o non si sono fatti avanti o si sono ritirati. E, sempre nell'argomentare il proprio lamento, questa squadra ha adombrato che c'è stata un´altra storia da quella che si è vista alla luce del giorno, che c´erano altri giochi in gioco, propri della politica, che è “n'ata cosa”.
Ma i giochi della “politica che è n'ata cosa” vivono, appunto, in altri luoghi, fuori dal cono di luce della vita civile pubblica. E perciò sono giochi che si vincono o si perdono nell´ombra. Inutile, dunque, lamentarsene in pubblico. Può andare bene o può andare male. Molte volte è andata bene a Bassolino, che – va detto senza ironia – è stato un vero maestro della politica come “altra cosa”. Questa volta no.
Così, in questi giorni, accadono le cose che accadono quando perde chi ha sempre vinto, quando si vede la fine di un regno. Così, c´è chi fa notare che “chi di spada ferisce di spada perisce”.
Ci sono i damerini e le damigelle, spesso attempati, che furono vestiti e portati a corte dal vecchio re, che fuggono verso i nuovi lidi e, nel correre via in fretta, cantano a squarciagola le nuove canzoni. Ci sono i perdenti fedeli che fanno a gara a dir male del nuovo arrivato. Tutto già visto, risaputo.
Ma al cittadino che vuole che la cosa pubblica funzioni e che migliori la sua vita – a maggior ragione in un posto d´Europa dove la vita è troppo difficile per troppe persone – resta la domanda: ma la politica deve essere e restare per forza “n'ata cosa”?
In Campania questa è una domanda cruciale. Perché la litania sulla politica come cosa diversa da quello che appare ha accompagnato il “laboratorio campano” per quasi vent'anni. Ed è stata una brutta litania. Perché ha sparso, come il sale su Cartagine, due brutte convinzioni sulla nostra vita civile, togliendoci speranza, voglia di fare parte delle decisioni, capacità di ragionare sul futuro e sulle cose da fare.
La prima: che la politica è separata dalla vita, dalle condizioni e dalle aspirazioni quotidiane delle persone. La seconda: che è appannaggio solo degli “iniziati” e non di tutti i cittadini, i quali non hanno accesso ai luoghi dove si tesse veramente la tela delle decisioni.
Perciò: non basta la fine di un regno. Che pochi rimpiangeranno. C´è da arare un deserto, ricostruire un´idea possibile di politica. Che non può più essere “n´ata cosa”.
A maggior ragione in una regione in cui la povertà riguarda un terzo dei cittadini. In cui 4 ragazzi su 10 non finiscono la scuola e i giovani, ricchi o poveri, scappano via nella misura di 6 ogni mille l´anno. In cui è avvenuta una massiccia de-industrializzazione vent´anni fa e il Pil e il mercato del lavoro sono fermi da allora, senza che vi sia stata una credibile proposta di sviluppo locale. In cui sia stranieri che campani sono sfruttati e va fermata la guerra tra poveri. In cui c´è una potenzialità di innovazione in ogni campo: energia pulita, nuove produzioni, diffusione di saperi, fruizione sostenibile dei territori.
La politica non può più essere una vicenda separata. C´è da riparare le ferite e suscitare speranza. È una cosa che non riguarda uno solo né un ceto staccato e distinto, tenuto assieme sulla base della fedeltà, come è stato nella lunga storia del notabilato meridionale. Riguarda migliaia di cittadini. È questa la sfida.