28 febbraio, 2011

B. Silvio contro la scuola. Ora basta!

Si sa, fa sempre così: B. Silvio dice, smentisce ma non smentisce. I bambini che al giardinetto da piccoli si volevano evitare erano quelli che avevano sempre ragione. Lui è così. E ha uno stuolo di servi, però - che gli devono molto - che, al contrario di quanto si fa da bambini quando si è liberi, gli danno ragione.
Non tutti sono servi, per fortuna. E questa è una di quelle volte che ha fatto levare gli scudi da molti lati. Infatti, ha innervosito oltre la cerchia già all’opposizione. Il fatto è che egli è pateticamente intrappolato nel secolo scorso – l’uomo va per gli ottanta – e si è impantanato nelle questione scuola statale – altra scuola. Ma non ha ripassato quanto dice la Costituzione sulla scuola statale. E poi offende gratuitamente i docenti italiani di tutte le tendenze che non fanno ideologia in classe e che provano a trovare unità di intenti con i genitori, non senza difficoltà, visti i modelli educativi in giro, B. Silvio in primis. Inoltre si è mostrato ignaro degli ultimi dieci anni di leggi che equiparano largamente le parificate. Insomma, per raddolcire il vaticano dopo i mesi scorsi, ha fatto lo stantìo pistolotto ideologico e estremista, citando sue frasi del 1994, diciassette anni fa. Ma non convince. E qualche esperto di comunicazione glielo ha fatto notare… da cui la solita marcia indietro.
Tuttavia – nel merito (esiste il merito) - ha detto testualmente che le famiglie e la scuola non sono in accordo e che la colpa è della scuola. Questo è grave davvero. Perché tutto il mondo adulto fa oggi fatica ad educare. E istigare alla divisione è atto di irresponsabilità politica molto seria. Alla quale si deve rispondere con forza.
Perciò, ho aderito all’appello a una mobilitazione, lanciato da L’Unità.

E ho scritto l’articolo che riporto qui sotto, che prova a rispondere nel merito, riferendosi ai problemi reali sul tappeto, oltre gli antichi steccati. Che è apparso oggi sulla prima de La Stampa.

Le palestre della vita
di Marco Rossi-Doria - La Stampa 28 febbraio 2011


Il presidente del consiglio ha affermato che “la scuola pubblica insegna principi contrari a quelli delle famiglie”. Poiché egli è tenuto, nella sua qualità di capo del governo nazionale, a favorire l’unità degli italiani, questa affermazione (seguita dalla rituale smentita) dovrebbe fondarsi sui problemi educativi comuni a tutti gli adulti responsabili. E non lo fa. Inoltre essa appare molto distante dalle questioni educative che sono oggi sul campo.

Gabrio Casati, ministro della destra storica,
che istituì le scuole pubbliche in Italia
Infatti, nell’Italia di ogni giorno, genitori di famiglie unite o separate, docenti delle scuole pubbliche o di quelle private, educatori del privato sociale laico o di quello cattolico, allenatori sportivi, capi-scout, genitori volontari degli oratori o uomini e donne consacrati che assolvono a funzioni educative stanno tutti affrontando, da diversi punti di vista, la crescente, comune difficoltà di una crisi di valori e di modelli che rende davvero faticoso educare.

Vi è stato, infatti – negli ultimi decenni – un mutamento radicale del paesaggio antropologico entro il quale si educa. I modelli adulti – nei media, nella politica, nel mercato, nel costume – stanno mettendo a dura prova, anche di recente, i principi dell’educare. Perché le parole in famiglia e a scuola vengono smentite in modo potente. Lo sa bene chi opera ogni giorno. Lo ha scritto la CEI nel suo prezioso documento dell’anno scorso. E soprattutto lo ripetono i ragazzi, delusi e spaesati.
Ma ancor prima di questo, due possenti mutamenti hanno cambiato la posizione della scuola e la relazione tra scuola e famiglie.

Il primo mutamento riguarda il fatto che, a differenza di oggi, fino a una generazione e mezzo fa, ogni bambino veniva affidato dalla famiglia a un gruppo di altri bambini, coetanei o poco più grandi entro cui provarsi, specchiarsi, riconoscersi. E insieme ai quali si condividevano i tempi ripetuti e i luoghi oltre le mura di casa e anche diversi dalla scuola: quartiere, paese, cortile, rione, piazzetta, condominio, campagna. Era la prima palestra della socialità. Che abituava a funzionare entro una comunità di coetanei regolata intorno al gioco ma anche intorno all’essere progressivamente capaci di… Tanto che ogni nuovo venuto imparava a vivere il riscontro giornaliero “di fare parte di”, le piacevolezze proprie delle relazioni e costruzioni progettuali comuni e anche le sue prove e frustrazioni. Era un sistema accettato di regole, prove e ritualità tra coetanei. Con gli adulti in posizione presente ma distante, non intrusiva. Così, la scuola ha rappresentato, fino a poco fa, la seconda palestra della socialità, ulteriore e diversa dalla prima. Perché era il luogo che ha sì una dimensione sociale ma modificata dal fatto che era deputata a altro rispetto a quella prima socialità e, dunque, regolata per imparare le cose che non si possono imparare a casa o con gli amici. Dunque, la scuola era pienamente riconosciuta dalla famiglia per questa sua specificità e per le leggi, esterne a sé, che la presidiavano, sorvegliate dagli adulti docenti che erano altro dalla famiglia. La quale, però, ne garantiva la funzionalità sulla base di un riconoscimento implicito, tale da delegare funzioni educative.
Il secondo mutamento riguarda il fatto che i confini e le regole, a differenza di oggi, venivano rimarcati dai genitori entro una definizione codificata di ruoli e liturgie di presidio. Le rigidità e gli arbitri potevano essere parti dolorose di questo assetto. Tuttavia il codice implicito era universalmente riconosciuto da una comunità più larga della singola famiglia e ciò la sosteneva nelle funzioni strutturanti e mitigava l’eccesso di soggettività. Era la prima palestra della legge. Che aveva luogo, anche essa, prima della scuola. E che favoriva un insieme graduato di trasferimenti di consegne, attese di comportamenti, riti di passaggio, catene di comando, regole e sanzioni prevedibili. La scuola era in una posizione di continuità anche con questo apprendistato precoce. E poteva contare su di esso per fare valere le proprie regole.

Oggi sono fortemente indeboliti questi fondamentali retroterra di ogni società educante. Tanto che ogni giorno le scuole sia pubbliche che private e le famiglie, insieme, stanno faticosamente lavorando a ritessere la rete educativa adulta comune, entro le mutate condizioni. Il che implica la ricostruzione del patto tra adulti, che da implicito si deve rendere esplicito. Un’opera tanto complessa, lunga, faticosa, delicata quanto irrinunciabile. Che ha bisogno di forte sostegno e di parole e azioni che uniscono e non che dividono.

Istigare alla divisione tra scuole e scuole, tra genitori e genitori, tra scuole e famiglie – come hanno fatto le parole del presidente del consiglio – sono, perciò, un atto di estremismo politico e di irresponsabilità civile che, per il bene di tutti i nostri figli, l’Italia, già fin troppo divisa, non si può né si deve permettere.

24 febbraio, 2011

Game over

Mentre la crisi della monnezza diventa tristemente maggiorenne e continuano gli scandali, mentre Libertà e Giustizia – l’unica entità cittadina che aveva costruito un dibattito pubblico tra i candidati alle primarie del centro-sinistra a Napoli - ricorre al TAR, simbolicamente e assai paradossalmente contro tutti, per l’esito scandaloso delle primarie…
…Accadono due cose.

La prima è che Raffaele Cantone dirà di no all’offerta di candidarsi a sindaco di Napoli per “salvare” il centro sinistra. E avendo anche avuto occasione di scambiare con lui qualche sincera parola, beh, quel che Cantone dice, con pacata, sofferta argomentazione ai giornali, è esattamente quel che pensa.
Cosa faranno nel centro-sinistra? Ranieri davvero farà la lista civica? Si ritornerà sul nome di Cozzolino, contestato ma formalmente ancora il più votato nelle primarie? Ci saranno candidati delle diverse anime (si fa per dire) del centro-sinistra, in lotta tra loro al primo turno, con De Magistris che fa il matador? Si proporrà – come suggerisce Rosetta - una donna (chi tra quelle già note?), la quale a sua volta fingerà di essere il nuovo che avanza?
Anche chi è preso dal lavoro o dal vento che infuria dall’oasi di Kufra fino al nostro mare e non ama più badare a queste cose, può vedere che a Napoli la politica, nel centro-sinistra, si è incartata.
La seconda cosa che accade è che - nel riordino generale dell’iniziativa berlusconiana (troppo facilmente ci si era illusi della fine di un sistema di potere vero) - si torna a parlare della Carfagna  come candidato unitario a sindaco del centro-destra.
Può darsi che non sia vero, che continueranno le divisioni nel centro-destra. Ma se fosse o diventasse vero, sarebbe vittoria certa della destra, come da tempo segnalano tutti i sondaggi.
Game over, dunque; ben di più di quanto già non lo sia.
E, “comunquemente”, qualsiasi candidato di destra oggi vincerebbe a Napoli. Perché ci sono stati quindici anni terribili. E perché regali  - che diano almeno la speranza di una sfida che abbia senso e raccolga le buone forze della città e faccia cambiare musica davvero – questo centro-sinistra partenopeo non li sa neanche pensare. Mentre, invece, le settimane volano.
E allora?
Allora, una volta subìta la terza sconfitta in fila si dovrà almeno parlare di questi anni. E si potrà fare il bilancio vero delle amministrazioni e della storia civile recente della città. Non sarà neanche un’amara consolazione. Sarà solo un compito improrogabile.

23 febbraio, 2011

Riflettere su 150 anni: la scuola e il Mezzogiorno (2)


Sempre a proposito di unità d’Italia e delle molte ombre che conserva in sé, penso che si debba portare ai lettori del nord la riflessione sull’esclusione di massa nel Mezzogiorno. A partire di quella dei bambini e dei giovani.
Così, è apparso ieri su La Stampa in prima pagina questo mio articolo che riporto anche qui:

A 150 anni dall’Unità d’Italia quale è il bilancio riguardo al formare le nuove generazioni? E’ possibile farne oggetto “di riflessione seria e non acritica e di valorizzazione di tutto quel che ci unisce”, come ci ha invitato a fare il Presidente Napolitano?
E’ bene partire dalla scuola. Che è nata con l’Italia unita. Prima c’erano i precettori presso i ricchi. E le scuole strettamente confessionali. E’ merito del regno sabaudo e della destra storica se la scuola fu subito resa pubblica e obbligatoria. E’ stato il regio decreto legislativo 13 novembre 1859, n. 3725 del Regno di Sardegna - noto come legge Casati - entrato in vigore nel 1860 e successivamente esteso a tutta l'Italia che ha dato il via all’alfabetizzazione del paese. Un’opera titanica: l'analfabetismo maschile era al 74% e quello femminile del 84%, con punte del 95% nell'Italia meridionale. Un’opera che è continuata lungo i decenni nelle scuole la mattina e in quelle serali e poi via radio e con i primi anni della televisione pubblica. Un’opera che è stata compiuta all’inizio da maestri, che furono spesso promotori delle grandi culture politiche che hanno forgiato il paese: liberalismo, anarchismo, socialismo, cattolicesimo sociale; e da poche maestre, che diffusero per prime le ragioni del movimento delle donne. Questo esercito civile ha popolato la vita di città e campagne insegnando a milioni di bambini a leggere, scrivere, far di conto, conoscere la storia, le scienze, la geografia. Con i soldi dello Stato. E non più grazie alla pia carità dei fedeli né sotto l’imprimatur sui libri siglati dal Papa.
Dunque, va ricordato che l’unità è stata anche il poter leggere del bambino veneto come di quello calabrese. Che è avvenuto entro un modello di scuola pubblica che ha sempre saputo affiancare lo sviluppo della nostra meravigliosa lingua al rispetto per le lingue locali. E che questo ha prodotto, per oltre un secolo, una faticosa ma costante mobilità sociale.
Ma oggi abbiamo anche il dovere di riconoscere che, dalla fine degli anni settanta del secolo scorso, questa spinta verso il sapere per tutti e verso il superamento della povertà grazie all’istruzione si è arrestata. Tanto che oggi il 20,8 % dei nostri ragazzi non ottiene un diploma di scuola superiore né una formazione professionale compiuta. E si tratta dei figli dei poveri, quelli per i quali la scuola pubblica è nata. Bambini e ragazzi poveri, che sono quasi due milioni, il 18% del totale. Se si guardano, poi, con attenzione questi dati, si vede che essi rivelano una disunità dell’Italia tra nord e sud. Infatti nel sud risiede il 70% dei minori poveri, 1 milione e trecentomila. E mentre la media italiana di chi cade fuori dal sistema di istruzione è 1 su 5, nel sud è quasi 1 su 3. La corrispondenza tra dispersione scolastica e povertà delle famiglie è ovunque di nuovo evidente; ma nel Mezzogiorno ha caratteri macroscopici. E non è solo questione di povertà. Nel sud i bambini hanno enti locali meno capaci di spendere bene per servizi, istruzione, salute, ambiente, sviluppo locale, cultura. Hanno scuole più vecchie, brutte e meno manutenute e sicure. Hanno meno mense, asili nido, tempo pieno, palestre, spazi verdi attrezzati. Conoscono ospedali meno efficienti, minori opportunità di cure preventive e anche una aspettativa di vita un po’ meno lunga. Usufruiscono di trasporti, informazioni e infrastrutture peggiori. Hanno famiglie e comunità che usano banche più care e ancor meno propense a prestare denaro a chi non lo ha già. E la Banca d’Italia ha calcolato che i bambini e ragazzi del Sud hanno un investimento annuo medio pro-capite per l’istruzione – da parte di enti locali, stato, famiglie - di oltre mille euro in meno.
Certamente, intorno all’educare ci sono oggi profondi mutamenti rispetto ai molti decenni dell’unità d’Italia. Mutamenti antropologici sui quale faremmo bene tutti a soffermarci di più e meglio: scuola, famiglie, media.
Ma ci sono anche sfide immediate, compiti urgenti per la tenuta stessa della coesione sociale. Perciò, negli anni a venire, quale che sia la direzione politica del paese e quella di regioni e città, il primo grande banco di prova per le classi dirigenti nazionali e locali è quello del rilancio delle politiche attive per chi fin da bambino è escluso dal sapere e quindi dalle opportunità. Sarebbe, insomma, urgente, a 150 anni dall’unità, poter riparlare di vera politica. E cimentarsi con il come aumentare scuole materne e nidi e rafforzare l’istruzione di base, dando più ore e didattiche migliori a chi parte svantaggiato; come rilanciare il sistema della formazione professionale intorno al sapere fare e anche alle competenze di cittadinanza - saper leggere e scrivere, capire discorsi, seguire procedure logiche; come creare zone di intervento straordinario nelle aree più depresse, che coinvolgano, in progetti ad personam, scuole, imprese, parrocchie, centri sportivi; come rafforzare le ore di alfabetizzazione nell’apprendistato; come offrire una ripresa di istruzione agli adulti che non ne hanno, per acquisire le competenze indispensabili per stare al mondo.
Dal tempo di Cavour, i politici savi dell’Italia unita, il movimento sindacale, gli imprenditori, il pensiero meridionalista hanno saputo superare divisioni, rigidità e interessi di parte quando si sono occupati di queste cose. Con spirito rivolto alla comunità nazionale e a quella locale, in modo concreto, evitando sprechi e concentrandosi sui risultati. E ora di ricominciare.

22 febbraio, 2011

Riflettere su 150 anni: la Libia e il Mezzogiorno (1)


Con i 150 anni dell’unità d’Italia, sarebbe bene poter davvero parlare e riflettere. A trecentosessanta gradi. A partire da cosa è stato il nostro colonialismo. Oggi dinanzi alle stragi di Gheddafi viene, infatti, da riguardare i possibili nessi tra le atrocità italiane in Libia e quelle di Gheddafi ora.

Il riconoscimento dei torti del colonialismo italiano in Libia è stato fatto paradossalmente e tardivamente da Berlusconi con una mano. Mentre con l’altra mano il nostro presidente del consiglio condivideva la preparazione di nuovi lucri del clan di Gheddafi ai danni dei libici. C’è, infatti, da chiedersi se e come e da quando l’amicizia con il dittatore libico abbia significato – oltre all’accesso italiano a petrolio e gas naturale in concorrenza con gran parte dell’Europa, alle enormi commesse di Impregilo, agli interessi comuni dentro a Unicredit e Fiat e alla scoperta del bunga bunga – la co-partecipazione personale diretta agli utili del sistema di potere di Gheddafi.

Flores D’Arcais ha recentemente sottolineato la grande vicinanza del berlusconismo e del premier ai modelli di potere accentrato del mondo odierno (Mubarak, Putin, Gheddafi). Ma nel caso dei legami con il dittatore libico, la riflessione va posta in termini più specifici. I lucri di Gheddafi sono stati accentrati entro un sistema di origine arcaica. Come dimostra - nei suoi studi sulla Libia e sul clan di Gheddafi - John Davis, insigne studioso di antropologia sociale e politica anche del nostro Sud e delle società del Mediterraneo in generale. (Gli eventi consigliano di ri-studiare con molta cura l’antropologia politica contemporanea che ha saputo indagare intorno ai sistemi di potere con chiavi di lettura molteplici, più larghi dell’analisi dei sistemi economici e della politologia).

Nel caso libico il sistema di potere, per quanto fondato nella e sulla tradizione, al contempo, è stato per decenni capace di una modernissima gestione globalizzante del capitale finanziario derivato dal petrolio. Ritenendo, tuttavia, una configurazione accentrata entro la famiglia e il clan tribal-amicale. Un modello assai simile a mediastet e alle successive reti berlusconiane. Un terreno di naturale incontro tra i due. Così come accade, per altro verso con Putin.
E’ una roba su cui pensare davvero, fuori dalla tradizione occidentale dell’esercizio del governo entro la democrazia politica ma anche diverso dal fascismo.
E’ questo potere “addensato” che è alla base della rivolta e della repressione orrenda di queste ore. Perché è un potere che non può permettersi di mollare l’osso, pena la perdita di tutto. Diviene perciò incapace di mediazioni, oltranzista, folle, violentissimo quando messo alle strette…

Questa pista di riflessione evoca un po’ il film Il Caimano, mutatis mutandis. E proietta possibili ombre, sia pur diverse ma non poco inquietanti, sui nostri mesi a venire.
E, continuando intorno ai molti nessi - sotterranei, sorprendenti, sbilenchi – che andrebbero esplorati tra Libia e Italia, colpisce come Angelo Del Boca, il massimo e acutissimo storico italiano del colonialismo feroce dell’italietta in Libia, abbia individuato i precedenti di quel modo violento di dominio coloniale nella guerra dei piemontesi contro il brigantaggio meridionale su cui pare, a 150 anni di distanza, finalmente, si possa ritornare a parlare. Sarebbe ora di ritornare ai testi di Settembrini, Bollati, Nitti, Croce, Fortunato, Galasso, andando un po’ oltre il libro “Terroni”, che, però, è molto letto anche al nord.

18 febbraio, 2011

1 patto per 5 azioni

Una mia sintesi di proposte per un miglioramento del nostro sistema di istruzione e formazione, così in crisi da far quasi piangere. E’ una proposta ispirata al minimo concreto, nel mondo possibile. L’ho inviata alla rivista on line west, per nulla politically correct, che esce in italiano e in inglese.

1. aumentare scuole materne e nidi e rafforzare l’istruzione di base, dando più ore e didattiche migliori a chi parte svantaggiato, a partire dalle aree metropolitane del Sud;

2. puntare su un sistema di formazione professionale sul modello di quello operante in Trentino o Lombardia: un triennio di intenso lavoro intorno al sapere fare, più molte ore ben dedicate alle competenze di cittadinanza, saper leggere e scrivere, capire discorsi, seguire procedure logiche, ecc.;

3. creare task-force nelle aree più depresse, che coinvolgano, in progetti ad personam, scuole, imprese, parrocchie, centri sportivi, ecc.

4. rafforzare le ore di alfabetizzazione nell’apprendistato;

5. offrire un pacchetto di 300 ore annue personalizzate agli adulti under 30 occupati e disoccupati – le persone di fascia debole – per acquisire le competenze minime necessarie per stare al mondo.

16 febbraio, 2011

Quale dono?

Dopo i “passi indietro”  e gli echi della tenzone delle primarie finita com’è finita, forse per una volta il centro-sinistra napoletano, dando in dono (sì, dono!) i soldi delle primarie al Santobono, ha fatto un primo, inconscio, piccolo gesto simbolico utile: dalla politica auto-referenziale al mondo vero…
Tuttavia appare difficile trovare la famosa figura esterna  da donarci e l’empasse di questo mancato dono minaccia di durare ancora.
Poi, però, la scadenza s’avvicinerà. E si vedrà se arriverà questo dono: se il candidato ci sarà e sarà credibile.
Cadrà dal cielo il dono, un po’ come l’euro di ciascuno dei 45 mila dati in dono al Santobono?
Non penso.
E forse la categoria del dono non è proprio quella buona. Vi è in essa una gratuità iniziale. E qui mi pare che non ve ne siano le condizioni.
Sarà mica il caso di reclamarlo questo dono? E, dunque, esigerlo più che attenderlo e farlo, perciò, diventare una cosa che dono non è?
Bisognerà vedere se la nostra città, così affranta, riuscirà a fare questa richiesta, in forme nuove, forti. Ad esigere più che ad attendere.
Molte cose ci dicono che non è facile che questo avvenga. Però, le donne in piazza ci dicono che non è impossibile.
Perciò: forse, il vero dono lo dobbiamo fare noi a noi stessi, reclamando qualcuno che sia capace… Capace, beninteso, non più di fare il capo, il messia, il duce.
Ma di coagulare forze vive, di riunire programma, facce, metodo nuovi. Finalmente in una condizione di reciprocità. Come si conviene al dono.

14 febbraio, 2011

Aria di primavera

In moltissime, come nel resto d’Italia, anche a Napoli le donne sono scese in piazza. Con gli uomini. In posizione di sostegno ma non di co-protagonismo, il che non è poco.


La manifestazione di Napoli ha visto le solite note (le donne del ceto politico o della casta locale che dir si voglia) ma non tanto importanti rispetto a un numero elevatissimo di ottime persone di tutte le età, ci diversi orientamenti, di ogni quartiere e situazione sociale, con molte ragazze. La mia amica Flora mi ha detto che c’erano cose davvero nuove e forti. Ho a lungo guardato la tv. E, al di là della potenza della partecipazione, non mi è parsa una giornata bacchettona né “solita”. C’è stato qualcosa “di più” in termini di numero, intensità, trasversalità tra generazioni e approcci ideali e politici, distanza dalle solite organizzazioni e dalle ragioni di partito, di sindacato, ecc. E non ho visto l’anti-berlusconismo – pur ovviamente e anche giustamente presente – come unica cifra. C’è stata un’aria di responsabilità civile: io torno a muovermi, ché qui c’è da mettere a posto sto paese. Nel mio stare con mia moglie nella piazza di Trento, un po’ spaesato come si è quando si vivono questi passaggi lontano da luoghi e amici cari, ho visto una presenza numerosa per la città e ho avuto la stessa impressione di novità. Le amiche di Venezia, Padova, Milano, Torino, Bologna, Roma dicono la stessa cosa.
Daniela, che era assai perplessa e con la quale ci eravamo scambiati opinioni divergenti, ne ha scritto su the front page con un’intelligente disincanto, che aiuta a non mitizzare (ma suona anche un po’ piccio). Ma io — si sa — penso spesso, testardamente, che il bicchiere va visto mezzo pieno. E, però, ora — messa com’è l’Italia e profonda com’è la depressione diffusa — l’acqua non mi pare che ieri fosse poca. E forse c’è aria di primavera.

13 febbraio, 2011

Napoli è ora di reagire

Le voci e le prese di posizioni intorno alle primarie fallite del Pd paiono sempre più cose lontane dalla città e deprimenti. Speriamo che le cose si mettano meglio.
Intanto venerdì è uscito sia un articolo mio sull'Unità nazionale, titolato "E' tempo di reagire" (e lo è!!), sia un'intervista su Repubblica Napoli su un brutto episodio che riguarda bambini e ragazzi, specchio del disastro in atto...
Riporto qui di seguito l'articolo sull'Unità; qui sotto l'intervista.


In tanti cittadini napoletani c’è vera indignazione per le ultime vicende della politica locale. Ma c’è anche l’amara consapevolezza che sono uno dei troppi portati di una crisi lunghissima del nostro Mezzogiorno. Perciò - mentre resta all’ordine del giorno la penosa questione delle primarie - il Pd fa molto bene a discutere a fondo la politica per il Mezzogiorno. Con cui è tempo di fare davvero i conti. Il che significa dare parola a ciò che è accaduto negli ultimi venti anni: un tracollo del nostro Sud.
Infatti paghiamo decenni di costante de-industrializzazione non contrastata da investimenti innovativi pubblici e privati e da piani strategici di riqualificazione urbana come in altre aree europee e italiane. E’ prevalsa la rendita finanziaria rispetto agli investimenti produttivi. E’ venuto a mancare il sostegno alla fragile rete di piccole e medie imprese. Non è riuscita ad imporsi una cultura della legalità, del merito e della concorrenza mentre l’ambiente è stato rubato al futuro. E si è riproposta, aggravata, la storica questione delle classi dirigenti meridionali. La grande maggioranza del ceto politico meridionale, infatti, ha progressivamente dato luogo - insieme a vaste parti degli apparati pubblici e degli interessi corporativi e speculativi – a una nuova versione dell’antico “blocco” di potere sociale e politico, ora fondato sulla spesa pubblica, sulla rendita finanziaria e anche sugli immensi profitti del malaffare, come mostrano gli scioglimenti coatti degli enti locali, le inchieste giudiziarie, gli studi sull’”intermediazione impropria”. Tale blocco persegue i propri interessi attraverso le clientele elettorali e il sistema dei “pacchetti di voti” controllati entro un reticolato di fedeltà e gerarchie costruito intorno a un sistema di privilegi parassitari. Così, questo ceto si è, progressivamente, fatto “trasversale” alla divisione tra destra e sinistra, travolgendo le aspettative di innovazione e riprendendo pienamente il carattere trasformista del notabilato meridionale entro le nuove condizioni del potere urbano.
Perciò: al di là delle singole vicende, è questo complesso nodo che va oggi spezzato. Si tratta di pensare finalmente a liberare le forze sane del Mezzogiorno. Togliere dall’isolamento la borghesia imprenditoriale. Superare la paralisi dell’azione pubblica imposta dai blocchi di potere locale. Invertire il trend che ha visto la spesa pubblica prima diminuita, parcellizzata e burocratizzata e poi il crescente, violento attacco di un federalismo ingiusto che oggi sta drenando budget pubblici e disponibilità di crediti dal Mezzogiorno. E soprattutto porre – in termini nuovi – il problema dello sviluppo produttivo locale, come base per combattere decenni di disoccupazione, in particolare femminile e giovanile, di monoreddito nelle famiglie, di povertà che oggi riguarda oltre un quarto della popolazione. E si tratta di rimettere in moto la formazione professionale e i legami, oggi inesistenti, tra scuola, ricerca, produzioni e mercati. Tutto questo significa una battaglia campale contro il precariato e il lavoro nero in ogni settore, una iniziativa di civiltà contro tutte le forme di caporalato rurale e urbano semi-schiavistico nei confronti dei lavoratori immigrati, azioni integrate moderne per trasformare le vaste periferie urbane che sono divenute luogo permanente dell’emergenza sociale. E significa la lotta senza quartiere contro le reti della finanza illegale e criminale, sostenute dalle molte mafie armate.
Chi vive a Napoli oggi sente che lamentarsi non basta più. E’ tempo di reagire, fare, trovare vie di uscita. In queste settimane – non solo a Napoli – si nominano i nostri genitori, i nostri nonni. Più spesso del solito. Cosa avrebbero detto, cosa ci consiglierebbero? Nel mio quartiere, una signora anziana che conosco da anni, che ha lavorato una vita come camiciaia, mi ha fermato con quel garbo sapiente che è solo di certi momenti, di certi incontri e mi ha detto: “i vecchi l’hanno passata peggio, ce la faremo anche noi, ma dobbiamo inventarci cosa si deve fare e come”.
Questa come altre voci chiamano ad andare oltre lo sgomento, l’indignazione e la paralisi. E a misurarsi su tre questioni universalmente riconosciute come cruciali: la ripresa del sapere e delle conoscenze applicate, la ripresa delle produzioni e la difesa del nostro ambiente. Vale a Napoli e ovunque. E’ tempo di smettere di farci distrarre da altro e piangerci addosso. E’ tempo di concentrare lo sguardo, la proposta e l’azione su queste cose qui. Come ha fatto Obama nel discorso alla nazione. Come indicato dall’invito di Giorgio Napolitano a concentrarsi sul rilancio dell’economia reale.
Insomma, oggi la politica è chiamata a domandarsi a quali condizioni è possibile la ripresa delle produzioni di beni e servizi a Napoli e nel Sud. Perché senza industria e imprese corrette non c’è futuro. Perché oggi, dopo cinquecento anni, i grandi flussi commerciali hanno ripreso ad attraversare il mediterraneo e Napoli può diventare una città industriale del terzo millennio, che salvaguardi i diritti e sia competitiva nel produrre. È una grande questione nazionale. Napoli salva se stessa se riprende a fabbricare, in modo attento al carattere globale delle produzioni e dei mercati ma anche alla civilizzazione dell’economia che è legata alla qualità della vita: salute, servizi fruibili, apprendimento in tutte le età, difesa e rigenerazione dei luoghi e dei beni collettivi, sanità dell’ambiente. E riconquista del saper fare e del potere vivere in pace per tanti ragazzi e ragazze oggi violentemente esclusi dalla speranza.
La città possiede un sapere ricco e le forze necessarie a questa prospettiva. Ma vanno liberate dalle zavorre culturali e politiche che le stanno soffocando. La sfida di Napoli è questo.

12 febbraio, 2011

Recuperare i freni inibitori

Un'intervista rilasciata a Stella Cervasio, di Repubblica Napoli, intorno all'ennesimo inquietante episodio che riguarda bambini e ragazzi, specchio del disastro in atto.


«Guardiamo agli aspetti positivi di questa vicenda». Marco Rossi-Doria, che ha lavorato a lungo sui ragazzi difficili, coglie del caso dello stupro di Arzano gli aspetti che creano speranze per il futuro. La corrosione dei valori, sì, ma anche un circolo virtuoso che si è messo in moto e ha funzionato salvando la vittima undicenne da un incubo che forse potrebbe anche riuscire a dimenticare. «Vedo del buono – dice l'ex maestro di strada, coautore di uno dei progetti più importanti nella storia della didattica italiana – nel fatto che una bambina possa parlare in famiglia di un fatto doloroso e delicato e trovi comprensione. Che la solidarietà dell'amica non sia venuta meno e abbia coinvolto degli adulti i quali non hanno evitato di intervenire, sventando atti ancora più estremi». «So come lavorano certe sezioni del Tribunale dei Minori. Visto che le brutture in questo mondo esistono e stanno aumentando, dovremmo lodare gli adulti che si sono comportati come tali, nonostante la crisi profonda della città e di una banlieue altrettanto devastata». Ma quali spiegazioni si possono dare a un atteggiamento come quello descritto nell'ordinanza del gip? «Emerge in tutt'Italia che l'età della violenza si abbassa, sparisce la preadolescenza e si scimmiottano i comportamenti imperanti e distruttori, privi di freni inibitori. I modelli si stanno sfaldando, brutture come queste possono verificarsi». Un recupero, una riabilitazione sono possibili? «Si auspica che la ragazza possa fare un persorso nel quale sia aiutata. Anche i ragazzi vanno salvati ma la sanzione dev'essere rigorosa: se le conseguenze del loro gesto venissero annacquate con misure meno severe, cadrebbe la possibilità del loro recupero. È possibile che non avessero esatta coscienza di ciò che stavano commettendo, e la pena severa consentirà din non far saltare più i freni inibitori, spesso minacciati da fattori come l'alcool, la droga e il gruppo. Il problema è che il mondo rappresentato e quello reale non hanno più confini chiari, e l'adolescenza è già di per sé un periodo dove i confini si mescolano. Solo se le conseguenze saranno chiare, questo resterà un episodio chiuso» (s.cer.)

09 febbraio, 2011

Capire di politica

Ieri Claudio Velardi ha fatto una proposta. Articolata. Che si conclude col rifare le primarie. Che mostra senso politico. Finalmente qualcuno che lo mostra, aggiungo. Non sono sospettabile di essere un fan di C. V. Ma egli prova a tenere insieme alcune cose: 45 mila persone che sono andate a votare e vanno rispettate (che facciamo li raggiungiamo al telefono per restituire loro l’euro, dopo aver chiesto tardivamente scusa?), i due contendenti che si devono riconoscere in quanto parti di un tutto, l’assenza del famoso papa straniero o locale, il quale, poi, annulla quanto fatto ecc., la necessità di un’attivazione per coinvolgere, dato che comunque a maggio si vota.
Difficile da fare. Certo. E le alternative, però, sono più facili?

Dopo di che c’è dell’altro. Ed è sostanziale. Ed è che – insieme a ciò – il centro sinistra dovrebbe davvero interrogarsi su
1 – cosa è successo per arrivare a tanto disastro in quasi venti anni di gestione del potere locale: colpe, sbagli metodologici, legami tra economia e politica, rapporto tra malaffare e rappresentanza, scelte fatte, idea di democrazia e di macchina amministrativa, insomma un vero bilancio pubblico, serrato, serio, sulle cose fatte; quando, come, da chi, perché.
2 – le condizioni per rinascere in quanto città; a partire dalla produzione, dal fabbricare cose qui.

Sì, rifacciamo pure le primarie. Ma parliamo davvero di ciò che è stato e misuriamoci col compito. E che la nuova tenzone tratti di ciò.

Questo è politica. Altrimenti c’è la lagna tra le squadre: colpa tua, no tua. Auguri…

07 febbraio, 2011

Piglio civile

Mentre la monnezza domina le strade della città e riprende la riflessione che giustamente ci perseguita, il pd e il centro-sinistra continuano a balbettare pateticamente, tanto che c’è spazio per ogni intelligente cinismo  o per tentativi in parte fuori dal cerchio più diretto della politica.

Che dire?
C’è solo da dire che si deve ripartire dalla denuncia e dall’impegno civili. Per riscattare, con tutto il tempo e le fatiche necessarie, questi anni terribili. Che recheranno in eterno un nome-simbolo, A. B., distruttore non solo di possibilità politiche ma di speranze civili.
Stringersi intorno ai temi. Proporre azioni. Ricordare il come e perché siamo a questo punto. E il chi lo ha favorito. Non c’è altro da fare. Per forza di cose.
E, dunque, c’è da continuare a fare quello che alcuni di noi hanno fatto.
Un esempio? Il piglio - alla puntata di Presa Diretta su Rai 3 di ieri sera, con un Riccardo Iacona sanamente impietoso - del mio amico Raffaele Lo Giudice di Legambiente. Raffaele che, per chi lo segue con cura, aveva annunciato quel che è avvenuto al percolato per tempo, vari anni fa.
Sì, bisogna voler bene a questo tipo di piglio civile.
E le elezioni?
Ci si penserà meglio se si raggruppano forze con piglio civile e che non si fanno trascinare nei soliti giochetti. Perciò: vengono dopo…

01 febbraio, 2011

Remember July 2009

O della vergogna dei liquami a mare: onta indelebile di un intero ciclo politico

Lo so: è antipatico avere la memoria lunga… Ma vi ricordate il caldissimo luglio 2009 quando raccontavamo che i bimbi del mio quartiere si riparavano dal calore nelle piscine di plastica perché non si potevano più portare sulle spiagge domitiane raggiungibili coi mezzi pubblici perché lì si riempivano di bolle orrende o addirittura di vermi?
E vi ricordate delle bordate odiose contro quelle invenzioni di strada fatte a quei bimbi e alla povera gente dai soliti falsi legalisti perché – dicevano costoro – “occupavano il suolo pubblico”.
Bene… quelle critiche impietose verso i più deboli venivano dai palazzi e dagli amici di una stessa genia politica e culturale, impietosa con i poveri e ossequiosa con chi, intanto, non fece neanche una visita, allora, alla grande cloaca di Cuma.
E al contempo – ora si sa per certissimo - buttava per anni il percolato delle discariche in quel mare, decidendolo a tavolino, attaccando la salute pubblica, infliggendo ai bambini e ragazzi poveri di questa città – ah la città dei bambini!! - le bolle e i vermi …
Beh, eccoli i responsabili politici e morali di quella stagione della vergogna, che ci pesa ancora addosso, di quella onta che è e sarà indelebile… Qui li trovate con i loro nomi e cognomi e i loro atti.
E ancora qui su Repubblica
E qui sul Messaggero
qui sul Roma

Hanno nomi e appartenenze politiche. Sono gli stessi artefici della lunga stagione che ha portato Napoli a essere mal governata da questo brutto centro-sinistra. Che ha, poi, fatto perdere centinaia di migliaia di voti qui e in tutta Italia all’opposizione contribuendo a regalare a Berlusca questo paese; e che ha inevitabilmente aperto l’autostrada alla venuta della peggiore destra alla regione Campania e alla Provincia di Napoli.

Un ciclo politico è finito?
Non credo. Purtroppo.
Ed è forse ora di dirsi – visto come sono andate le primarie, il loro esito ma anche lo stile che lo ha seguito – che così non è, che quel brutto ciclo resiste, che la discontinuità è uno slogano retorico, che il personale, il metodo, i modi della politica di quel ciclo non sta andando via, che – come tanti Mubarak e Berlusca in salsa partenopea – non demorde. E che proverà e riproverà a stare lì in mille guise e con vari travestimenti; e a continuare a soffocarci….

Uscirne – lo ripeto da anni qui e altrove – implica un mutamento radicale di paradigmi, un vero cambio culturale e politico, una cesura dura, netta, implacabile!