29 novembre, 2010

Scuola, al Torino Film Festival

Nel week-end ho visto i documentari sulla scuola che vengono presentati al Film Festival di Torino. E ne ho scritto su La Stampa. Questo è l’articolo che è uscito oggi.

Finalmente la scuola irrompe sulla scena. E smentisce i troppi soloni che la denigrano. Così, ieri al Torino film festival si è visto il bel documentario di Marco Saltarelli: Scuola media. Il mare all’orizzonte e la potenza dell’Ilva che sprigiona fumi fanno da cornice ai ragazzini della scuola media Pirandello di Taranto che si chiedono quali sono i vantaggi e gli svantaggi di un’eventuale chiusura dell’impianto siderurgico. Il grande tema della salvaguardia dell’ambiente e del come conciliarla con l’occupazione si combina con i visi dei ragazzini che si domandano della loro futura salute. E dei padri che perderebbero il lavoro. Cambia scena. E una monaca di clausura, da dietro le sbarre, parla ai ragazzini che sono andati in gita d’istruzione a trovarla. Loro le raccontano che hanno studiato i Promessi Sposi e la monaca di Monza... E lei, con voce ferma, dice loro che devono vivere in modo pieno, come ognuno può fare. E che devono farlo per scelta. E le ragazzine ascoltano. Attente. Poi, quando si allontanano, parlottano tra loro in dialetto. Fitto fitto si dicono le loro cose, le cose degli adolescenti. Di nuovo in classe una professoressa guarda oltre la prima fila e chiama a raccolta – appunto – il gruppo di adolescenti che trama dietro i primi banchi. La scuola, qui come ovunque, è il luogo d’appartenenza potente che riunisce i pari di età. Che hanno in mente e nei discorsi i loro miti, le loro storie, ben più forti delle “cose da imparare” che non hanno più l’ausilio fornito dal senso di colpa. “Vai a scuola per imparare” – ci dicevano i nostri genitori. Erano parole che funzionavano. Sia pure con le normali trasgressioni. Ma è stato eroso il patto implicito che c’era tra i nostri padri e i nostri insegnanti: ora la parola adulta non ha il retroterra di un tempo. Così i docenti devono conquistare ogni metro di attenzione a gran fatica. Convincere il gruppo di adolescenti e poi ciascun suo membro che si sta lì perché conviene imparare è la prima sfida che i docenti si pongono. Il film mostra questo. Ed è una grande faticosa opera quotidiana. Lo rivela la prof. di matematica: “la parola mia vale ogni volta di meno di quella del vostro compagno… com’è possibile?” Lo chiede a loro. E a se stessa. E’ quello che noi adulti che insegniamo ci chiediamo ogni volta. Eppure i docenti sono lì. Ogni giorno lì. Ed è come se ogni volta dicessero: va bene, capiamo, non rinunciate a essere gruppo, a essere ragazzi come siete voi e non come noi. Però fatene qualcosa. Trovate, provate, scoprite in positivo. E così le ragazzine guardano il foglio con il problema di geometria con la prof che, quasi di lato, segue i tentativi che vengono avanti. Il dettato scandito dall’altra prof. rivela una lingua obsoleta. Eppure i ragazzi scrivono, provano a tenere il passo. E le ragazzine suonano mirabilmente i violini. E un ragazzo legge le note. E dalla grammatica che sta sul pentagramma esce musica. Ed è la preside – ora si dice dirigente scolastico – che rivela quel che è davvero al centro di tutte le fatiche: dare grammatiche a ciascuno, grammatiche per leggere il mondo e starci dentro, senza le quali non si saranno cittadini. Perché senza grammatiche non ci sarà scelta.
Domani ci sarà il bellissimo film di Giulia Cederna e Angelo Loy: Una scuola italiana. Sulla scuola d’infanzia Carlo Pisacane di Roma, Tor Pignattara. Dove otto bambini su dieci sono stranieri. Le maestre lavorano con bimbi e mamme intorno al mondo del Mago di Oz e di Dorothy che vi è capitata. Non è solo la metafora della scoperta attraverso l’estraniazione. E’ il laboratorio scelto di una scuola che non solo “tiene botta” ma crea. Perché fa entrare ognuno nel mondo attraverso la porta delle emozioni e delle relazioni autentiche. La recita delle parti del Mago e del Leone, dell’Uomo di paglia e dell’Uomo di latta rapisce maestre e bambini – italiani e siriani, indiani e cinesi, latinoamericani e marocchini, del Bangladesh e del Pakistan. Lo fa mentre preserva le routine che servono a crescere: mangiare insieme, lavarsi le mani, litigare ma dire scusa e riparare, cantare “tanti auguri”, impastare e dipingere, nominare gli animali e i colori, commentare le storie altrui e raccontare le proprie. Civili, competenti, appassionate, le maestre guidono ogni passaggio e si interrogano, con commovente onestà, sui propri errori e sul senso del lavoro. E’ l’Italia migliore. Ma, intanto, fuori dall’edificio, compare - aggressivo quanto patetico - l’urlo dell’odio che chiama a sfasciare tutto questo o l’accanimento imbecille di chi deve mostrare i conflitti in tv, incapace di rispettare l’opera che si sta compiendo.
Ma forse è l’Italiano il protagonista che tiene la trama: la meravigliosa, accogliente lingua franca nella quale tutti i bimbi s’avvicinano alle loro paure, alla loro nuova casa e alla nostalgia per quella lontana, al nominare se stessi e il mondo, a dare ruotine e rito alle sante giornate. Sì, l’Italiano. Che anche le mamme vogliono imparare. Che si può imparare presto e bene. Che serve per andare in prima. In una scuola italiana.

24 novembre, 2010

Remember monnezza?

Terribile mondezza. E sulla monnezza Berlusconi e la destra fanno schifo.
Ma c’è bisogno di un’aggiunta: siamo in pochi a poterlo dire a voce alta.
In pochi.
Perché in pochi abbiamo parlato chiaro e per tempo delle colpe di chi – il centro sinistra – ha amministrato questo territorio. Siamo stati in pochi a dirlo chiaro e ogni volta e a fare proposte sensate.
Lo so che è inelegante quanto inutile dire che uno l’aveva detto e ripetuto. Però si devono o no ricordare le cose? Quelle dette oltre tre anni fa.
O quando in molti segnalammo questo riassunto video della vicenda.
O quando c’erano da mettere insieme diversi segni inconfondibilmente legati entro un’unica brutta scena.
O quando facemmo in tanti, da diverse posizioni, questo appello realistico e forte - e tanto fece l’amministrazione da boicottare ogni anelito di cittadinanza per calcoli di quattro soldi, sindaco compreso! O quando si provava pure a scherzare per parlarne in altro modo.
O quando, stavamo a cercare una risposta civica ai giorni di Pianura, durante i quali la cupa idiozia del governo comunale si capiva, eccome.
O quando, negli stessi giorni, iniziammo l’anno con lo slogan e l’iniziativa dal basso “differenziamoci”.
O quando l’ineffabile D’Alema diceva puttanate in campagna elettorale.
O quando c’era pure il manifesto “monnezza a chi?”.
O quando più di recente, ma prima che ritornasse la monnezza per strada
O quando…
Quante e quante volte e prove e ancora prove di sensata civile militanza positiva. Inascoltata.

05 novembre, 2010

I parassiti

Mentre continua la terribile situazione della monnezza, il centro-sinistra entra nel turbinio delle manovre che tutto sono fuorché ricerca vera di risposte alle questioni che attanagliano la città.


Ma perché accade ciò? Perché prevale - rispetto alla logica dei problemi veri e del come provare a risolverli – questa logica del parlare di oggetti non intelligibili dai cittadini? Perché avviene, invariabilmente e ogni volta, che – quale che sia la condizione della città e quali che siano i tanti problemi disattesi – vi è una strenua tendenza a fare quella cosa lì che è la politica staccata dalla vita?
Ci sono molti motivi, certamente. Ma tra questi c’è che vi è una massa di persone – sufficientemente estesa, ancor più che nel resto dell’Italia – che si guadagna da vivere, appunto, facendo politica. E che non sa fare altro. E che pesa, perciò, sull’agenda, sui toni, sui ritmi, sui modi, sul lessico della politica. Si tratta, cioè, di persone che della politica hanno fatto luogo, motivo e tempo di lavoro variamente remunerato.
E’ una storia antica. Infatti il notabilato, nella tradizione del Sud – quello ben individuato da Giustino Fortunato in avanti – si è spesso composto da una quota parte di persone “capaci di tutto e buone a nulla” - piccoli e medi mestieranti delle pubbliche cose - i quali, tuttavia, avevano una qualche rendita di famiglia che forniva la base più o meno solida di una vita tranquilla. I mantenuti della politica partenopea odierni sono, invece, sempre “incapaci e incombenti” perché sono, per troppa parte, una genia di persone che non hanno mai imparato alcuna arte o che l’hanno fatta male per un certo periodo per poi dismetterla; che non sanno fare nulla e, dunque, vagano, parlano, fomentano, intrigano. Ma – rispetto alla genia analizzata dai meridionalisti classici – costoro non hanno un reddito proprio. E hanno la sola possibilità di procacciarsi reddito personale nella politica stessa. Esclusivamente. Dunque il loro agire si basa sul “creare o ricoprire spazi”, costruire pacchetti elettorali più o meno veri, prefigurare o fabbricare condizioni per un do ut des o, peggio, per ricattare e ottenere. Cosa? Un posto nel quale ottenere un buon reddito facendo politica a ogni ora del giorno. Un posto in un consiglio comunale o di municipalità, un distacco entro un ente qualsivoglia, un comando sindacale; o fare parte dello staff o dei consigli di amministrazione di aziende: municipalizzate, semi-pubbliche, private fortemente sovvenzionate, ecc. Ma – attenzione! – in una posizione laterale e protetta, dove non si deve lavorare ma “fare politica”, appunto. Un’altra cosa. Senza, cioè, dover dare conto ad alcuno che non sia il capocordata dell’appartenenza politica scelta o di un suo sottogruppo.
Queste condizioni esistenziali prive di mission e di responsabilità professionale e civile sono i loro ripari e il loro nutrimento. Si tratta, dunque, di parassiti. In senso proprio, non dispregiativo: “animale o vegetale, che vive e si nutre a spese di un altro essere vivente o ne sfrutta le risorse”. E, infatti, nella nostra vita di ogni giorno ce li troviamo a fianco lì dove noi lavoriamo e dobbiamo dare conto. Essi si individuano per questa loro funzione tacita ma altra. E ci si interroga. E non è facile la com-presenza. Perché percepiamo che noi ne garantiamo la sopravvivenza, senza volerlo. Come accade per ogni rapporto tra parassita e non parassita. E ogni volta verifichiamo, con tristezza e impotenza, che vi è tra l’una e l’altra situazione – entro gli stessi posti - una dimensione, assai complessa, fatta di opportunismi e risentimenti, sudditanze, conflitti. Proprio perché - entro gli stessi ambienti - convivono persone che fanno cose e hanno competenze e persone e parassitari taciti e accettati da troppo tempo.
Così c’è questo esercito parassitario – annidato in cento e cento anfratti e gusci accanto alle nostre vite – che ora sta entrando nella fibrillazione propria della stagione elettorale. E’ una fibrillazione non dettata da cattiveria. E il giudizio etico c’entra poco; e varia di persona in persona, come sempre. E’ una fibrillazione naturale. Perché è questo il tempo in cui questa genia difende le proprie posizioni, ogni individuo a suo modo; o aspira a una più redditizia o blocca la scena per poter agire. Tutto questo ha un risvolto che contribuisce non poco a paralizzare la città. Infatti chi non è parassita e sa fare cose, sa rispondere del proprio operare e, magari, vuole e potrebbe fare politica come effettivo impegno civile, si trova la scena occupata da chi lo impedisce .

E’ tempo che anche queste cose siano oggetto del dibattito pubblico. E forse dobbiamo ricominciare a gridare che – oltre e insieme ai poteri forti  evocati nell’articolo di Sergio e Guido sulla questione dei rifiuti – vi sono i parassiti, a sinistra come a destra, che impediscono la politica. Quella vera. Perché devono sopravvivere a se stessi. Perché altro non sanno e non possono. La ripresa della città è possibile solo se si combatte contro i poteri forti, le corporazioni conservatrici e i parassiti.

03 novembre, 2010

Berlusconi Silvio non aiuta alcun adolescente “bisognoso”

Sabato scorso La Stampa ha pubblicato questo mio editoriale e lo riporto qui di seguito. Ho voluto dire in parole semplici, recepibili da chiunque (sì, anche da chi lo ha forse votato a Berlusconi Silvio), che il mestiere di aiutare i ragazzi è una cosa seria.

Il presidente del Consiglio ha affermato che la sua conoscenza della giovane Ruby è dovuta al fatto che egli aiuta chi ha bisogno. E la stampa e la politica si dividono tra chi crede a questa affermazione e chi pensa che si tratti di tutt’altro.

Ma forse la questione importante è soprattutto un'altra. Sì, perché sono milioni gli italiani che aiutano ragazze e ragazzi che hanno bisogno. Molti lo fanno per lavoro. A salari estremamente contenuti. Insegnanti di scuole in zone terribilmente difficili. Assistenti sociali. Psicologi. Operatori delle Asl e del privato sociale. Educatori nei centri sportivi. E, finite le ore pagate, spesso continuano a lavorare. Perché sanno che Patricia è in pericolo, che Carmine potrebbe mettersi nei guai, che Antonio va guardato a vista altrimenti ricade in errore, che la bimba di pochi mesi di Giovanna ha bisogno di pannolini. Altre volte fanno altri mestieri. Lavorano in banca. Sono imprenditori. Hanno un negozio di scarpe.

Sono operai. Eppure devolvono denari e dedicano tempo e mettono a disposizione conoscenza e attenzione emotiva e operativa. Per una casa famiglia per adolescenti in miseria o in pericolo, per un'attività di animazione di quartiere, per dare continuità a un gruppo scout che resiste in un posto difficile o una comunità per tossicodipendenti, per sostenere degli educatori di strada che raggiungono di notte e di giorno ragazzini che vagano senza un adulto di riferimento, per animare gli oratori e le altre comunità. O sono semplici genitori che fanno parte delle tante forme dell'aiuto reciproco informale che affronta crisi e pericoli della crescita. O sono esperti delle fondazioni che decidono a quali progetti dare i denari, vagliando quanto chi li gestirà saprà usarli con equilibrio e sapienza.

Sono davvero tanti gli italiani che aiutano i ragazzi, italiani e stranieri a evitare le vie difficili da cambiare. O a misurarsi con le difficoltà materiali e con gli incubi, le paure, i falsi miti, la confusione. Spesso aiutano le loro famiglie costruendo complesse misure di sostegno, rispettose degli equilibri emotivi e del diritto. Altre volte provano a ridurre i danni dell’assenza di famiglie, con l'affido o con ore e giorni di tempo dedicato. Spesso passano parte delle loro vacanze con le giovani persone povere o in difficoltà. E - per fare bene queste cose - si aggiornano sul cosa e il come fare. Studiano. Partecipano a weekend di confronto. Seguono conferenze di psicologi, pedagogisti, giudici minorili, medici. Affrontano una terapia personale o una supervisione di gruppo per evitare errori macroscopici. Vanno all'estero e si confrontano con chi fa le stesse cose altrove.

Sono credenti e laici. Votano a destra quanto al centro e a sinistra. Perché quando si tratta di fare davvero queste cose, le barriere ideologiche cadono. E il confronto, che prevede anche posizioni e indirizzi diversi, si sposta, comunque, sulla comune e difficile riflessione intorno alle cose fatte e ai risultati ottenuti o meno. E ai tanti errori. Il che richiede umiltà. E la fatica di guardarsi dentro e chiedersi: lo sto facendo per i ragazzi o per me? Ogni volta chiedersi. E sorvegliarsi. Perché educare è un mestiere difficile. Ma educare e sostenere chi è giovane e in difficoltà è difficilissimo.

Questo è il grande, laborioso esercito di persone che aiutano davvero i ragazzi che hanno bisogno. E che forse rappresentano la migliore Italia «bipartisan». Chi ne fa parte può pensare bene o male del presidente del Consiglio. Ma nessuno - proprio nessuno - ritiene che regalare gioielli e denaro e vestiti di marca a un'adolescente in difficoltà sia aiutare chi ha bisogno. Perché il solo pensarlo offende, profondamente, gli anni di lavoro, le cose fatte e apprese, lo stesso senso della vita e della relazione tra esseri umani che hanno dato significato al loro impegno.