27 gennaio, 2011

Cose serie, fatiche politiche. E una segnalazione

Mentre nel mondo continuano a succedere cose serie, anche non lontano da casa nostra e che chiamano a interrogarsi su cosa significa, per il nostro Mezzogiorno, una rivolta di giovani senza futuro, che esplode sulla sponda meridionale del Mar Mediterraneo… e mentre molto seriamente riprende la via crucis monnezza nella ben più prossima cittadina di Quarto…
… Beh, invece qui da noi c’è il solito andazzo dei quaquaraquà – come direbbe il buon principe De Curtis. Che, tuttavia, è ulteriore, perenne indizio delle fatiche di fare buona politica da queste parti.

L’assemblea nazionale del Pd – di cui sono membro – convocata a Napoli per domani e dopodomani aveva all’ordine del giorno le questioni della sicurezza e della lotta alla criminalità come questioni di diritti, anche. E’ un tassello di una maratona, che dura da sei mesi, tesa a mettere a punto il programma di merito, il cosa si farebbe se ci fosse un altro governo, il cosa serve all’Italia. Che, nel bene e nel male, il Pd, anche nell’ultima assemblea tenuta a Varese tenta di fare. Certo, sono cose che non hanno sciolto le confusioni interne ma che certamente danno un numero maggiore di indicazioni di merito rispetto a altri soggetti politici dell’opposizione.

Ma ieri l’assemblea è stata annullata e rimandata su richiesta di Bersan, in seguito alla vicenda napoletana sulla quale ho commentato due giorni fa su l’Unità, ripresa in vari siti e giornali.



Con il casino che è successo nelle ultime quarantotto ore a Napoli, in effetti, intanto bisognerebbe seriamente chiedere scusa; e, solo dopo, si poteva proporre di fare due sole cose. O rimandare e poi si vede. Come si è fatto. E speriamo che ciò porti a un nuovo inizio e a non annullare la parte positiva dell’afflusso alle primarie e i residui di speranza e ri-attivazione politica sana a Napoli. Anche se – detto francamente e visto il clima di forte disillusione – sarà difficile.
Oppure si poteva tenerla l’assemblea, con un momento che l’anticipava, però. Nel quale il segretario nazionale del partito, senza rimozioni né prudenze, veniva giù e faceva un discorso alto sulla difficoltà di fare politica nel Sud, chiedeva ai quattro candidati di rinunciare a ogni pretesa, diceva alla commissione di accertare la verità e chiamava ad una assise napoletana della speranza politica, aperta davvero alla società civile – quella vera - e a un possibile programma civile di rinascita della città. Un approccio che, in ogni caso, potrebbe favorire, anche se lo si fa tra qualche giorno, il rilancio di una candidatura nuova (tutte quelle avute ormai appaiono fatalmente compromesse). Se è questo l’intento e il passaggio necessario per non perdere la città alla destra.
Il Pd può ancora farlo, certo. E speriamo che accada. Va, infatti, recuperato ogni slancio e punita ogni vecchia politica. Ma l’impressione è di grande confusione, di eterno nascondere la gravità dello stato della politica in città e del disastroso conflitto interno al pd e della sua miserevole gestione.

Oggi, però – lo voglio ricordare anche in virtù del tanto lavoro comune fatto con l’Associazione 27 gennaio - è anche il giorno della memoria. La memoria e la sua difficile “tenuta” è tema faticosamente aperto. E, a tale proposito segnalo queste due recensioni al libro Parole chiare, del quale sono co-autore, con un capitolo sulla Risiera di San Saba a Trieste, luogo da me visitato e raccontato.

Le foto della Risiera stavolta sono mie

25 gennaio, 2011

Chiarire subito

Tutta la stampa nazionale sottolinea i molti punti oscuri della vittoria di misura alle primarie di Cozzolino. Oggi è uscito un mio pezzo in prima pagina su l'Unità con cui cerco di capire. Lo riporto qui.




Ieri alle primarie napoletane per il candidato sindaco del centro-sinistra hanno partecipato 44 mila persone. Una cosa immensa. Diecimila in più di quelle che votarono per le primarie di Prodi. Quasi il doppio di Milano.
Faceva freddo. La neve copriva il Vesuvio fin giù. Eppure c’erano file di cittadini pazienti, in ogni seggio e fino a tardi.
C’è – in questo afflusso inatteso – il segno di più cose. Alcune buone. Che dovremmo nutrire con grande cura e costanza. Altre cattive. Che dovremmo guardare in modo radicalmente impietoso. Per mettervi mano e subito.
C’è di buono che una parte dell’elettorato di centro-sinistra si è mobilitato. E lo ha fatto nonostante tutto. Nonostante vi sia una grande delusione per i risultati del governo cittadino. Nonostante il centro-sinistra si sia troppo occupato, negli anni, di contese tra posizioni di rendita non giustificate dal merito e di personalismi esasperati anziché di analisi e di proposte. E nonostante vi sia stato un solo confronto tra i candidati.
Così, una parte dell’elettorato di centro-sinistra è restata a casa, “percossa e inaridita”. Ma un’altra ha sentito che la situazione oggi chiama tutti a un sussulto di impegno. E si è mobilitata sospinta dall’indignazione verso Berlusconi ma anche intorno ai temi veri. Mancanza di lavoro. Nessun sostegno alle famiglie. Attacco al welfare e all’esercito civile che si occupa delle fragilità e delle ingiustizie sociali. Scuole senza mezzi. Cantieri e industrie fermi. Periferie abbandonate. Falso federalismo, che annulla ogni perequazione.
I cittadini di Napoli vivono ancora più degli altri queste cose sulla propria pelle. E la consapevolezza di una condizione che si va facendo intollerabile ha mobilitato le parti sane dei quartieri popolari. Che si erano attivate intorno alla vicenda dei rifiuti o dell’acqua pubblica o del movimento “il welfare non è un lusso”. E una parte di chi si è attivato è andata anche a votare. E, insieme, è andata a votare una parte della Napoli più protetta e impegnata civilmente. E lo ha fatto – lo si sente nel parlare diffuso di queste ore - anche per dare un ultimo segnale: “la pazienza non è infinita, siamo qui ma cambiate registro, cambiate facce, cambiate metodi!”
Ma, purtroppo, queste ore ci stanno rivelando che, nel voto di domenica, c’è stato anche altro: migliaia di persone sono state chiamate a votare perché inquadrate dai mediatori che manovrano i “pacchetti di voti”. I quali portano ai seggi persone che non votano da cittadini. C’è, infatti, nella pieghe dell’esclusione sociale di massa, un esercito potenziale che vota in cambio di promesse e favori o di piccoli tornaconti immediati. E’ triste, ma vale la pena nominarli. Brevi lavori e inserimento in liste di disoccupati ai quali verrà promesso lavoro o corsi di formazione. Piccoli favori e facilitazioni burocratiche. Contatti per il permesso di soggiorno. Giornate pagate per l’affissione di manifesti e il porta a porta. Ma anche la ricarica di un cellulare, il biglietto della partita, un pagamento enel, l’annullamento di una multa, qualche banconota. Chi ha vissuto e lavorato nei quartieri difficili conosce a memoria i gesti, i modi, le regole non scritte di tutto questo. E domenica, purtroppo, le ha riviste all’opera. Ha visto arrivare ai seggi gruppi accompagnati da un capo che chiede, indica, controlla, verifica. Non ovunque. In qualche luogo si è trattato di minoranze. In altri no. In taluni seggi sono stati riversati una quantità di voti alle primarie maggiore dell’insieme del voto al Pd delle ultime regionali.
Così – sullo sfondo di una città sospesa tra faticosa ripresa di impegno e nuova disillusione – questa seconda parte del voto pone una grande questione politica e di etica civile. Di fronte ai ricorsi motivati che sono subito giunti ai garanti, non può durare a lungo la polemica. Il merito del contendere va affrontato. In particolare chi ha vinto – che ricopre ovviamente una speciale responsabilità – non può minimizzare le accuse di irregolarità provenienti da più parti. E deve subito rispondere vicenda per vicenda, seggio per seggio. Lo richiede non solo la sua credibilità di candidato ma quella di tutto lo schieramento di centro-sinistra. Lo chiede l’urgenza dell’innovazione politica a Napoli. Lo chiede – ben più oltre - l’attesa più generale di chi intende battersi contro questa destra, anche fuori da Napoli. Perché ovunque in Italia sentiamo che ciò che rende meno credibile la battaglia alla quale ci stiamo preparando va rimosso. Altrimenti veniamo smentiti in quel che diciamo di essere e di voler fare. E non ce lo possiamo proprio più permettere.

24 gennaio, 2011

Col passato non si riesce proprio a rompere

Ritorno qui dopo qualche settimana di assenza, dovuta soprattutto a un vero imbuto di lavori da terminare. E me ne scuso. Avrei dovuto scrivere di cose importanti. Non solo Berlusca e i suoi molti significati, anche in termini di educazione civile (sic!) ma la Tunisia, l’Albania, cose che ci riguardano eccome, noi di qui, con i giovani senza lavoro né studio…

Ma poi c’è Napoli.

Sabato, prima del voto, ho scritto un articolo per Repubblica Napoli che riporto integralmente qui sotto, titolato: cosa significa rompere col passato. Avevo indicato – entro un quadro di vera desertificazione politica – una piccola possibilità di tenere la speranza aperta, riguardo alla rappresentanza, nel voto a Umberto Ranieri. Ma avevo parlato sostanzialmente del perché dello stato pietoso di vuoto politico nel quale vive da troppo tempo la città.
Questa sostanza, anche molto triste, del mio ragionamento viene drammaticamente confermata dai fatti del voto di domenica. Al di là della vittoria di misura di Cozzolino, al di là anche della vergogna dei brogli o delle promesse di posti in una città disperata o dei voti contro vil denaro – tutte cose avvenute sotto i nostri occhi – le truppe cammellate delle fazioni più conservatrici e chiuse al cambiamento del Pd, fondate su basi di fedeltà ai capuzzielli, proprio come scrivevo, hanno avuto il peso maggiore e imposto il timbro a queste primarie. E ciò nonostante un afflusso molto variegato e anche ricco. Insomma ancora una volta 'a politica – quella cosa lì - con i suoi modi, mostra, appunto, che a Napoli fa fatica a vincere la proposta, il procedere democratico, il rispetto vero per la rappresentanza, lo sguardo teso alla partecipazione che sia autentico, che si interroghi.
I brogli annunciati, denunciati in tempo reale fin da ieri mattina, visti da tanti amici testimoni – che sono stati l’ennesima copia di quel che avvenne per le primarie del pd del 2007, per chi vuole serbare sana memoria  – hanno, inoltre, offeso la testarda partecipazione civile di tanti e tante cittadini. Che nonostante tutto hanno voluto mostrare alla brutta politica della città che cambiare si può. Infatti 44 mila votanti, con tante e tante brave persone in fila ai seggi, hanno raccolto anche la sfida dei tempi, la sfida di cambiare pagina, battere la destra ma cambiando questo centro-sinistra di Napoli. Ma è prevalsa una vittoria del passato, che divide, con in più questa macchia nera, brutta, indelebile. E che rende la divisione nel centro-sinistra una cosa ancor più grave e difficile da gestire di quello che già era.
Nei giorni prossimi rivedremo le brutte polemiche, la conta dei voti, il loro ritiro…
Non ce la facciamo più, è un disco incantato, già sentito. La politica gira a vuoto. E mostra irresponsabilità, pochezza, miserie. Meritiamo altro in Italia e altro a Napoli.
Nonostante un vero sfinimento dovremo reagire. Ma come? C’è tanto da pensare, siamo tornati alla casella di partenza.
Quello che segue è l'articolo su la Repubblica Napoli di sabato 22 gennaio 2011.

Che cosa significa rompere col passato

Domenica le primarie del centro-sinistra stabiliranno chi sarà il candidato sindaco di Napoli.
Da dove partire per decidere se e per chi votare? Dalla constatazione, triste, del vuoto politico in cui questa città vive. E’ un vuoto grandissimo. Che ha quattro cause, tra loro strettamente connesse.
La prima è strutturale e politica insieme. Il Mezzogiorno paga più duramente questa crisi globale. Perché ha tutti gli indicatori economici e sociali ben più in rosso di quelli del nord, che pure sono peggiorati. Risollevarsi da un baratro più profondo richiede mezzi maggiori. Ma le risorse non ci sono e, inoltre, è prevalsa la scelta politica contraria: il centro-destra, sospinto dalla lega, ha regolarmente drenato risorse verso il nord annullando ogni idea perequativa di federalismo. Inoltre, nel farlo, ha impedito qualsiasi valutazione di politica economica che considerasse i riequilibri planetari che stanno, dopo cinquecento anni, riaprendo i flussi di mercato tra occidente e oriente, che attraversano nuovamente il Mediterraneo e potrebbero sollecitare un nuovo sviluppo per il Sud, pensato in modo diverso che in passato.
La seconda è data dalla cultura politica che ha dominato la città. E bene ha fatto, ieri, Ottavio Ragone a ricostruire, con serena severità, questa nostra vicenda. Che, nelle amministrazioni di Napoli, ha visto prevalere le diverse anime della cultura legata alla storia del PCI e ai suoi seguiti. Per ben venticinque anni su trentacinque. Si è trattato di una cultura politica che ha certamente avuto momenti nobili e meriti. Ma che è stata tenacemente centralistica, fondata sul controllo e legata all’idea di capo, di gruppo dirigente chiuso che coopta secondo criteri di fedeltà e non di merito. Una cultura fondata sull’idea di nemico esterno da battere, di spesa pubblica contrapposta all’iniziativa privata salvo quando questa porta con sé fedeltà politica. E sull’idea di pianificazione intesa come gabbia che regola rigidamente e non come ispiratrice dell’azione multiforme negli spazi e nei tempi della città, salvo poi non riuscirci e permettere ogni cosa, senza confronto libero e criteri di valutazione ragionevoli, come, invece, accade altrove nel mondo. Si è trattato di una cultura sostanzialmente conservatrice, che ha sempre privilegiato le scelte dall’alto verso il basso ignorando o boicottando le procedure decisionali basate su pratiche partecipative e deliberazioni diffuse. Che ha ripeuto una concezione di spazio pubblico illiberale e povero. Perché incapace di osservare e sostenere le esperienze che nascono da sole e promettono soluzioni proficue. Perché rivolta alle forze organizzate più che alle aggregazioni intorno a bisogni e esperienze. Perché sospettosa di qualsiasi comunità che privilegi il confronto aperto, l’iniziativa diretta, il fare nel merito, l’azione decentrata. Col tempo, messi ai margini gli esponenti migliori di questa cultura, irrisi e schiacciati volta dopo volta le nuove promesse di altre culture - di sinistra socialista o liberale o autenticamente ecologista o solidaristica o ispirata dal meridionalismo moderno - il cosiddetto personale politico si è chiuso nelle ripicche e negli asti, ha smesso di vedere la città, non ha trovato la via per esprimere altro da se stesso. Questo ha a sua volta confortato ogni compromesso con l’esistente e allevato un piccolo esercito di mestieranti del consenso e delle clientele, lontani da ispirazioni fondate sull’interesse comune, spesso capaci di tutto ma buoni a poco. Con rare eccezioni.
La terza sta nel fallimento dell’amministrazione comunale uscente, che è davanti a tutti i cittadini, senza possibilità di essere smentita; e nell’ulteriore incapacità di analizzarne pubblicamente le ragioni da parte dei responsabili e delle forze politiche.
La quarta causa sta nella pochezza dell’opposizione di centro-destra, che non ha mai espresso né cultura di governo che non fosse clientelare e improvvisata né vera opposizione ma che ha vivacchiato di piccole co-gestioni e alzate di scudo strumentali. Chi oggi sostiene che l’alternanza naturale tra le parti suggerisce di votare a destra non tiene conto di questa sua evidente nullità.
Questo gigantesco vuoto politico va oggi colmato. Ma ciò implica dire cosa si intende fare e come su lotta alla criminalità, ripresa delle produzioni, gestione differenziata dei rifiuti, valorizzazione delle periferie, dismissione dei baracconi politico-burocratici, sostegno alla partecipazione reale, rilancio dei diritti delle persone e sostegno alle politiche sociali - che sono state attaccate in modo violentissimo, lasciando la città divisa in due ancor più di prima.
Ma la campagna delle primarie ha largamente eluso il cosa fare e come. I programmi non sono stati costruiti in modo partecipativo e sono molto poveri e i candidati si sono confrontati una sola volta. Se paragonata con quella di Milano, è stata davvero poca cosa. Tanto che, in questi mesi, l’avvenimento politico più importante della città è stata la campagna di lotte il “welfare non è un lusso”.
Ma domani si vota. E la domanda - per quelli che intendono comunque votare, perché è un’occasione che in tanti abbiamo voluto – è chi sostenere e perché? La risposta la si deve faticosamente cercare per esclusione. Chi sono, tra i candidati, quelli meno prossimi, per ruolo e storia recenti, alle diverse cause della condizione disastrosa della città e del centro-sinistra? Probabilmente Mancuso e Ranieri. Ma mentre il primo, nel presentarsi, non ha voluto parlare del disastro del centro-sinistra, rivolgendo, lo sguardo esclusivamente all’avversario di destra con il solito adagio del “nemico alle porte”, foriero di tante rimozioni ed errori, il secondo, negli anni, ha almeno avvertito che il disastro era alle porte per cause interne, inascoltato.
Resta un auspicio. Che chiunque vinca, sappia davvero rompere col passato e andare subito al merito delle cose da fare. E sappia farsi aiutare veramente da una squadra ricca di competenze, di nuova cultura politica, di visi, lessico e stili cambiati, di metodo di confronto costante coi cittadini. Una squadra di donne e uomini che sappia innanzitutto ascoltare la città esclusa.