25 gennaio, 2010

Proposte povere. Per i figli dei poveri

Ho scritto ieri queste cose per l'Unità, non so quando le pubblicherà. Intanto le metto qui.

La destra italiana mostra – in campo educativo – una grande competenza nel proporre soluzioni apparentemente chiare a problemi che si trascinano. Ma ogni volta le propone al ribasso. Povere. E soprattutto tali da consolidare, sempre in peggio, lo stato delle cose. Che, però, intanto, lungo i decenni, andavano sfilacciandosi. Mentre noi guardavamo altrove. Tanto che, forse va finalmente detto che vi è un nesso terribile tra la rimozione prolungata dei problemi educativi del Paese di cui molta parte della sinistra è stata co-responsabile e la mannaia semplificatoria della destra. Un esempio? Il tema del presidio del limite a scuola. Da decenni era del tutto evidente che crescevano comportamenti inaccettabili. Come mantenere le regole, come proporre una scuola sì accogliente ma anche capace di sanzionare quel che non va? Alcuni di noi da molti anni facevano proposte. Invece di mettere note sul registro perché non inventiamo dei cartellini gialli, delle ammonizioni? Con momentanea separazione. Come si fa coi giocatori di hockey. E accompagnate da azioni riparative: pulire, aggiustare oggetti. Simbolicamente forti. Coinvolgendo su ciò le famiglie insieme ai ragazzi, grazie a un patto sottoscritto. Ma spesso – oh quanto spesso – ci si è fatto notare che quella era una deriva autoritaria, che è l’accoglienza quella che conta. Quando è da sempre evidente che accoglienza e regola sono l’una funzione dell’altra. Passano gli anni. La situazione ristagna e peggiora. E arriva una proposta finta ma leggibile: il 5 in condotta di questo governo. Che non ha una dimensione educativa e non risolve certo la questione del come si fa a cambiare i comportamenti distruttivi di Antonio o Lina. Ma, appunto, sembra chiara a una vasta opinione pubblica. E poi è semplice. Non ci fa pensare.Beh, è accaduto di nuovo. Con la proposta di ridurre l’obbligo di andare a scuola e trasferirlo nell’apprendistato. A quindici anni. Proposta che, naturalmente, è rivolta alla fascia più debole della popolazione, quella che non riesce a stare a scuola. E che corrisponde esattamente ai figli dei più poveri. Come dimostrano tutti i dati: Ocse, Istat, Commissione povertà, studi Isfol. E anche seri studi della Banca d’Italia e della Confindustria. Chi le frequenta queste cose, le sa.
I quindicenni più esclusi. Ragazzini che vivono nelle periferie delle città del Nord. E, in numero maggiore, nel Mezzogiorno. Dove gli adolescenti sono abbandonati a se stessi… se non peggio.
E’ evidente che, al Nord, i ragazzini caduti già fuori dall’obbligo – perché si assentano, perché vengono bocciati – andranno prima a lavorare. E che si moltiplicheranno due situazioni. La prima è che entrano nel lavoro vivo – nelle fabbriche, in agricoltura, nell’edilizia - ragazzini che fan fatica a reggere emotivamente. I quindicenni di oggi non reggono la richiesta dura di ritmi, affidabilità, procedure, gerarchie. La seconda è che, se, invece, reggono, non si muovono più da lì, con quelle limitate mansioni e un salario misero. E a trentanni, poi, non riescono a riqualificarsi. E riproducono povertà per sé e i propri figli. Perché i minimi del sapere di cittadinanza non sono stati consolidati. Perché pure per usare i materiali per montare pezzi o verniciare bisogna sapere un pò di inglese. Perché il computer è ovunque ormai, tranne che nella soglia più bassa di tutte. Perché non è vero che le aziende costruiscono formazione per questa fascia di lavoratori. E perché il famoso life long learning è una chimera in questo Paese. Quali agenzie, pubbliche o private, in Italia, prendono uno che fa il manovale a ventisette anni e lo fa da oltre dieci, gli fanno un bilancio di competenza, gli propongono di riqualificarsi e magari – come, invece, avviene altrove in Europa – gli diminuiscono l’orario mantenendo il salario e gli pagano ore per ri-imparare?E al Sud – dove non funziona né la formazione professionale né l’apprendistato legale? Nella migliore delle ipotesi il quindicenne riceverà il viatico legale per fare quello che già fa. Cioè lavorare al nero – 80 euro a settimana – nelle fabbrichette con pochissimo know how, vendere per le case, pulire scale, fare solo gli sciampo presso i parrucchieri, smontare gomme o pezzi delle macchine senza saperli poi riparare, portare caffè per gli uffici senza neanche imparare a farli. Per non parlare del portare droga in giro, fare il palo, imparare a sparare…
Ma vogliamo dirla tutta? Queste fasce precocemente diseredate – sono ben più dei 126 mila – che, caduti fuori dalla scuola, ora sono candidati a queste prospettive, non li si è visti annaspare a scuola da decenni? Non avevano bisogno di tempo dedicato speciale e aggiuntivo, uno a uno, che superasse questa folle idea dell’uguaglianza, che non sa guardare in faccia la verità delle vite diverse? E le famiglie non potevano avere un premio in denaro se li sostenevano negli studi? Ecco: le proposte operative sulla dispersione scolastica alcuni di noi le facciamo da anni e anni. Ma si trattava di dare cose diverse a persone diverse, come predicava don Milani. E, invece, magari nel nome di don Milani, tanta parte della sinistra ha difeso la scuola com’è, lineare e uniforme, standardizzata. Che non riusciva, però, a conquistare e proteggere proprio chi ne aveva bisogno.
“Marco, perché fai venire a scuola prima e dai la colazione calda a quelli che non ci vogliono venire. Perché dai una paghetta di due euro simbolici al giorno a questi inadempienti all’obbligo? Bisogna dare le cose uguali a tutti”. Così arriva Sacconi: le cose stanno come stanno, è meglio mandarli a lavorare e dirlo chiaro. Semplice, senza pensarci troppo su.
Così. Now I have a very little dream. Ora ho un piccolissimo sogno. Mi piacerebbe parlare di quel che faremmo noi. Roba pratica. Operativa. E non a quanto sono cattivi loro. Non è forse sul merito delle cose che dovrebbe fondarsi l’alternativa di cui si parla? Proporre cose concrete, comprensibili ai cittadini. Che magari qualcuno di noi ha pure provato. Al Paese e magari a qualcuno tra gli avversari. Perché no? In alternativa, appunto, a quel che dice e fa questa destra. Ma temo che, in questo come in altri campi, il mio piccolo sogno rimarrà tale. E più facile parlare di “politica “ – si fa per dire - che di cose da fare per il bene comune.

Le immagini sono tratte dalle scene finali di "A scuola" di Leonardo di Costanzo.

17 gennaio, 2010

Atto d’ufficio

Poiché Aurelio Musi qualche giorno fa, su Repubblica Napoli, aveva parlato del valore politico di una discesa nell’agone elettorale, con finalità civiche, in un contesto, quello campano, che egli definisce post-democratico, ho ritenuto un semplce atto d’ufficio ricordare oggi, sempre su Repubblica Napoli, alcune cose dell’esperienza fatta proprio in tale direzione quattro anni fa.

Ecco qui:
Tornando dall´estero leggo la bella riflessione di Aurelio Musi su Repubblica Napoli dell´8 gennaio. «Mettiamo che un volenteroso cittadino decidesse…». Che dire? Il sottoscritto la sua pazzia la fece. Insieme a molti altri amici. Un ottimo programma. Costruito in modo davvero partecipato. Invito a rileggerlo col senno di poi. Ottimo nel suo slancio di speranza e anche nel suo realismo. Candidature di persone competenti e oneste. Che però portavano solo voti liberi. Cosa successe? Mille errori miei e nostri, certo. Peraltro parte della partita che scegliemmo: fare, appunto, politica con senso davvero civico. E pubblicamente analizzati. Ma davvero veniali, oggi lo si può dire. Poi c´è da dire, oggi, con sobrietà… che tra le elezioni politiche che anticiparono di un mese quelle comunali e le comunali stesse la coalizione di centrosinistra aumentò di molto la sua percentuale. Effetto nazionale? Forse. Ma è anche vero che la lista Mastella, in soli 34 giorni, avendo promesso l´indulto, passò da meno del 4 al quasi il 10 per cento in città. E favorì la vittoria della Iervolino al primo turno.
Non ho rimpianti. Ho molti difetti ma sono persona alquanto temperata e restia ai risentimenti. Penso di avere dato un piccolo segnale, serio. Contro la post-democrazia, appunto. Presi ventimila voti. Bei voti. Tra cui anche 4000 disgiunti con voto a me e a lista di centrodestra. Voti di gente libera. In una città blindata in senso post-democratico. Cittadini che non si fecero terrorizzare dalla chiamata alle armi, che fece rientrare nei ranghi, con vari metodi, i 4/5 della “società civile”. Di tali “rientri” mi sono ripromesso di raccontare taluni gustosi episodi… ma dopo il mio ottantesimo compleanno, se campo. In quei giorni, centinaia di persone schierate a sostegno della post-democrazia, dalla compagine di Mastella a Rifondazione, venivano istruite per dire in giro che io favorivo la destra. Faceva parte del gioco. Lo faceva un po´ meno che si aggiungeva che ero pagato dai padroni. Mia moglie ne ride ancora: «Magari», dice scherzando. Ho estinto sei mesi fa il mio debito personale di 7 mila euro. Vivo dello stipendio di insegnante e gli sfizi si pagano. E, in tutto, abbiamo speso – come lista civica “Decidiamo insieme” – 105 mila euro, tutti raccolti da centinaia di piccoli contributi, tutti rendicontati puntualmente a norma di legge.
Voti cercati uno a uno, confrontandosi con tutti a viso aperto, con lealtà e sulle cose da fare. Un volume, una rassegna stampa e i filmati lo testimoniano. Voti che erano chiesti sulla base della logica democratica del doppio turno, che rifiutava l´inciucio a monte della prova elettorale e insisteva sulla proposta di confronto di merito. Ingenuo? Forse. Ma, lo assicuro, consapevolmente. L´educazione alla democrazia ha bisogno di slanci autentici. È stato un sano e consapevole rischio, appunto. E sono contento di averlo fatto. Perché ci siamo divertiti. E perché abbiamo proposto un esercizio civile che è ancora all´ordine del giorno. E per questo ringrazio Aurelio Musi per la sua riflessione. E le persone, anche chi non mi ha votato, sanno, in fondo, il perché di quella lucida follia. Mi fermano per strada. Mi sorridono. E almeno cento cittadini mi hanno fermato solo per dirmi che avevano sospettato che ne avrei tratto qualche vantaggio e che riconoscevano che così non è stato. Possiamo finalmente dirlo? L´abbiamo fatto proprio «un po´ fuori moda, con l´idea di impegno etico-civile, liberato da qualsiasi condizionamento di interesse o di carriera personale…».
E dopo? Al netto di un certo numero, fastidioso, di prevedibili cattive azioni subite da me e altri della lista solo per avere osato la lesa maestà, abbiamo fatto, con soddisfazione, quel che fanno i cittadini onesti che si presentano e perdono le elezioni. Nessuna cooptazione offerta è stata accettata e siamo ritornati al nostro lavoro, continuando a commentare le vicende della città, da cittadini.

14 gennaio, 2010

La morte di Yussuf serva almeno a dire a noi stessi come stanno le cose

Yussuf Errahali, marocchino di 37 anni, è stato trovato morto a Napoli martedì mattina, il 12 gennaio, secondo testimoni un gruppo di persone lo ha buttato nell'acqua di una fontana.

Ecco l’intervista che ho rilasciato a Gimmo Cuomo, Corriere del Mezzogiorno del 14 gennaio, col titolo “Rossi Doria: Napoli ha perso i giovani migliori, ormai è intollerante come le altre città italiane”

Pur rattristato, indignato, il maestro di strada Marco Rossi Doria, ora a Trento per guidare il progetto «Campus» che promuove l’integrazione educativa dei ragazzi italiani e stranieri nella formazione professionale in quell’estremo lembo dell’Italia del Nord, prende atto con realismo di quella che gli appare come una realtà ineluttabile. La gravissima violenza subita nella sua città d’origine da Yussuf Errahali, vittima, se le indagini confermeranno le denunce, di un’atto di intolleranza, di xenofobia, di straordinaria gravità, rappresenterebbe quasi l’esito inevitabile «di una scommessa persa, di una promessa non mantenuta».
A quale promessa si riferisce, professore?

«Parlo della mancata costruzione nella città di una speranza collettiva, che avrebbe dovuto coinvolgere e rendere protagonisti i giovani. Per esser ancora più preciso, chiarisco che mi riferisco al fallimento della cosiddetta città dei bambini. Se le prime testimonianze sulla morte dell’immigrato marocchino trovassero conferma, direi che i protagonisti di quel crimine sono proprio i bambini destinatari di quella promessa, delle promessa della città dei bambini, che ha suscitato una grandissima speranza. Ma che poi, dall’inizio degli anni Novanta ad oggi è stata radicalmente smentita dai fatti, anzi dai fatti mancati».

E evidente che si riferisce a uno dei principali impegni elettorali di Antonio Bassolino, prima sindaco di Napoli e poi governatore della Campania. Quali sarebbero state le omissioni su questo fronte?

«Non ci sono politiche pubbliche, né di solidarietà tra pubblico e privati a sostegno dell’infanzia. Le poche iniziative in atto sono fortemente burocratizzate, lente e non sostenute sotto i profili economico e amministrativo. Non è mai stata costituita una camera di regia tra gli enti locali nonostante le migliaia di appelli in tal senso, un esercito di bravi operatori sociali, formatisi negli anni Novanta, è stato abbandonato al suo destino».

E il risultato?

«È che Napoli è diventata tale e quale al resto d’Italia. Si sono ormai persi il rispetto e la cognizione del limite. Ogni aspetto comunitario che, lungo i secoli, aveva caratterizzato la nostra città, sta rapidamente evaporando».

Prima che città c’era?

«Prima c’era una città dove insieme a tre persone propense ad attaccare briga, a tre teste calde per capirci, c’erano cinque che preferivano evitare, levare l’occasione come si dice volgarmente. Di fronte alla tentazione di infastidire quel poveretto ci sarebbe stato chi avrebbe detto di lasciarlo perdere».

Vuol dire che ora il rapporto tra, tanto per semplificare, buoni e cattivi si è invertito?

«No, peggio. I giovani migliori del centro come della periferia sono emigrati. Sono andati a lavorare a Verona, Reggio Emilia, Parma».

Non immagina alcuna possibilità di inversione di rotta?

«Occorrerebbe una grande politica di cui non si vede l’ombra, nemmeno all’orizzonte. Basta guardare al dibattito sulle prossime regionali e sulle primarie se mai si terranno: si parla di schieramenti, di alleanze, di nomi; mai dei problemi e delle possibili soluzioni per il bene della città e della regione. Ne vedremo delle belle, a ripetizione. In Campania abbiamo la nostra potenziale Rosarno nella valle del Sele. Nel Casertano potrebbe scoppiare un riot interetnico così come nelle nostre grandi periferie urbane. I giovani sono senza istruzione e senza lavoro, il controllo delle droghe non c’è. E chi si oppone a tutto questo?»

Appunto, chi si oppone?

«Le associazioni del privato sociale tengono il carro per la discesa, spesso senza essere pagate per mesi. Le scuole pubbliche fanno quel che possono e le parrocchie pure. In sintesi, la verità nuda e cruda è una sola: un dibattito pubblico sullo stato sociale nella città di Napoli e in Campania non trova spazio. Né a destra, né a sinistra».

Non è una visione troppo disperante la sua?

«Sarà anche disperante. Ma la realtà è proprio questa».