28 aprile, 2011

Endorsement

Questo è l’articolo, uscito su La Repubblica Napoli il giorno di Pasqua, con il quale ho argomentato la mia preferenza per Morcone.

Cinque anni fa mi sono presentato alle primarie, che furono annullate; e dunque a sindaco. In tanti costruimmo una lista civica. Con un programma realizzabile e ancora largamente attuale. In quella prova di democrazia – il doppio turno è questo – fummo accusati di favorire Berlusconi e di altre cose non vere. Fui e fummo sconfitti. Ma – come ebbe a dire la compianta Monica Tavernini – “abbiamo commesso errori, abbiamo detto molte verità, fatto proposte serie, perseguito un metodo di confronto tra appartenenze diverse sul da fare per la città e soprattutto ci siamo divertiti”. Siamo tornati ognuno a fare il proprio mestiere. Senza risentimenti, rivendicazioni o cooptazioni. In una città dove la politica è divenuta una pratica aggressiva e noiosa, che viene usata per molte rendite e con pochi risultati, quella dimensione civica, gaia e attenta all’ascolto dell’altro resta la promessa.
Oggi molte persone che hanno vissuto quella esperienza sostengono uno o l’altro degli attuali candidati. E spesso portano alla presente prova elettorale metodi, elementi di programma, speranze nati allora. C’è da esserne contenti. E per fortuna nessuno più si permette di dire che l’avere al primo turno tanti candidati favorisce chi sa quali terribili pericoli.
Ciò detto, il tempo non è passato bene. Né per la città né per la politica.
La povertà ha i tassi più alti del paese. Siamo ultimi per qualità di vita. Quasi centomila persone sono andate via. Sono le persone meglio preparate, più libere, giovani e fattive. Siamo tornati sotto il milione di abitanti, come sessanta anni fa. Non si è fatto mai il piano strategico promesso per uscire dalla crisi industriale che ebbe inizio quaranta anni fa e un idea di città produttiva non ha trovato la sua via. Il piano regolatore è rimasto un moloch disatteso. Ma mentre i suoi proponimenti hanno languito protetti da un delirio dirigista, è successo che, in mille rivoli incontrollati, piccoli e grandi potenti hanno fatto quel che volevano mentre, specularmente, le esperienze di “rispettoso e creativo uso della città” sono state derise e mortificate. Il decentramento amministrativo non ha avuto strumenti per diventare tale. Salvo creare un esercito di mediatori clientelari in ogni quartiere e di ogni colore. La manutenzione ordinaria semplicemente non esiste e strade, sottosuolo, fogne, spazi pubblici ne sono la prova. Non si è mai voluto credere alla raccolta differenziata. La più parte delle opere pubbliche ristagna da anni. La città dei bambini si è eclissata. Le politiche per il welfare e la scuola si sono trascinate nell’inerzia, fino a fare chiudere le tante buone iniziative. La macchina comunale è almeno venti anni indietro rispetto a una normale città europea. Le società partecipate sono state largamente improduttive mentre hanno foraggiato intere schiere di parassiti. Il budget è a un passo dal dissesto.
E la politica? Mancano venti giorni alle elezioni e ancora si spera – lo dico senza ironia - che il sindaco uscente consegni alla città l’elenco delle cose fatte e non fatte, il pubblico bilancio del proprio operato di dieci anni. Vedremo. Ma, intanto, a nessuno sfugge che viviamo in una città peggiorata come poche volte in tempo di pace. E poiché questo non era un risultato inevitabile, è largamente dovuto alla politica locale. In primis al centro-sinistra che ha governato male. E anche alla destra, che non ha proposto vera alternativa. In aggiunta, la gestione della crisi ha visto costanti trasferimenti di capitali da sud a nord colpendo la nostra economia mentre i forti tagli nei trasferimenti pubblici alle città penalizzano chi sta peggio, evidenziando la volontà di punire il Sud da parte di un governo molto amico della lega e poco di Napoli.
Così andiamo al voto. E sappiamo tutti che ci andiamo menomati nella nostra stessa libertà di scelta a causa di un sistema di consenso anomalo perché condizionato da “pacchi di voti” controllati su base di scambio o peggio. Il che, in una città povera, è parte integrante dell’esclusione sociale e civile, qualcosa di molto pervasivo, che attraversa ogni forza politica.
E’ in questa situazione che ho deciso di sostenere la candidatura a sindaco di Mario Morcone.
Infatti non posso votare Lettieri. Perché la sua candidatura è stata decisa su diretta indicazione di Silvio Berlusconi. Perché il centro-destra è condizionato in tutto dalle politiche del governo più anti-meridionalista della storia e perché - una volta conquistate provincia e regione - non ha mostrato alcun buon risultato né orizzonte di speranza. Inoltre egli è legato alla porzione più opaca del suo schieramento, con la forte influenza di Cosentino. Quando sul palco degli appelli finali saranno fianco a fianco il Berlusconi di questi mesi terribili, Cosentino e Lettieri, sarà difficile non vedere di che si tratta.
E rispetto agli altri candidati – intendo dirlo in positivo - preferisco Morcone perché egli rappresenta una chiara cesura: è un prefetto e ha un profilo tale da promettere una ormai indispensabile sospensione del fallimentare primato delle vicende di partiti e correnti di tanto centro-sinistra locale. Egli sta mostrando in queste settimane di volere stare ancorato alle cose da fare, di comprenderne la complessità, di avere più passione per la costruzione di soluzioni che per le denunce e le promesse. Ha un’evidente propensione – nel profilo umano come nel lessico - alla riparazione più che al grido. E Dio sa quanto ne abbiamo bisogno. Infatti Morcone non evoca il salvatore della patria che tanto danno ha fatto alla nostra città, così incline a farsi intrappolare tra mitizzazione del capo-salvatore e sua trasformazione in capro espiatorio. Se della lunga stagione passata dobbiamo imparare qualcosa, questa è che non abbiamo più bisogno di capi eroici a cui giurare fedeltà e di proclami altisonanti. Morcone ha scelto di mostrarsi per quello che è: un capo cantiere sofisticato, solido, pacato e costante. Con cui confrontarsi sulle cose possibili, con garbo e attenzione al come fare. Dicono questo di lui il suo profilo professionale, i suoi tanti estimatori, il suo stile. E poi i risultati del suo lavoro all’estero, sui rifugiati, sui beni sequestrati al malaffare. E lo dice il modo con il quale sono stati conseguiti: ascolto, gioco di squadra, decisione. E’ intorno a una persona così che, con fatica, si possono rimuovere le nostre macerie e far ripartire la città.

20 aprile, 2011

Le cose più care

Questo editoriale è uscito su L'Unità domenica 17 aprile.

Lunedì mattina la maestra Pina entrerà in classe. Ha cinquantasei anni e nei due terzi del suo tempo di vita ha insegnato a settecento bambini a leggere, scrivere, far di conto, cercare parole sul vocabolario, capire cosa è un atlante. E poi cercare informazioni in rete sul computer, in una sala ricavata in un corridoio, con macchine vecchie di tre generazioni, avendo lei voluto testardamente imparare a sua volta, aiutata dai figli. E ha insegnato la storia patria – così si chiama. Sui libri scelti insieme alle colleghe. Accordandosi sul merito delle diverse opzioni che il libero mercato dei libri offre. Come prescrive la legge. Mai scelti mai per ideologia. Ma perché si capiscono meglio. O sono più idonei a quei bimbi lì. E ha insegnato anche a giocare insieme. Con Nadim che è il più bravo della classe e con Pasquale che ha il padre in carcere e Antonietta che ha un braccio solo. E ha insegnato a cantare. A mettere a posto le cose alla fine della giornata. Ad organizzare la gita fuori città e la visita all’acquario. Mette i bimbi in fila. Vede che si salutino con garbo all’uscita. Si ferma e parla con le mamme del quartiere ogni giorno. Raccoglie le loro lamentele sulla mancanza di lavoro, sui debiti, sulla febbre alta dei fratellini piccoli, sulla nonna incontinente per la quale non ci sono abbastanza pannoloni. Lo fa con serenità, costanza, stile e competenza. Per 1500 euro al mese. Dopo trentacinque anni. Pina è catechista nella parrocchia. Non mi hai voluto dire per chi vota perché “il voto è segreto”. Dice che la scuola pubblica è il luogo salvo del quartiere. Ed è stata contenta quando la CEI a febbraio ha difeso la scuola dagli attacchi del presidente del consiglio. “Il signor B. – così lo chiama – non può parlare né di famiglia né di scuola. Non è titolato. E mi fermo qui. Perché voglio fermarmi, devo fermarmi. Io sono una persona responsabile. Ho fatto della responsabilità il mio lavoro e la mia vita. Sono fatta così. E ora non dobbiamo innervosirci. Dobbiamo solo tenere ancor meglio la scuola. Tutte le scuole. Anche con poche risorse. Lo dobbiamo al rispetto per noi stessi e per l’Italia. Dobbiamo fare come quando si portavano nel rifugio le poche cose più care durante i bombardamenti della guerra – me lo raccontava mia mamma. Dobbiamo aprirle la scuola alle mamme il pomeriggio. Superare le nostre fatiche e andare avanti più forti di prima. Sì, più forti di prima. E lo possiamo fare. E lo sai perché? Perché siamo noi che portiamo il sole in tasca quando usciamo di casa per andare a scuola. Noi!”.
Ci sono un milione di persone – persone! - che, ognuno come può e come sa, fanno come fa Pina. La mia collega da sempre. Con bimbi piccoli o ragazzi grandi. E milioni di papà e mamme e nonni gli consegnano ogni giorno i figli e i nipoti. In una scuola che può e deve migliorare, cambiare. Ma che è “il luogo salvo”. Per tutti e per ciascuno.
Questo è il momento di andare oltre l’indignazione. Il signor B. vuole trascinarci chissà dove. Invece no. Dobbiamo agire da esercito civile, pacifico e capace, quale siamo: responsabilità e tenuta! Ha ragione Pina: “Siamo noi che abbiamo il sole in tasca ogni mattina. Noi!” C’è da lavorare ancor meglio di prima. Guardarsi in faccia. Essere più gentili l’uno con l’altro tra noi che a scuola viviamo. Trovare soluzioni possibili ogni giorno a una emergenza educativa che è grande. E salvare la scuola. Come in tempo di guerra.

12 aprile, 2011

Triste Rosa

In un clima segnato da stanche ripetizioni il sindaco di Napoli, Rosa Iervolino Russo, continua a "parlare in mezzo".

E uscente sì. Ma proprio non riesce a non far acide polemiche. O inutili o dannose.

Una donna della sua età e cultura e esperienza avrebbe potuto uscire di scena con un gesto faticoso ma alto. L’uscita dalle cose è importante. E lei, con la città messa com’è, avrebbe potuto provare, almeno in parte, a fare un sobrio bilancio dei suoi dieci anni. Dati. Cose fatte. Cose non fatte. Ragioni. E se non riconoscere torti, almeno dare voce a qualche santo dubbio o assumersi un pochettino pochettino qualche parte di questa storia che ci pesa addosso. La sua parte – sia chiaro – non quella di tutti. Perché non si pretende che dica “io parlo per tutti e rispondo in solido in quanto sindaco”, da buon capitano del vascello civile. Nell’italietta povera di spirito e angusta nel pensare, queste cose qui non appaiono proprio più all’orizzonte…
Ma evidentemente non ne è capace. Né politicamente – similmente a tutti coloro che sono stati a governare la città. E neanche personalmente. Il che è la cosa più triste. Andarsene così, senza parole pacate e vere. Triste, triste…

09 aprile, 2011

Intervista a Raffaele Del Giudice

Le vicende di ogni giorno esistono e l'immondizia continua a essere il tratto incombente del vivere quotidiano a Napoli. Ho intervistato Raffaele Del Giudice di Legambiente, una persona che da anni sta cercando di capire e di far capire i meccanismi che costringono la città in questa situazione. Lo fa con grande passione, spesso isolato e lo abbiamo visto in Biùtiful Cauntri mentre ci mostrava la Campania delle discariche.

L’intervista è uscita su la Repubblica Napoli, e la riporto qui nella sua forma integrale.


Quando vivi lontano ti perseguitano le ferite della tua città. E, poi, ogni volta che migliaia di tonnellate di immondizia indifferenziata tornano per strada devi spiegare alle persone intorno cosa è successo. E cosa si può fare. Così qualche tempo fa ho visitato gli impianti di valorizzazione dei rifiuti di Brescia. E lì la prima cosa che colpisce non è quel che esce dagli impianti ma cosa ci entra. Perché hanno, a monte e intorno, un’opera poderosa di differenziazione da parte dei cittadini. Che ha sempre inizio con la separazione del secco dall’umido e che vede azioni di smaltimento plurali: carta, alluminio, vetro, plastica ecc. Senza andare lontano: come a Vico Equense, per esempio. E soprattutto l’esatto opposto di quanto tanti dicevano durante la scorsa campagna elettorale, sindaco uscente compreso: “Il termovalorizzatore è la soluzione”. Ricordo pure una mia replica di allora: “Sindaco, prima di esserlo, c’è da differenziare e da togliere l’umido, che è acqua e l’acqua consuma energia per bruciarsi, non ne produce” E la sua risposta, simile a quella di tanti: “Ma dobbiamo fare presto…”. Invece sono passati altri cinque anni.
Ma adesso cosa si farà?”– me lo chiede un ragazzo di Padova, che ama Napoli. Gli rispondo: si deve differenziare, subito. Annuisce. Ma lo vedo poco convinto. Così decido di chiamare il mio amico Raffaele Del Giudice, direttore di Legambiente Campania, quel signore che, nel film-documentario Biùtiful Cauntri, gira come un ossesso a controllare lo stato miserevole delle discariche. Gli chiedo di rispondere alle domande in modo breve e propositivo.

Raffaele, ma è possibile fare in poco tempo il 50 per cento di differenziata a Napoli?
Non è bene chiedersi se è possibile. Perché quel chiederselo produce il lassismo e la delega mal riposta di questi anni, con il miraggio degli inceneritori come soluzione di tutto. E’ obbligatorio differenziare! Anche perché quegli impianti - che piacciano o non piacciano - comunque non possono valorizzare acqua, né creare compost o gas dall’umido né fare carta da carta né bruciare alluminio né plastiche clorurate.

Ma scusa, se è così, se al massimo devono bruciare quel che resta e farne energia, perché ne vogliono fare cinque o sei di inceneritori in Campania?
E’ avvenuto sotto la spinta della Fibe. Sostenuta da tanta politica. E’ una follia. O peggio. Comunque dissuade dal differenziare e de –responsabilizza ognununo di noi dal compito di trattare i nostri residui in quanto problema nostro. E mentre lo fa, non c’è che da cercare ogni volta un altro buco, un fosso dove sversare tutto così com’è. Con il percolato che, poi, fa i danni che fa, nelle falde sottostanti o addirittura buttato a mare aum aum! E mentre si cerca un altro fosso, le strade tornano ciclicamente in emergenza monnezza. E questo al netto dei 200 euro a tonnellata per portarla, poi, via dalla regione ormai satura e del rischio di scontri violenti all’apertura di ogni sito.

Ma Acerra c’è. Che ne facciamo?
Acerra c’è e non c’è. Perché oggi tutti i tecnici riconoscono che ci sono stati gravi difetti di progettazione e che non funge come dovrebbe. E aggiungo che - poiché Napoli è co-promotore di quel impianto - oggi ne dobbiamo esigere il funzionamento vero, delle tre linee!

Ok, esigiamolo… Ma cosa ci deve andare dentro?
La stessa roba che hai visto a Brescia, il residuo al netto della differenziata.

Allora torniamo alla differenziata. Per il 50 per cento presto, in concreto cosa si deve fare?
Intanto diciamolo chiaro: se chi diventa sindaco non attrezza tutta la logistica e non costruisce il moto di partecipazione necessario alla differenziata al 50 percento almeno, beh, va veramente sciolto il consiglio comunale, senza ulteriori alibi. Lo dice la legge e lo si faccia.

Ma se dessero a te questo compito del 50 per cento… Con chi lo fai e come?
Lo faccio con l’ASIA.

Con l’ASIA?
Si lavora con quel che c’è. Ma in modo un po’ diverso. Più che concentrarsi sull’impiantistica, lo sguardo va rivolto al chi, quando e come del differenziare. Comunque, ora lasciamo stare le pecche del passato. La situazione è così cronicamente grave che bisogna insistere su proposte concrete passaggio dopo passaggio.

Quali sono?
1 – fare un sopralluogo quartiere per quartiere, strada per strada, di ciò che esiste e funziona e di cosa manca, con i cittadini; dare un volantino sul piano; fare assemblee di strada e mettere subito contenitori differenziati tarati secondo l’urbanistica.
2 – intanto continuare a togliere l’ingombrante. Si è iniziato questo lavoro ma si può fare molto meglio. Gli elettrodomestici, pena multe salatissime, devono essere ritirati dai negozi che li vendono. Mobili, gomme, materassi, ecc. devono vedere una raccolta di 2 giorni sicuri e fissi ogni mese, zona per zona, con unità mobili. Quando ciò avviene le persone collaborano.
3 – i cartoni e anche la carta vanno raccolti separati e già lo si fa; bisogno farlo meglio, con mezzi dedicati , a partire dai grandi magazzini, dai negozi, dagli enti pubblici. I negozi devono avere uno sgravio in cambio di una funzione mobilitante, con i cittadini.
4 - e a proposito dei grandi centri commerciali dove si recano centinaia di migliaia di persone, va ingiunto subito loro di predisporre isole ecologiche e va fatta una campagna battente perché la roba, differenziata, la si porti lì nel week-end. Ci vuole un accordo subito. Perché le cose che non puzzano si possono tenere una settimana.
5 – così si differenzia l’umido da carta, alluminio, plastica e vetro. Come peraltro già accade da anni in tanti comuni virtuosi campani. Se Napoli non lo fa va commissariata. Punto.

Raffaele, perdonami: nove anni fa ci fu un inizio di differenziata. Nel mio quartiere, i Quartieri Spagnoli, i ragazzi delle scuole, anche del progetto Chance differenziavano. Un numero importante di famiglie aderirono. Poi – per dirla alla loro maniera – videro che “nun è nient o vero”. Ci fu una disillusione e una regressione terribili. Fu una vergogna politica, civile, educativa.
Lo so. Ma oggi si possono mostrare i luoghi – campani! – dove già si riconverte in modo eccellente vetro, alluminio, carta, l’olio esausto delle friggitrici, copertoni, plastica e anche i RAE, i rifiuti elettrici ed elettronici. Li mostriamo. Ci portiamo le scuole, le famiglie. Ci vuole una stagione di azione civile. E poi mostriamo le isole ecologiche che raccolgono le diverse cose. Nelle grandi superficie commerciali, appunto e in punti di raccolta, uno per ogni municipalità. Va smontata la filosofia che sta a monte di quel CDR indifferenziato basato sul mito parossistico degli inceneritori di tutto, che copriva e copre gli affari peggiori. CDR che oggi chiamano STIR – stabilimento triturazione rifiuti, che se non si differenzia è solo un cambiamento di nome. Invece vanno trasformati in centri di compostaggio. Quel che Bertolaso non ha voluto fare. Con spesa contenuta è possibile in sei mesi. Ce ne sono 7, che possono in breve trattare un totale di oltre 100 mila tonnellate.

Poi torneremo sul compostaggio. Ma ora, come si prende raccoglie la differenziata?
Come ovunque, con piccoli mezzi nei quartieri diversi, a giorni fissi a settimana. E, in più, anche alle isole ecologiche nei centri commerciali. Con buste differenziate. Con multe vere. E con la mobilitazione immediata, subito, di personale ASIA, volontari, consiglieri di tutti i partiti del nuovo consiglio comunale e di quelli di municipalità. Ci vuole un movimento per la dignità di Napoli. Un immediato scatto di orgoglio. Proprio in occasione della nuova amministrazione. E chi promuove si fa controllore.

I ragazzi almeno delle superiori potrebbero farne parte promuovente di questo movimento?
Può esserci almeno su questo un patto bipartisan prima del voto che questo giornale chiede a tutti?
Magari!!

Allora torniamo al compost.
Si fa con l’umido e anche l’ammendante, i residui legnosi e il fogliame presi dal verde urbano di Napoli.

Ho capito che vuoi invertire il trend voluto da Bertolaso che non favorì i centri per il compostaggio e riciclare in tal senso gli impianti esistenti di vario tipo. Ma come raccogli l’umido?
Con piccoli mezzi tre volte a settimana, magari anche la domenica, giorno in cui l’umido è maggiore. Inoltre le grandi utenze possono avere micro-impianti modulabili che fanno compost in proprio. Esistono già.

La regione ha presentato il suo nuovo piano. Che ne dici?
Ha cose buone. Ma è anche molto sbilanciato, ancora una volta, sui grandi impianti e sugli annunci di soluzioni generali. Poca attenzione agli impianti di compostaggio che già esistono, sul come metterli in moto, sui dettagli essenziali della raccolta, sulle buone pratiche diffuse. E soprattutto sul movimento civile necessario. Che in ogni posto del mondo serve a differenziare a fare funzionare un ciclo virtuoso dei rifiuti.

Chi guida questo movimento, nel concreto della vita cittadina?
Municipalià, ASIA, associazioni, parrocchie. Coinvolgendo, come tu dici, i giovani, le scuole. I giornali regalano un CD. Le tv locali fanno battage.

Ma ci vuole un accordo solenne e solidale tra tutti e davanti all’Italia che non ce la fa più a vederci così?
Sì.

08 aprile, 2011

La notte bianca della scuola

A Napoli c’è la campagna elettorale per sindaco che si scalda e che chiama in causa anche la nostra trascorsa vicenda di Decidiamo Insieme. Ci tornerò presto.

Ma stasera mi dedicherò, da Milano, ai temi della scuola. In una manifestazione che vuole riaffermare il valore della scuola pubblica italiana, istituzione fondamentale per il futuro del Paese e dei giovani.

Dalle ore 21 live in streaming.

Lutto stretto e vicende d’ogni giorno

Dovremmo stare tutti con un segno di lutto addosso. Un bottoncino nero. Come si usava quando ero bambino.
Perché va manifestata la pena e l’indignazione per le persone lasciate morire nel canale di Sicilia. Quelli buttati a mare stamattina, per  i 250 annegati l'altro giorno, per i 4.500 morti di questi anni nel canale di Sicilia. In gran parte rifugiati eritrei e somali come da anni documenta e racconta Gabriele Del Grande.

Ed è questa cosa qui la più importante. Che rimetterebbe le cose nell’ordine giusto. – se riprendessimo a guardare l’Italia in modo serio. Secondo scienza e coscienza.

Per seguire coscienza e curiosità Diego Bianchi è andato a Manduria, a vedere da vicino la "fuga dei clandestini", per scoprire che lo tsunami umano è fatto di persone, normali, con legittime aspirazioni e voglia di un futuro. Così come normali e ragionevoli sono i carabinieri e perfino i cittadini aspiranti giustizieri.
E su cosa significa concretamente accoglienza e su come questo sia giusto, oltre che "conveniente" segnalo gli interventi di  Alessandro Leogrande  (che sui braccianti stranieri in Puglia ha scritto un bel libro) e di Andrea Stuppini su La voce.


01 aprile, 2011

Ecco fatto ben fatto

Vivo a Trento, dove la popolazione immigrata conta già per un decimo dei residenti ed è ben integrata.
Vi invito a leggere come la Provincia Autonoma, affronta la sua parte del flusso migratorio di queste settimane e di cui si ulula in giro in modo insensato.
Con poche azioni coordinate ed operative alcune parti del nostro Paese sanno fare il loro lavoro senza tanto baccano insulso.

30 marzo, 2011

Nessuno è perfetto: Clara Sereni a Napoli

(SegnalAzioni educative)

Le censure verso la diversità e la malattia mentale limitano la ricerca di risposte vitali, contribuiscono a lasciare nell’isolamento le famiglie colpite, impediscono una dimensione più libera e umana. Anche in questa edizione del 2011 dell’Arte della Felicità, l’associazione Nessuno è perfetto ha trovato un suo spazio specifico di riconoscimento, per provare ad articolare, proprio sullo sfondo del tema della solitudine, un colloquio intimo e pubblico. Un colloquio che si carica di attesa fiduciosa: provare a parlare di tematiche dolorose, generalmente rimosse, per cercare di andare oltre pudori e difese.
La presenza a Napoli di Clara Sereni, nell’incontro organizzato dall’associazione, consente di intrecciare dimensioni diverse. Il senso dell’invito sta nella possibilità di incontrare il rigore della sua scrittura, che assume in sé il vissuto, trasfigurandolo. Il contatto personale con il tema della diversità diventa, nella solitudine della narrazione, occasione per raccontare un mondo che suscita emozioni e riflessioni. Rifuggendo da tentazioni banalmente consolatorie, Clara Sereni propone spesso la quotidianità di un’esperienza, diversa e uguale a tante, che nell’intensità della parola trova la sua singolarità. Attraversa tematiche scomode che toccano sfere esistenziali di ogni autentica letteratura, e la scomodità è il risultato di uno scavo lucido e profondo che non offre facili ripari, pur aprendo varchi di lievità. La parola e il racconto restano nudi, per restituire la nudità dell’isolamento, da cui trarre tutta la forza e la dignità possibili.

28 marzo, 2011

Se la scuola avesse le ruote - (SegnalAzioni educative)

Con questa recensione vorrei iniziare a recensire libri, articoli, esperienze, incontri e variabilia in campo educativo e affini

Undici anni fa mi sono occupato di Colin Ward, curando, insieme a mia moglie, la traduzione e introducendo i suoi scritti su bambini e città. Lì dove l’anarchico inglese mostrava come il girare, l’esplorare, anche con la scuola – quando questa apre le sue mura verso il mondo – permette e sollecita un’idea di apprendimento ampia, complessa, ariosa… capace di piegare la città alla crescita e non viceversa.

Ancora oggi il nome di Colin si lega a una prospettiva di apprendimento come scoperta, migliore senso di sé; e di competenza, intesa in maniera ricca, variegata – che travalica gli steccati tra quel che è formale e quel che non lo è. E aiuta anche a mettere in forse l’idea di sviluppo qual è ora.

Il medesimo senso liberatorio che avevo sentito quando ho lavorato ai pensieri di Colin Ward l’ho provato qualche sabato fa. Quando ho presentato a Milano  il bellissimo libro di Emilio Rigatti: Se la scuola avesse le ruote. Si tratta della scrittura, con molte ispirazioni alte e forti esperienze ben coese con il pensiero, di un prof. friulano, ben noto nel mondo della bici, che da molti anni porta le classi di scuola media a ri-scoprire la sua e ogni altra disciplina, pedalando – da cui la pedalogia…
Libro da leggere davvero.
Perché:

1. parla in dettaglio dei “giri in giro” (categoria che mi è venuta in mente a me, leggendolo, presa da Bruce Chatwin) di ragazzini e insegnanti, d’accordo con genitori, fatti insieme con i ragazzini delle medie in bici – roba vera, dunque; e di come si prepara e di come evitare guai e di cosa arreca alla crescita del gruppo e di ognuno;
2. perché mostra che una scuola che va verso il mondo è possibile e anche quali sono i modi per renderla tale;
3. perché fa capire che il governo educativo dei tanti ragazzini così bistrattati dall’Italia adulta di oggi intanto è possibile se si fanno cose che abbiano valenza sia operativa che simbolica, forti, concrete, aperte alla scoperta insieme… Il contrario della stantìa scuola trasmissiva… E con ottimi risultati anche nelle competenze più tradizionali. Come sempre è stato per la buona scuola attiva.

25 marzo, 2011

Cose delle ultime settimane


Alcune segnalazioni su cose delle ultime settimane.

Ho parlato in Piazza del popolo a Roma. Non per dire, ma era per la scuola pubblica e la Costituzione. La mia performance è qui. So che devo imparare, anche a modulare la voce.

Ho risposto anche ad alcune domande che mi hanno fatto gli amici del Movimento di cooperazione educativa della Sardegna sul recente libro sulla scuola di Paola Mastrocola, molto dibattuto in giro – ne avevo parlato anche su Il Corriere della Sera qualche settimana fa.

A proposito di libri sulla scuola: dalla settimana prossima conto di fare alcune recensioni.

17 marzo, 2011

L'Italia che esiste

L’altro ieri, nel treno che partiva verso nord da Reggio Emilia – imbandierata di vessilli della Repubblica Cispadana –una bimba dello Sri Lanka portava, contenta, una coccarda tricolore mentre, a due passi, un giovane con un’elettrica cravatta verde leggeva un giornale grossolanamente titolato contro l’Italia.
Nel vagone pienissimo del regionale, due trentenni, uno senegalese e uno italiano, parlavano di lavoro, riferendosi a una ditta che spostava i cantieri su e giù per il nord, strappando piccole e incerte commesse alla concorrenza, sempre più dura in tempi di prolungata crisi. Poi la conversazione si è allargata. Prima al campionato di calcio. E poi alla tragedia giapponese.
Fuori sfilavano i capannoni che ho imparato a riconoscere, quelli attivi e quelli chiusi. E le lunghe strisce di verde, del grano e dell’orzo che iniziano a salire. L’ammirazione per la composta reazione dei cittadini giapponesi, nel parlare vivace dei due che mi sedevano vicini, si mescolava all’interrogativo che abbiamo in tanti: “Ma noi sapremmo fare così? “Noi” – proprio così ha detto il ragazzo del Senegal.

All’arrivo a Trento ho visto in autobus un controllore giovanissimo, con due orecchini d’argento, che chiedeva il biglietto a una ragazza con la testa coperta dal velo e intensi occhi neri, forse maghrebina. La quale gli porgeva la tessera di abbonamento con su indicato la facoltà di giurisprudenza. Lui le rivolgeva con cortesia la parola con una forte inflessione napoletana e lei rispondeva con un accento trentino. Poi è salita una scolaresca. Un quarto erano bambini i cui genitori non erano italiani. E tutti parlottavano fitto nella nostra meravigliosa lingua, oggi veicolo comune di conoscenza del mondo, eccitati come sono i bimbi in gita.
Nel pomeriggio un’operatrice sociale, emigrata al nord perché nessun governo della nostra bella città e della nostra bella regione, né di destra né di sinistra, è mai stato capace di assicurare la “giusta mercede” per il faticoso e prezioso lavoro di strada con i nostri ragazzi, mi parlava dello spaesamento provato tornando per il week-end a Napoli. Con dentro l’acuta nostalgia per i luoghi così cari, la vergogna insostenibile per lo stato nel quale sono e la insopprimibile indignazione per un intero ceto politico, miserevole e baro. Mentre parlava ho ripensato a quel che capita ogni volta che si scambiano parole tra i tanti napoletani che - nelle università, nelle fabbriche e nelle imprese, nella ricerca e nelle scuole, nel lavoro sociale e nei servizi - vivono lontano dai loro luoghi.
Tante volte il conversare dei nuovi emigranti da Napoli racconta come impariamo a riconoscere l’Italia, complicata e varia. E così diversa da come ce la siamo troppo facilmente voluta immaginare. E, chissà perché uno strano volo della mente riporta le parole alla nostra città. Che è ferita ma deve pur rinascere.
L’Italia c’è. Esiste. Nonostante molte miserie e brutture. E’ piena di persone che, ovunque, danno l’anima per farla migliore. E credono, con ingegno e lavoro, a quel che fanno. Ma questa Italia – complicata e difficile - non è rappresentata dai riti ripetuti delle accuse reciproche tra nord e sud.
E in questi giorni dei centocinquanta anni dell’Italia unita davvero non convincono più le stantie accuse al Mezzogiorno di essere la zavorra di un paese che sarebbe, altrimenti, ricco e felice. Che si fanno scudo ogni volta di alcuni dati economici, senza vederne altri e senza scrutare la storia. Né vedere che le strade e le produzioni materiali e immateriali del nord vedono, insieme, le menti e le braccia di tutta Italia, ancora una volta e come sempre è stato; e, ancor più, vedono insieme le braccia e le menti che vengono dal mondo intero. Ma – francamente - neanche persuade più l’indicare ogni volta il dito verso il nord, mostrando le colpe dei nostri disastri solo fuori e lontano da noi.

E’ davvero venuto il tempo di dire basta ai rappresentanti politici e agli sciatti ideologi di una cosa e dell’altra. Che, entrambi, appartengono a combriccole provinciali e interessate. E perciò incapaci di guardare la storia comune nella sua faticosa complessità e cieche dinanzi alle potenti interazioni che costituiscono il mondo globale nel quale i nostri figli stanno crescendo.
Le cose che contano e che conteranno richiedono un’altra prospettiva. I grandi temi e i grandi compiti – gestione dell’energia e delle risorse, salvaguardia dei nostri luoghi, nuove produzioni sostenibili e saperi che le rendano possibili, effettivo esercizio dei diritti e necessità di nuova etica pubblica – le cose vere del comune domani dicono a tutti, a chiare lettere, che i piccoli orticelli, le demagogie d’occasione, le semplificazioni d’accatto in vista delle ennesime tornate elettorali sono esercizi che non vanno più sopportati. Perché negano ogni idea accettabile di politica e di convivenza.
Se questo vale per l’Italia, vale ancora di più per Napoli. Le risorse, che pure esistono, che la rimetteranno in piedi – come in tanti auspichiamo con disperata speranza, nonostante tutto – possono essere ancora messe in campo. E possono addirittura dare un segnale di cambiamento anche al resto d’Italia. Ma solo se la politica esce dalla difesa di sé e torna ai compiti veri, quelli centrati sull’interesse comune. Per Napoli questo significa riprendere la lezione migliore del meridionalismo. Che rifiutò sempre il piagnisteo anti-nordista. Perché riconosceva in esso “il piangi e fotti” del notabilato meridionale. Per dedicarsi alle cose da fare per la città.

Sì, ancor oggi c’è da riprendere l’agenda del fare possibile. E mettere distanza da quel “blocco di potere sociale e politico meridionale” che, fin dall’unità, fu denunciato dal meridionalismo, sia liberale che socialista che cattolico. Perché, trasversalmente a molte appartenenze, non mirava – così come non mira oggi - alla crescita equilibrata del tessuto economico e sociale. Bensì alla rendita e alla conservazione di sé, oggi anche a costo di ogni compromesso con gli immensi profitti del malaffare. E attraverso le clientele elettorali. Che sono quel reticolato di fedeltà e gerarchie costruito intorno a un sistema di privilegi parassitari che affogano le opportunità di democrazia.
E’ la battaglia contro tutto questo che potrà dare speranza alla nostra città. E, anche da Napoli, contribuire a ridare speranza alla vicenda nazionale.

Uscirà su la Repubblica Napoli di domani.

11 marzo, 2011

Napoli e oltre Napoli

C’è Napoli. Temevo che il gioco per la corsa a sindaco fosse finito. Ed ecco che oltre a De Magistris c’è Morcone. Anche se condite da prese di posizione dal sapore vetusto (link:
o strambo, o da mettere a fuoco, in ogni caso le cose a Napoli si stanno muovendo. C’è evidente vera divisione.
E non solo nel centro-sinistra. Ma forse la situazione fa sì che il sistema elettorale a doppio turno faccia superare lo scandalo delle primarie, rimescoli le carte; e spinga a votare al primo turno: sono talmente tanti i candidati che vale la pena riuscire a spingerne uno decente al ballottaggio. Proverò a scriverne la settimana prossima.

Intanto, oltre Napoli, questo sabato sarò a Roma per la difesa della scuola pubblica.
Parlerò dal palco di piazza del Popolo. Dirò che la scuola è per tutti. Ma è innanzitutto per chi non ha altri modi di allargare il proprio orizzonte di speranza e di opportunità nella vita. La giornata di sabato è anche in difesa della Costituzione. Qui sotto c’è quanto ho scritto su l’Unità di oggi:

In piazza per scuola e Costituzione
Andiamo nelle piazze per difendere la Costituzione e la scuola pubblica. Perché pensiamo che l’Italia, che noi tutti non ne possiamo fare proprio a meno. E non ne possiamo fare a meno perché sono due cose che hanno la rara qualità di essere, ad un tempo, vitali e sacre. Vitali perché consentano a un organismo complessissimo – quale è la società – di regolarsi e di continuare a vivere nel tempo, generazione dopo generazione. Sacre perché contengono le qualità simboliche che permettono di tenere insieme una comunità fatta di milioni di persone diverse secondo un diritto che è uguale.
La nostra Carta sa mettere insieme, in modo chiaro, non solo i diritti e i doveri ma “quegli organi attraverso i quali la politica si trasforma in diritto, le vitali e sane lotte della politica si trasformano in leggi” – come scriveva Piero Calamandrei. In questi anni abbiamo vissuto e stiamo vivendo un tempo grave non perché si è pensato o si pensi di cambiare questa o quella parte della Costituzione, cosa del tutto prevista dalla Carta stessa. E normale col passare del tempo. Se fatta per concorde adesione. Il tempo grave che viviamo è dato dal fatto che si stanno continuamente attaccando proprio “quegli organi” – e il delicato equilibrio tra di essi – “attraverso i quali la politica si trasforma in diritto”. Questo non deve accadere. E siamo qui per impedirlo. Perciò: non si tratta di una battaglia di parte né di conservazione. E’ una battaglia per tutti, anche per quelli che oggi non lo vogliono capire. Ed è una battaglia che permette di continuare a cambiare. Perché c’è la certezza del come farlo, delle condizioni entro le quali le trasformazioni non diventano distruzioni, non minacciano la casa comune.
La nostra scuola ogni mattina mette insieme i mondi interiori di ogni bambino e ragazzo che sta crescendo con quello di ciascun altro e, al contempo, con l’universo mondo, le sue leggi, la sua storia, i suoi problemi e i molti alfabeti che servono a leggerlo. E’ in questa doppia funzione – mettere insieme persone diverse e apprendere – che vi è vitalità e sacralità. La scuola è chiamata ad assolvere a questo suo compito in modi nuovi. E deve trasformarsi proprio perché sono mutate e stanno mutando sia le condizioni dello stare insieme tra diversi sia il mondo sia gli strumenti attraverso i quali lo si guarda e lo si può capire, salvaguardare e cambiare. Il tempo grave che stiamo vivendo è dato dal fatto che si metta in discussione la scuola nel suo carattere pubblico e protetto – e, dunque, altro da casa - nel quale ci si confronta tra diversi ed uguali mentre si sta crescendo e si sta imparando a stare al mondo e a conoscerlo. Anche per la scuola questa non è una battaglia di parte né di conservazione. E’ per tutti e per ciascuno. Ed è per consentire che la scuola, salvaguardata, possa cambiare.

28 febbraio, 2011

B. Silvio contro la scuola. Ora basta!

Si sa, fa sempre così: B. Silvio dice, smentisce ma non smentisce. I bambini che al giardinetto da piccoli si volevano evitare erano quelli che avevano sempre ragione. Lui è così. E ha uno stuolo di servi, però - che gli devono molto - che, al contrario di quanto si fa da bambini quando si è liberi, gli danno ragione.
Non tutti sono servi, per fortuna. E questa è una di quelle volte che ha fatto levare gli scudi da molti lati. Infatti, ha innervosito oltre la cerchia già all’opposizione. Il fatto è che egli è pateticamente intrappolato nel secolo scorso – l’uomo va per gli ottanta – e si è impantanato nelle questione scuola statale – altra scuola. Ma non ha ripassato quanto dice la Costituzione sulla scuola statale. E poi offende gratuitamente i docenti italiani di tutte le tendenze che non fanno ideologia in classe e che provano a trovare unità di intenti con i genitori, non senza difficoltà, visti i modelli educativi in giro, B. Silvio in primis. Inoltre si è mostrato ignaro degli ultimi dieci anni di leggi che equiparano largamente le parificate. Insomma, per raddolcire il vaticano dopo i mesi scorsi, ha fatto lo stantìo pistolotto ideologico e estremista, citando sue frasi del 1994, diciassette anni fa. Ma non convince. E qualche esperto di comunicazione glielo ha fatto notare… da cui la solita marcia indietro.
Tuttavia – nel merito (esiste il merito) - ha detto testualmente che le famiglie e la scuola non sono in accordo e che la colpa è della scuola. Questo è grave davvero. Perché tutto il mondo adulto fa oggi fatica ad educare. E istigare alla divisione è atto di irresponsabilità politica molto seria. Alla quale si deve rispondere con forza.
Perciò, ho aderito all’appello a una mobilitazione, lanciato da L’Unità.

E ho scritto l’articolo che riporto qui sotto, che prova a rispondere nel merito, riferendosi ai problemi reali sul tappeto, oltre gli antichi steccati. Che è apparso oggi sulla prima de La Stampa.

Le palestre della vita
di Marco Rossi-Doria - La Stampa 28 febbraio 2011


Il presidente del consiglio ha affermato che “la scuola pubblica insegna principi contrari a quelli delle famiglie”. Poiché egli è tenuto, nella sua qualità di capo del governo nazionale, a favorire l’unità degli italiani, questa affermazione (seguita dalla rituale smentita) dovrebbe fondarsi sui problemi educativi comuni a tutti gli adulti responsabili. E non lo fa. Inoltre essa appare molto distante dalle questioni educative che sono oggi sul campo.

Gabrio Casati, ministro della destra storica,
che istituì le scuole pubbliche in Italia
Infatti, nell’Italia di ogni giorno, genitori di famiglie unite o separate, docenti delle scuole pubbliche o di quelle private, educatori del privato sociale laico o di quello cattolico, allenatori sportivi, capi-scout, genitori volontari degli oratori o uomini e donne consacrati che assolvono a funzioni educative stanno tutti affrontando, da diversi punti di vista, la crescente, comune difficoltà di una crisi di valori e di modelli che rende davvero faticoso educare.

Vi è stato, infatti – negli ultimi decenni – un mutamento radicale del paesaggio antropologico entro il quale si educa. I modelli adulti – nei media, nella politica, nel mercato, nel costume – stanno mettendo a dura prova, anche di recente, i principi dell’educare. Perché le parole in famiglia e a scuola vengono smentite in modo potente. Lo sa bene chi opera ogni giorno. Lo ha scritto la CEI nel suo prezioso documento dell’anno scorso. E soprattutto lo ripetono i ragazzi, delusi e spaesati.
Ma ancor prima di questo, due possenti mutamenti hanno cambiato la posizione della scuola e la relazione tra scuola e famiglie.

Il primo mutamento riguarda il fatto che, a differenza di oggi, fino a una generazione e mezzo fa, ogni bambino veniva affidato dalla famiglia a un gruppo di altri bambini, coetanei o poco più grandi entro cui provarsi, specchiarsi, riconoscersi. E insieme ai quali si condividevano i tempi ripetuti e i luoghi oltre le mura di casa e anche diversi dalla scuola: quartiere, paese, cortile, rione, piazzetta, condominio, campagna. Era la prima palestra della socialità. Che abituava a funzionare entro una comunità di coetanei regolata intorno al gioco ma anche intorno all’essere progressivamente capaci di… Tanto che ogni nuovo venuto imparava a vivere il riscontro giornaliero “di fare parte di”, le piacevolezze proprie delle relazioni e costruzioni progettuali comuni e anche le sue prove e frustrazioni. Era un sistema accettato di regole, prove e ritualità tra coetanei. Con gli adulti in posizione presente ma distante, non intrusiva. Così, la scuola ha rappresentato, fino a poco fa, la seconda palestra della socialità, ulteriore e diversa dalla prima. Perché era il luogo che ha sì una dimensione sociale ma modificata dal fatto che era deputata a altro rispetto a quella prima socialità e, dunque, regolata per imparare le cose che non si possono imparare a casa o con gli amici. Dunque, la scuola era pienamente riconosciuta dalla famiglia per questa sua specificità e per le leggi, esterne a sé, che la presidiavano, sorvegliate dagli adulti docenti che erano altro dalla famiglia. La quale, però, ne garantiva la funzionalità sulla base di un riconoscimento implicito, tale da delegare funzioni educative.
Il secondo mutamento riguarda il fatto che i confini e le regole, a differenza di oggi, venivano rimarcati dai genitori entro una definizione codificata di ruoli e liturgie di presidio. Le rigidità e gli arbitri potevano essere parti dolorose di questo assetto. Tuttavia il codice implicito era universalmente riconosciuto da una comunità più larga della singola famiglia e ciò la sosteneva nelle funzioni strutturanti e mitigava l’eccesso di soggettività. Era la prima palestra della legge. Che aveva luogo, anche essa, prima della scuola. E che favoriva un insieme graduato di trasferimenti di consegne, attese di comportamenti, riti di passaggio, catene di comando, regole e sanzioni prevedibili. La scuola era in una posizione di continuità anche con questo apprendistato precoce. E poteva contare su di esso per fare valere le proprie regole.

Oggi sono fortemente indeboliti questi fondamentali retroterra di ogni società educante. Tanto che ogni giorno le scuole sia pubbliche che private e le famiglie, insieme, stanno faticosamente lavorando a ritessere la rete educativa adulta comune, entro le mutate condizioni. Il che implica la ricostruzione del patto tra adulti, che da implicito si deve rendere esplicito. Un’opera tanto complessa, lunga, faticosa, delicata quanto irrinunciabile. Che ha bisogno di forte sostegno e di parole e azioni che uniscono e non che dividono.

Istigare alla divisione tra scuole e scuole, tra genitori e genitori, tra scuole e famiglie – come hanno fatto le parole del presidente del consiglio – sono, perciò, un atto di estremismo politico e di irresponsabilità civile che, per il bene di tutti i nostri figli, l’Italia, già fin troppo divisa, non si può né si deve permettere.

24 febbraio, 2011

Game over

Mentre la crisi della monnezza diventa tristemente maggiorenne e continuano gli scandali, mentre Libertà e Giustizia – l’unica entità cittadina che aveva costruito un dibattito pubblico tra i candidati alle primarie del centro-sinistra a Napoli - ricorre al TAR, simbolicamente e assai paradossalmente contro tutti, per l’esito scandaloso delle primarie…
…Accadono due cose.

La prima è che Raffaele Cantone dirà di no all’offerta di candidarsi a sindaco di Napoli per “salvare” il centro sinistra. E avendo anche avuto occasione di scambiare con lui qualche sincera parola, beh, quel che Cantone dice, con pacata, sofferta argomentazione ai giornali, è esattamente quel che pensa.
Cosa faranno nel centro-sinistra? Ranieri davvero farà la lista civica? Si ritornerà sul nome di Cozzolino, contestato ma formalmente ancora il più votato nelle primarie? Ci saranno candidati delle diverse anime (si fa per dire) del centro-sinistra, in lotta tra loro al primo turno, con De Magistris che fa il matador? Si proporrà – come suggerisce Rosetta - una donna (chi tra quelle già note?), la quale a sua volta fingerà di essere il nuovo che avanza?
Anche chi è preso dal lavoro o dal vento che infuria dall’oasi di Kufra fino al nostro mare e non ama più badare a queste cose, può vedere che a Napoli la politica, nel centro-sinistra, si è incartata.
La seconda cosa che accade è che - nel riordino generale dell’iniziativa berlusconiana (troppo facilmente ci si era illusi della fine di un sistema di potere vero) - si torna a parlare della Carfagna  come candidato unitario a sindaco del centro-destra.
Può darsi che non sia vero, che continueranno le divisioni nel centro-destra. Ma se fosse o diventasse vero, sarebbe vittoria certa della destra, come da tempo segnalano tutti i sondaggi.
Game over, dunque; ben di più di quanto già non lo sia.
E, “comunquemente”, qualsiasi candidato di destra oggi vincerebbe a Napoli. Perché ci sono stati quindici anni terribili. E perché regali  - che diano almeno la speranza di una sfida che abbia senso e raccolga le buone forze della città e faccia cambiare musica davvero – questo centro-sinistra partenopeo non li sa neanche pensare. Mentre, invece, le settimane volano.
E allora?
Allora, una volta subìta la terza sconfitta in fila si dovrà almeno parlare di questi anni. E si potrà fare il bilancio vero delle amministrazioni e della storia civile recente della città. Non sarà neanche un’amara consolazione. Sarà solo un compito improrogabile.

23 febbraio, 2011

Riflettere su 150 anni: la scuola e il Mezzogiorno (2)


Sempre a proposito di unità d’Italia e delle molte ombre che conserva in sé, penso che si debba portare ai lettori del nord la riflessione sull’esclusione di massa nel Mezzogiorno. A partire di quella dei bambini e dei giovani.
Così, è apparso ieri su La Stampa in prima pagina questo mio articolo che riporto anche qui:

A 150 anni dall’Unità d’Italia quale è il bilancio riguardo al formare le nuove generazioni? E’ possibile farne oggetto “di riflessione seria e non acritica e di valorizzazione di tutto quel che ci unisce”, come ci ha invitato a fare il Presidente Napolitano?
E’ bene partire dalla scuola. Che è nata con l’Italia unita. Prima c’erano i precettori presso i ricchi. E le scuole strettamente confessionali. E’ merito del regno sabaudo e della destra storica se la scuola fu subito resa pubblica e obbligatoria. E’ stato il regio decreto legislativo 13 novembre 1859, n. 3725 del Regno di Sardegna - noto come legge Casati - entrato in vigore nel 1860 e successivamente esteso a tutta l'Italia che ha dato il via all’alfabetizzazione del paese. Un’opera titanica: l'analfabetismo maschile era al 74% e quello femminile del 84%, con punte del 95% nell'Italia meridionale. Un’opera che è continuata lungo i decenni nelle scuole la mattina e in quelle serali e poi via radio e con i primi anni della televisione pubblica. Un’opera che è stata compiuta all’inizio da maestri, che furono spesso promotori delle grandi culture politiche che hanno forgiato il paese: liberalismo, anarchismo, socialismo, cattolicesimo sociale; e da poche maestre, che diffusero per prime le ragioni del movimento delle donne. Questo esercito civile ha popolato la vita di città e campagne insegnando a milioni di bambini a leggere, scrivere, far di conto, conoscere la storia, le scienze, la geografia. Con i soldi dello Stato. E non più grazie alla pia carità dei fedeli né sotto l’imprimatur sui libri siglati dal Papa.
Dunque, va ricordato che l’unità è stata anche il poter leggere del bambino veneto come di quello calabrese. Che è avvenuto entro un modello di scuola pubblica che ha sempre saputo affiancare lo sviluppo della nostra meravigliosa lingua al rispetto per le lingue locali. E che questo ha prodotto, per oltre un secolo, una faticosa ma costante mobilità sociale.
Ma oggi abbiamo anche il dovere di riconoscere che, dalla fine degli anni settanta del secolo scorso, questa spinta verso il sapere per tutti e verso il superamento della povertà grazie all’istruzione si è arrestata. Tanto che oggi il 20,8 % dei nostri ragazzi non ottiene un diploma di scuola superiore né una formazione professionale compiuta. E si tratta dei figli dei poveri, quelli per i quali la scuola pubblica è nata. Bambini e ragazzi poveri, che sono quasi due milioni, il 18% del totale. Se si guardano, poi, con attenzione questi dati, si vede che essi rivelano una disunità dell’Italia tra nord e sud. Infatti nel sud risiede il 70% dei minori poveri, 1 milione e trecentomila. E mentre la media italiana di chi cade fuori dal sistema di istruzione è 1 su 5, nel sud è quasi 1 su 3. La corrispondenza tra dispersione scolastica e povertà delle famiglie è ovunque di nuovo evidente; ma nel Mezzogiorno ha caratteri macroscopici. E non è solo questione di povertà. Nel sud i bambini hanno enti locali meno capaci di spendere bene per servizi, istruzione, salute, ambiente, sviluppo locale, cultura. Hanno scuole più vecchie, brutte e meno manutenute e sicure. Hanno meno mense, asili nido, tempo pieno, palestre, spazi verdi attrezzati. Conoscono ospedali meno efficienti, minori opportunità di cure preventive e anche una aspettativa di vita un po’ meno lunga. Usufruiscono di trasporti, informazioni e infrastrutture peggiori. Hanno famiglie e comunità che usano banche più care e ancor meno propense a prestare denaro a chi non lo ha già. E la Banca d’Italia ha calcolato che i bambini e ragazzi del Sud hanno un investimento annuo medio pro-capite per l’istruzione – da parte di enti locali, stato, famiglie - di oltre mille euro in meno.
Certamente, intorno all’educare ci sono oggi profondi mutamenti rispetto ai molti decenni dell’unità d’Italia. Mutamenti antropologici sui quale faremmo bene tutti a soffermarci di più e meglio: scuola, famiglie, media.
Ma ci sono anche sfide immediate, compiti urgenti per la tenuta stessa della coesione sociale. Perciò, negli anni a venire, quale che sia la direzione politica del paese e quella di regioni e città, il primo grande banco di prova per le classi dirigenti nazionali e locali è quello del rilancio delle politiche attive per chi fin da bambino è escluso dal sapere e quindi dalle opportunità. Sarebbe, insomma, urgente, a 150 anni dall’unità, poter riparlare di vera politica. E cimentarsi con il come aumentare scuole materne e nidi e rafforzare l’istruzione di base, dando più ore e didattiche migliori a chi parte svantaggiato; come rilanciare il sistema della formazione professionale intorno al sapere fare e anche alle competenze di cittadinanza - saper leggere e scrivere, capire discorsi, seguire procedure logiche; come creare zone di intervento straordinario nelle aree più depresse, che coinvolgano, in progetti ad personam, scuole, imprese, parrocchie, centri sportivi; come rafforzare le ore di alfabetizzazione nell’apprendistato; come offrire una ripresa di istruzione agli adulti che non ne hanno, per acquisire le competenze indispensabili per stare al mondo.
Dal tempo di Cavour, i politici savi dell’Italia unita, il movimento sindacale, gli imprenditori, il pensiero meridionalista hanno saputo superare divisioni, rigidità e interessi di parte quando si sono occupati di queste cose. Con spirito rivolto alla comunità nazionale e a quella locale, in modo concreto, evitando sprechi e concentrandosi sui risultati. E ora di ricominciare.