22 dicembre, 2010

Miserevolezza, pericoli, riscatto

Ieri sulla prima pagina de l’Unità è uscito questo mio articolo, che la redazione ha titolato:

Ragazzi, date una lezione a chi vi minaccia.

La pagina e i commenti sono sul sito de l'Unità.

Mercoledì il Parlamento andrà alla votazione finale sulla legge universitaria. A pochi giorni dal 14 dicembre migliaia di persone di nuovo protesteranno. C'è di che preoccuparsi. Per quel giorno e, ben più in generale, per il clima nel Paese. In particolar modo, per quello tra generazioni che, come per tanti insegnanti, è stata la mia ragione di lavoro e di riflessione per molti anni. Non ho voglia di fare appelli né sermoni o rimbrotti. Perché penso che questo sia il tempo di ragionare, con passione civile. Nel farlo non penso affatto che ci si debba rivolgere solo ai giovani. Penso, invece, che ci si debba rivolgere a tutti e, dunque, a se stessi e agli altri. A tutti i cittadini. Che abbiano quindici, diciotto, venticinque o trenta anni o quaranta o sessanta o ottanta. In questa riflessione comune si deve partire - in primo luogo - dal riconoscere una cosa del tutto evidente, che ha cambiato il paesaggio sociale, politico e umano nel quale siamo chiamati a vivere. E che è questa: noi persone «più grandi» stiamo, oggi, consegnando a chi è nato dopo di noi un'Italia peggiore di quella che abbiamo ricevuto in consegna dai nostri genitori. Peggiore per condizioni materiali e per quantità e qualità delle concrete possibilità di lavoro, di reddito, di studio. Peggiore in termini di accesso ai crediti materiali e spirituali in vista dello sviluppo economico e civile e dell'imprenditorialità umana. Peggiore per quanto riguarda il riconoscimento del merito e la possibilità di fare parte della ricerca delle soluzioni ai problemi della vita comune. Peggiore per presidio delle procedure e delle regole della civile convivenza e per la tenuta di ritualità e occasioni comunitarie. Peggiore in termini di protezione di fronte all'ineguaglianza e alle avversità della vita. Peggiore riguardo al fare fronte alle normali fragilità, difficoltà personali e alla possibilità di commettere errori. Peggiore per estensione - reale e percepita - degli orizzonti di speranza. È nel bel mezzo di questo paesaggio - impoverito, depresso, che crea ansia e rancori quotidiani, paure e rabbia diffuse e persistenti - che questa destra si è rivolta ai giovani chiedendo loro di approvare le nuove norme che li riguardavano e omettendo, tuttavia, di fornire occasioni per confrontarsi nel merito. «Noi facciamo le leggi secondo quanto crediamo perché abbiamo vinto le elezioni. Ma voi leggetele bene e convincetevene. Se non lo fate, vi state facendo strumentalizzare». Così, non è stata neanche considerata la civile possibilità che i destinatari di misure di governo possano essere in disaccordo ma non per questo preda di strumentalizzazioni, che possano essere portatori di osservazioni e proposte importanti o utili, che possano notare incongruenze tra intenzioni e mezzi. Dietro questo vi è un'idea povera - e involutiva in termini democratici - della politica: la politica si esprime e decide secondo i rapporti di forza. Punto. Altre volte la destra ha aggiunto a questo una miserevolezza umana: «Studiate e non manifestate. Pensate all'amore e non ai cortei». Come se fossero cose in contraddizione. Mentre non lo sono mai state. Tale miserevolezza rivela un'assenza di esperienza e curiosità umane che impediscono di pensare che si può, al contempo, studiare e partecipare alle cose pubbliche e che è tanto grande la gioia di stare insieme, parlarsi, cercare comunità, incontrarsi e domandarsi del proprio tempo che viene esaltata la possibilità di amicizia e anche di incontro amoroso. Ma - va pur detto - anche nell'opposizione troppo spesso, al di là di intenzioni o meno, è prevalso il riflesso teso a ricondurre la protesta alla vicenda politica contingente, alle sue esigenze particolari, al suo gergo. Da tutto questo deriva un pensiero, diffuso nelle nuove generazioni, che è legittimo: non siamo rappresentati. E' in questa atmosfera che si manifesterà di nuovo. L'ombra del 14 dicembre peserà. Perché ha svelato tutta la gravità della scena italiana riguardo il rapporto tra generazioni. Tanto che tantissimi hanno sentito di condividere l'esplosione di rabbia anche senza partecipare alle sue azioni. Non si è trattato di provocatori isolati. Non si può rimuovere la forza di una rabbia radicata e diffusa. Però non si può neanche nascondere che le cose sono complicate dal fatto che molti indizi fanno sospettare che qualcuno ha voluto tessere trappole brutte e pericolose. E che a farlo non siano stati né la stragrande maggioranza dei manifestanti né i poliziotti. Tali segni, in questi giorni, vengono purtroppo confermati dall'insistenza su un possibile esito terribile per la giornata di mercoledì prossimo. Si tratta di una profezia urlata. In particolar modo da una componente specifica della destra di governo, che ha una storia politica mai rivisitata, fatta anche di brutte vicende di piazza nella propria giovinezza, rimosse e mai ri-elaborate. Di fronte a questa insistenza su un esito nefasto della prossima protesta acquista ancor maggiore importanza una riflessione su come si manifesterà mercoledì. E diventa ancor più urgente il grande bisogno di smentire una storia italiana che ha spesso depotenziato grandi movimenti, riducendone una parte ai rituali prevedibili dello scontro di piazza e una ben più grande alla mancanza di parola. Questa smentita è forse finalmente a portata di mano. Perché questo movimento sta insegnando a noi - altro che sermoni nostri ai giovani! - una nuova modalità di azione civile. I titoli dei libri davanti ai cortei, il salire sulle gru e sui tetti, il mostrarsi insieme ai monumenti sono stato questo. E, a me come a tanti, è venuto alla mente Gandhi. È lì che vanno trovati i modelli di azione potente che servono a fare valere le ragioni di chi è escluso dal futuro. E penso quanto sarebbe potente se mercoledì - anziché porsi il problema di forzare la zona rossa del centro di Roma, messa lì ed estesa ad arte per attirare nelle vecchie trappole - si decidesse di sdraiarsi per terra, nella Capitale e in cento altre città. Vestiti di bianco per bloccare tutto, in silenzio. Come suggerito dalle nevicate di questi giorni. Pacifiche e implacabili.

17 dicembre, 2010

Quattordici dicembre e paesaggio politico

Sarò lungo.

La rabbia di una generazione inascoltata – e non i black block – ha mostrato, il 14 dicembre, come nel resto d’Europa, la potenza di una cesura brutale tra generazioni. Mi fa quasi impressione citarmi da solo ma davvero l’avevo appena detto in tv: noi abbiamo lasciato ai nostri figli un paese molto peggiore di quello che avevamo ereditato. E i ragazzi lo sanno. Ogni giorno sulla loro pelle sparisce l’orizzonte di speranza.
Quest’è.

Al contempo c’è la politica. Al netto delle sue cose vecchie e deprimenti – che il  principe de Curtis le sapeva cinquant'anni prima della Gabanelli – mister Berlusconi è stato confermato. Manovre e fibrillazioni continueranno. Continuerà l’altalena tra elezioni, ancora assai probabili, e tirare avanti. Il clima resterà incerto.

Se si andasse a elezioni tuttavia non ci si può dimenticare che vi sono e resteranno sulla scena talune costanti che colorano il nostro paesaggio politico. A destra. E a sinistra. La destra manterrà le tre fondamentali caratteristiche di questi anni. Che sono. Una: obbedire a un capo che non sta bene di testa e ha sempre confuso e fatto confondere questioni generali e anche legittimamente di parte con forti interessi privati e personali. Due: essere capace di tutto e dunque ledere, minacciare, spezzare le procedure e le regole, che sono il sale di ogni assetto civile e di ogni modello politico liberale. Tre: essere, in aggiunta, capace di poco o nulla – che non siano i fatti suoi - in termini realizzativi. In sede storica ci si dovrà pur chiedere com’è che l’Italia, più di altri luoghi, è “laboratorio” di queste cose. Dunque, si tratta di una sorta di summa di varie cose, che sono parti del nostro passato e che oggi stanno dinanzi a noi in modo congiunto e potentissimo. C’è la politica “capace di tutto ma buona a nulla” di montanelliana memoria. C’è la versione odierna della “borghesia sovversiva” di cui parlava già Salvemini. C’è il “cesarismo” specificamente italico di cui parlava Gramsci. Il quale, peraltro, va ben oltre i recinti della destra – con il moltiplicarsi, ovunque, dei partiti personali, dove le dinamiche sono tutte impoverite. Perché sono legate al capo, più e molto più lungamente che nelle altre democrazie occidentali. Legate e perciò ridotte intorno all’essere ognuno in situazione di sudditanza / dipendenza / distanza / vicinanza / interpretazione / fedeltà / tradimento nei riguardi di un solo attore preminente. Con gli aderenti a quella parte che, così, assumono la veste di tifosi e non di partecipanti, di sudditi e non di cittadini. Per troppi aspetti non si sottraggono a ciò Fini, Grillo, Vendola. E ancor più Di Pietro – il cui partito personale, inoltre, ha avuto e mantiene nel tempo la tendenza precipua ad allevare “mariuoli in corpo”… come si è visto. Non fanno parte di questo novero – sia pure con altri difetti – il Pd, la sinistra e, in qualche modo e nonostante Bossi, la Lega.
Tutto questo – la politica per come è e per come si discute in Italia - evidentemente, conosce una variegata e perpetua vicenda quotidiana. Che ci angustia e deprime.
Ma che ha anche una “esistenza separata” dalle vicende concrete della vita sociale e anche individuale di noi cittadini. Vita nella quale il focus è sull’arrivare alla fine del mese, trovare una scuola ok per i figli, ridurre i danni di metropoli e territori divelti e malsani, mantenere il lavoro, pagare il mutuo, capire cosa faranno i figli da grandi quando lo sono già grandi, evitare i cappi di banche o di criminali sulle imprese, ecc. In un’idea minimamente accettabile di politica, i problemi veri sono la cosa di cui parlare e da cui partire per dire, proporre, agire. E sarebbe compito dell’opposizione – di centro, di sinistra, di centro-sinistra – capire, innanzitutto, com’è che queste cose della vita vera – alle quali il governo e il Berlusca non rispondono - non si traducano, però, in “più forza all’opposizione”. Perché il declino del paese, che coinvolge le nostre esistenze e l’orizzonte di speranza non intacca chi ne è il primo responsabile?
Ecco: nel paesaggio politico queste domande non sono centrali. Vengono qui e lì balbettate. O fanno parte del commento dei commentatori. Non si sostanziano in azione politica, in proposta, in innovazione di modi, di idee, di metodi, di persone. Dunque vi è un’involontaria ma forte collusione tra berlusconismo e pochezza dell’opposizione. Beninteso: certe volte appaiono barlumi di cose più sensate. Qualcuno avanza proposte su come affrontare la questione dell’evasione fiscale o della crisi produttiva o della povertà o della scuola. Si entra nel merito. Si argomenta. Ma sono voci inascoltate in mezzo al solito frastuono di fondo, uguale, immancabilmente, a se stesso. La rappresentanza – in senso minimamente credibile – non c’è per noi. Che abbiamo lavoro e reddito. Figurati per i nostri ragazzi.
E la politica è porta a porta e ballarò, trallallero e trallalà. Sì, il solito frastuono: dove prevale lo slogan, la dietrologia, l’ultimo boatos inverificabile, la manovra tattica, lo spot, l’urlo e la sua replica. Così l’antiberlusconismo – anche grazie alla personalizzazione parossistica della nostra politica – è speculare al berlusconismo. Certo, con meno disponibilità di denaro e meno polvere da sparare; ma con poca distanza effettiva dal modello avversato. Il frastuono è lo stesso e purtroppo la critica al berlusconismo, con quei temi e quei toni, spesso si è fatto ed è confuso in esso, una sorta di controcanto stonato. Che noi e ancor più i ragazzi percepiscono come tale.
Per tutti quel che manca è la parola propositiva e le proposte sul da farsi trovate in via partecipativa. E’ questa la questione delle questioni. La parola che cerca cosa fare e quella che accompagna i processi democratici è la parola che è emarginata dalla scena, rara e coperta. Davanti a questa mancanza, come meravigliarsi che esplode la rabbiosa impotenza…

Montedidio

La violenza è, tuttavia, un problema. E’ solo rabbia? C’è da chiederselo. Ci sono tradizioni ideologiche vetuste ed ereditate che riaffiorano? Forse e anche. C’è qualche black block? Forse e anche. Ma la questione centrale è che c’è una generazione (o forse due generazioni e mezzo) che da quasi 4 lustri sta/stanno sulla soglia, in un paese senza avvenire. E che non dà, appunto, parole propositive, non nomina le strade da prendere, non indica possibilità. Non c’è lavoro fisso. Non c’è giusto salario. Non c’è denaro per la scuola del ventunesimo secolo. Non ce ne è per la ricerca. Non avranno pensione. Non possono chiedere un mutuo. Non avranno un prestito per aprire un’attività.

Contro tutto ciò c’è solo impeto rabbioso? No. Altre volte non c’è l’impeto rabbioso. C’è l’immaginario creativo. Migliore. I tetti, le gru, i libri attaccati ad aprire cortei pacifici. Happening di speranza. Sono possibili premesse al passo successivo. Condizione necessaria. Ma non sufficiente. Ci vorrebbe una sorta di gandhismo occidentale – un sapere chiedere e creare in proprio. Zone liberate, fatte di lavoro comunitario e di produzioni sostenibili. Attività che prendono dimensione globale e locale insieme. Rottura dei conservatorismi del credito. Scuole pubbliche non necessariamente statali. Un respiro libertario. Che rompa il duopolio tra statalismo e oppressione della rendita legata ai soliti noti. Difficile, certo. Ma da esplorare, riscoprire, indagare, provare… Qualche segno di questa via, timido, c’è.
Oggi però, ancora prevale, anche nei movimenti,il più semplice; che è il ricadere sotto vecchie modalità. Chiedere soluzioni stataliste. Opporsi senza proporre. Abbracciare, nel dibattere, un rivendicazionismo solito, legato alle retoriche di chi sa porgere le cose con maggior enfasi. O ci sono le sirene e gli ombrelli di chi già è organizzato. Con propri mezzi, gerghi, modi. E vuole tirare tutto dalla propria. Come spesso è già avvenuto. E c’è Grillo che urla e urla contro. E quando propone lo fa senza confrontarsi. O ci sono i proclami di Vendola – dove la parola si fa vezzosa, cripto profetica, simil onirica – per contrapporsi a tutto ciò con il semplice tentativo di lirismo. Che tuttavia, fatica a tentare di dare risposte: cosa si deve fare per.
C’è anche un’altra dimensione – importante – del paesaggio. C’è una scena depressa e bastonata. E si deve poter aspirare a gioie, vie di uscita. Non deliranti ma promettenti sì. E evocare speranza è di grande importanza. Ma accennare a speranza senza co-costruire prospettive realistiche e risposte possibili mi pare un esercizio monco. E’ comprensibile se si tratta di movimenti. In una prima fase. Ma diventa una cosa esiziale quando si tratta di proposta fatta da forze politiche.

Questa situazione fa dire a più d’un commentatore “avvertito” che c’è una riformulazione del rapporto tra politica e vita sociale molto profonda e che richiede impegno di lunga da lena. Impegno da spendere contro la degenerazione della società avuta grazie al berlusconismo o grazie – dicono i più sofisticati – a una osmosi tra berlusconismo e elementi di mutamento profondo già in corso e che si sono potenziati ed estesi a dismisura. E che hanno davvero mutato il paesaggio in termini non solo politici ma antropologici. Ciò è ovviamente vero e molto condivisibile, un buon punto da cui riprendere a ragionare. Ma è importante sapere chi lo afferma. Perché chi lo dice deve essere credibile. Non può esserci il sospetto che lo dice per cooptare, per l’ennesima volta, lo scontento, strumentalizzarlo, portarlo a sé senza mai mutare alcunché di sé. Dunque, non è credibile chi fa queste analisi a partire da una richiesta di adesione a una parte già organizzata, chiusa, strutturata, fatta di linguaggi, gerarchie, ceto stabilizzato, proposta formulata. Com’è la gran parte del Pd, di SeL, dei comunisti, di IdV. Con alcune eccezioni. Che vivono una condizione scomoda.

E’ più credibile, invece, chi analizza i nessi tra berlusconismo e degenerazioni del tessuto sociale profondo avendo abitato un territorio a cavallo tra società e aspirazione a una nuova rappresentanza e a un nuovo metodo della politica. Questo qualcuno è tanti e tante di noi. Che, senza avere aderito alla finta società civile - quella telecomandata dagli apparati - ha cercato nuove vie di rappresentanza e partecipazione effettiva. E che, volta dopo volta, ha vissuto e vive la condizione di impotenza e, al contempo di continua, disperata supplenza dei compiti che spetterebbero alla politica nella sua relazione di ascolto autentico, mediazione e proposta.
Questa parola, forse, può risuonare nel frastuono. E’ ancora possibile. Ma deve avere alcune caratteristiche. Che ne sostengano il tono, l’intensità. La prima è che chi la pronuncia deve essere credibile. Per storia e per capacità. La seconda è che ci vuole non un singolo ma un coro di voci, un ensemble ricco e credibile. La terza è che sia capace di proposte vere: né utopie fumose né un eccesso disperato di tanti piccoli realismi… Lontano dalle ideologie del secolo passato e dal mero compito immediato.
Difficile, difficile. Eppure qualcosa muove e si muove. E c’è da pensare a una prospettiva.

13 dicembre, 2010

La medicina per curare il pessimismo

queste note sono state pubblicate da Repubblica Napoli l'11 dicembre.

Scendo dal treno con i sensi di colpa. Lavoro al Nord, nella città considerata la più vivibile d’Italia. Scambio qualche battuta con i miei compagni di viaggio. Ormai sono tanti e tanti i napoletani che vivono fuori. In crescita costante: 6 per mille ogni anno da un decennio. Ricchi e poveri. E quando ci sveglieremo con i dati del censimento del 2011 scopriremo che la nostra bella città sarà scesa ben sotto il milione di abitanti, per la prima volta dal 1951. Siamo i napoletani che rientrano per il fine settimana. Molte migliaia. Se facessimo una lista elettorale forse conteremmo pure qualcosa. Ma ognuno fa quel che può. In posti diversi e lontani. La prospettiva politica, beninteso in senso proprio - “pensare al governo della nostra città” – c’è. Ma la fiducia nella politica - così com’è - è esilissima. Più e più volte sento ripetere: non voterò. E’ così anche altrove. Ma qui di più. “Il mio è un esilio volontario” – dice una signora. Ma l’appartenenza a Napoli resta formidabilmente forte. Cocciuta. E superbamente orgogliosa. Guai chi ne parla male nei luoghi lontani. Guai a non difendere i colori della squadra. Guai a dismettere la parlata, il tono, l’ironia fatta come facciamo noi.
Rampe Petraio
Ad aspettare il treno ci sono mogli, mariti, fidanzati, fratelli, papà, mamme, amici. Oppure nessuno. A ottobre, con i dati di legambiente sotto braccio, un ragazzo con un sorriso dolce, mentre il treno si avvicinava alla città mi diceva “Guarda che meraviglia di cielo, che città bella abbiamo; eppure anche qui da noi l’aria è irrespirabile”. L’altro giorno stessa scena. Questa volta a citare la classifica delle città meno vivibili è un ragazzo che ha un contratto precarissimo in una piccola città del Nord, un diploma da ragioniere, nessuna prospettiva di carriera. “E’ triste essere via” – dice – “ma i miei amici qui sono più tristi di me. Per com’è la città”. Un coetaneo aggiunge: “E’ della serie: nonsolomonnezza”. “Vorremmo tornare tutti – dice una bella ragazza – ma..” Si ferma. Come sulla soglia di una pena. Guardo di lato. Mi fa male proprio la sospensione della frase. Poi qualcuno lo deve interrompere il silenzio. “Come tornare? E a fare cosa? E con questi qui, che pure cercheranno i voti…” Lo dice a noi e a se stesso un signore di mezza età. Si fa di nuovo silenzio.
Napoli è affranta in modo straziante. Lo sente e lo vede ogni ora chi ci vive. E chi vive fuori lo sente come pena interiore, acuta e cronica insieme. Difendere la nostra condizione quotidiana – in faccia a chi ci chiede come è potuto succedere – è ogni volta un compito davvero arduo.
Si avvicinano le elezioni. Il non voto cresce da tempo. E siamo diventati pessimisti in tanti. Non perché lo siamo noi. Ma perché c’è motivo di esserlo. Eppure c’è da riprendere la battaglia per curarsi. Per curare la città. Non si può demordere. Vanno fatte le proposte. Manutenzione ordinaria. Monnezza. Lavoro e formazione. Criminalità. Smog. Scuole... Molte migliaia di napoletani le saprebbero fare le proposte, lavorando insieme: hanno i dati, hanno le competenze. E’ questo il retroterra per curarsi. Ma per liberare questo retroterra, c’è prima da fare un’altra cosa. Prima di riprendere le proposte e renderle credibili e realistiche – quanto tempo ci vuole, quanto costa, chi lo fa? - ci vuole un momento di verità. Impietoso. E’ un compito ingrato. Ma per poter parlare di cosa va fatto e come, si devono poter fare le domande vere su cosa è successo. Com’è potuto succedere che non c’è la raccolta differenziata? Date, nomi, decisioni prese oppure no. Quanti soldi ci sono nelle casse del comune? Scelte. Colpe esterne e interne. E crude cifre. Quando finiranno i cantieri aperti e come? Date e motivi. Perché non c’è manutenzione delle cose? Procedure, bilanci, scelte.
Non si tratta di trovare il colpevole. Sul quale fare ricadere tutto. Per poi ricominciare come prima. Si tratta di analizzare. Per proporre, subito dopo, le cose possibili da fare. Ma da fare in un altro modo. E magari con altre persone.
Chi è disposto e saprà fare un bilancio politico, insieme alla città? In una città europea normale lo farebbe il sindaco e la giunta uscenti. Dubito che avverrà. Sarebbe bene, allora, che lo facessero i candidati a sindaco. Non per piangersi addosso. Né per ripetere le solite accuse strumentali. Ma per poter ripartire senza fare finta che il danno non ci sia stato.
Ora ci vuole verità. In senso antico e letterale: aletheia, “non nascondimento”. “Cosa è successo? Perché siamo messi così?” – se lo chiedeva una ragazza che lavora lontano, mentre tirava giù la valigia. Ecco. Se si risponde, allora possiamo trovare le cure per Napoli e le molte migliaia di medici curanti che sono necessari. Altrimenti no.

06 dicembre, 2010

Appelli vari, rimozioni e un annuncio (piccolo)

Girano e riceviamo appelli. Tanti e vari.

C’è l’appello che invita alla veglia per il risveglio di Napoli:
mercoledì 15 dicembre, piazza del Plebiscito dalle 19 alle 20,30. Con una candela e tanto silenzio.
Che chiama ad andarci e basta. E aggiunge che è
“….perché non c’è altro da dire , ma c’è il nostro assordante silenzio che non è indifferenza! Il fatalismo di chi pensa che nulla può cambiare, nasconde spesso un vuoto di passioni e di idee che non rispecchia affatto l’indole di molti napoletani che continuano a credere di poter fare ancora qualcosa!”
Non male. Anche la simbologia, infatti, necessita ormai di un cambio..

E c’è l’appello dalle firme importanti – gli intellettuali che vogliono che Napoli abbia una speranza:
Gae Aulenti, Francesco Barbagallo, Roberto Esposito, Giuseppe Galasso, Ernesto Galli Della Loggia, Raffaele La Capria, Mario Martone, Elisabetta Rasy, Aldo Schiavone, Toni Servillo.
Leggete. Fate sapere che ne pensate.

Poi, più “politicamente”, gira l’appello a favore della candidatura di Libero Mancuso a sindaco. Che è una brava persona. Peccato – lo dico con vera tristezza - che l’appello ha un gravissimo difetto. Di rimozione. Infatti non nomina - neanche di striscio! – il fatto che la città è stata governata per ben 4 mandati dal centro-sinistra e che se sta così la nostra parte politica c’entrerà pure qualcosa! Sì, la rimozione... quella cosa lì, per la quale fa troppo dolore e fatica passare per la crudezza delle cose per uscire dalla m….
O no?

Infine un piccolo annuncio:
mercoledì sera, 8 dicembre, alle ore 23,15 sono in Tv su Rai 3, presso la Dandini. A “Parla con me”.

Aggiornamento: dalla Dandini poi sono davvero andato e la trasmissione si può vedere qui, sul sito Rai, che è un po' macchinoso e lento, ma si vede: sono una decina di minuti e iniziano dal min. 9.