23 febbraio, 2011

Riflettere su 150 anni: la scuola e il Mezzogiorno (2)


Sempre a proposito di unità d’Italia e delle molte ombre che conserva in sé, penso che si debba portare ai lettori del nord la riflessione sull’esclusione di massa nel Mezzogiorno. A partire di quella dei bambini e dei giovani.
Così, è apparso ieri su La Stampa in prima pagina questo mio articolo che riporto anche qui:

A 150 anni dall’Unità d’Italia quale è il bilancio riguardo al formare le nuove generazioni? E’ possibile farne oggetto “di riflessione seria e non acritica e di valorizzazione di tutto quel che ci unisce”, come ci ha invitato a fare il Presidente Napolitano?
E’ bene partire dalla scuola. Che è nata con l’Italia unita. Prima c’erano i precettori presso i ricchi. E le scuole strettamente confessionali. E’ merito del regno sabaudo e della destra storica se la scuola fu subito resa pubblica e obbligatoria. E’ stato il regio decreto legislativo 13 novembre 1859, n. 3725 del Regno di Sardegna - noto come legge Casati - entrato in vigore nel 1860 e successivamente esteso a tutta l'Italia che ha dato il via all’alfabetizzazione del paese. Un’opera titanica: l'analfabetismo maschile era al 74% e quello femminile del 84%, con punte del 95% nell'Italia meridionale. Un’opera che è continuata lungo i decenni nelle scuole la mattina e in quelle serali e poi via radio e con i primi anni della televisione pubblica. Un’opera che è stata compiuta all’inizio da maestri, che furono spesso promotori delle grandi culture politiche che hanno forgiato il paese: liberalismo, anarchismo, socialismo, cattolicesimo sociale; e da poche maestre, che diffusero per prime le ragioni del movimento delle donne. Questo esercito civile ha popolato la vita di città e campagne insegnando a milioni di bambini a leggere, scrivere, far di conto, conoscere la storia, le scienze, la geografia. Con i soldi dello Stato. E non più grazie alla pia carità dei fedeli né sotto l’imprimatur sui libri siglati dal Papa.
Dunque, va ricordato che l’unità è stata anche il poter leggere del bambino veneto come di quello calabrese. Che è avvenuto entro un modello di scuola pubblica che ha sempre saputo affiancare lo sviluppo della nostra meravigliosa lingua al rispetto per le lingue locali. E che questo ha prodotto, per oltre un secolo, una faticosa ma costante mobilità sociale.
Ma oggi abbiamo anche il dovere di riconoscere che, dalla fine degli anni settanta del secolo scorso, questa spinta verso il sapere per tutti e verso il superamento della povertà grazie all’istruzione si è arrestata. Tanto che oggi il 20,8 % dei nostri ragazzi non ottiene un diploma di scuola superiore né una formazione professionale compiuta. E si tratta dei figli dei poveri, quelli per i quali la scuola pubblica è nata. Bambini e ragazzi poveri, che sono quasi due milioni, il 18% del totale. Se si guardano, poi, con attenzione questi dati, si vede che essi rivelano una disunità dell’Italia tra nord e sud. Infatti nel sud risiede il 70% dei minori poveri, 1 milione e trecentomila. E mentre la media italiana di chi cade fuori dal sistema di istruzione è 1 su 5, nel sud è quasi 1 su 3. La corrispondenza tra dispersione scolastica e povertà delle famiglie è ovunque di nuovo evidente; ma nel Mezzogiorno ha caratteri macroscopici. E non è solo questione di povertà. Nel sud i bambini hanno enti locali meno capaci di spendere bene per servizi, istruzione, salute, ambiente, sviluppo locale, cultura. Hanno scuole più vecchie, brutte e meno manutenute e sicure. Hanno meno mense, asili nido, tempo pieno, palestre, spazi verdi attrezzati. Conoscono ospedali meno efficienti, minori opportunità di cure preventive e anche una aspettativa di vita un po’ meno lunga. Usufruiscono di trasporti, informazioni e infrastrutture peggiori. Hanno famiglie e comunità che usano banche più care e ancor meno propense a prestare denaro a chi non lo ha già. E la Banca d’Italia ha calcolato che i bambini e ragazzi del Sud hanno un investimento annuo medio pro-capite per l’istruzione – da parte di enti locali, stato, famiglie - di oltre mille euro in meno.
Certamente, intorno all’educare ci sono oggi profondi mutamenti rispetto ai molti decenni dell’unità d’Italia. Mutamenti antropologici sui quale faremmo bene tutti a soffermarci di più e meglio: scuola, famiglie, media.
Ma ci sono anche sfide immediate, compiti urgenti per la tenuta stessa della coesione sociale. Perciò, negli anni a venire, quale che sia la direzione politica del paese e quella di regioni e città, il primo grande banco di prova per le classi dirigenti nazionali e locali è quello del rilancio delle politiche attive per chi fin da bambino è escluso dal sapere e quindi dalle opportunità. Sarebbe, insomma, urgente, a 150 anni dall’unità, poter riparlare di vera politica. E cimentarsi con il come aumentare scuole materne e nidi e rafforzare l’istruzione di base, dando più ore e didattiche migliori a chi parte svantaggiato; come rilanciare il sistema della formazione professionale intorno al sapere fare e anche alle competenze di cittadinanza - saper leggere e scrivere, capire discorsi, seguire procedure logiche; come creare zone di intervento straordinario nelle aree più depresse, che coinvolgano, in progetti ad personam, scuole, imprese, parrocchie, centri sportivi; come rafforzare le ore di alfabetizzazione nell’apprendistato; come offrire una ripresa di istruzione agli adulti che non ne hanno, per acquisire le competenze indispensabili per stare al mondo.
Dal tempo di Cavour, i politici savi dell’Italia unita, il movimento sindacale, gli imprenditori, il pensiero meridionalista hanno saputo superare divisioni, rigidità e interessi di parte quando si sono occupati di queste cose. Con spirito rivolto alla comunità nazionale e a quella locale, in modo concreto, evitando sprechi e concentrandosi sui risultati. E ora di ricominciare.

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