28 febbraio, 2011

B. Silvio contro la scuola. Ora basta!

Si sa, fa sempre così: B. Silvio dice, smentisce ma non smentisce. I bambini che al giardinetto da piccoli si volevano evitare erano quelli che avevano sempre ragione. Lui è così. E ha uno stuolo di servi, però - che gli devono molto - che, al contrario di quanto si fa da bambini quando si è liberi, gli danno ragione.
Non tutti sono servi, per fortuna. E questa è una di quelle volte che ha fatto levare gli scudi da molti lati. Infatti, ha innervosito oltre la cerchia già all’opposizione. Il fatto è che egli è pateticamente intrappolato nel secolo scorso – l’uomo va per gli ottanta – e si è impantanato nelle questione scuola statale – altra scuola. Ma non ha ripassato quanto dice la Costituzione sulla scuola statale. E poi offende gratuitamente i docenti italiani di tutte le tendenze che non fanno ideologia in classe e che provano a trovare unità di intenti con i genitori, non senza difficoltà, visti i modelli educativi in giro, B. Silvio in primis. Inoltre si è mostrato ignaro degli ultimi dieci anni di leggi che equiparano largamente le parificate. Insomma, per raddolcire il vaticano dopo i mesi scorsi, ha fatto lo stantìo pistolotto ideologico e estremista, citando sue frasi del 1994, diciassette anni fa. Ma non convince. E qualche esperto di comunicazione glielo ha fatto notare… da cui la solita marcia indietro.
Tuttavia – nel merito (esiste il merito) - ha detto testualmente che le famiglie e la scuola non sono in accordo e che la colpa è della scuola. Questo è grave davvero. Perché tutto il mondo adulto fa oggi fatica ad educare. E istigare alla divisione è atto di irresponsabilità politica molto seria. Alla quale si deve rispondere con forza.
Perciò, ho aderito all’appello a una mobilitazione, lanciato da L’Unità.

E ho scritto l’articolo che riporto qui sotto, che prova a rispondere nel merito, riferendosi ai problemi reali sul tappeto, oltre gli antichi steccati. Che è apparso oggi sulla prima de La Stampa.

Le palestre della vita
di Marco Rossi-Doria - La Stampa 28 febbraio 2011


Il presidente del consiglio ha affermato che “la scuola pubblica insegna principi contrari a quelli delle famiglie”. Poiché egli è tenuto, nella sua qualità di capo del governo nazionale, a favorire l’unità degli italiani, questa affermazione (seguita dalla rituale smentita) dovrebbe fondarsi sui problemi educativi comuni a tutti gli adulti responsabili. E non lo fa. Inoltre essa appare molto distante dalle questioni educative che sono oggi sul campo.

Gabrio Casati, ministro della destra storica,
che istituì le scuole pubbliche in Italia
Infatti, nell’Italia di ogni giorno, genitori di famiglie unite o separate, docenti delle scuole pubbliche o di quelle private, educatori del privato sociale laico o di quello cattolico, allenatori sportivi, capi-scout, genitori volontari degli oratori o uomini e donne consacrati che assolvono a funzioni educative stanno tutti affrontando, da diversi punti di vista, la crescente, comune difficoltà di una crisi di valori e di modelli che rende davvero faticoso educare.

Vi è stato, infatti – negli ultimi decenni – un mutamento radicale del paesaggio antropologico entro il quale si educa. I modelli adulti – nei media, nella politica, nel mercato, nel costume – stanno mettendo a dura prova, anche di recente, i principi dell’educare. Perché le parole in famiglia e a scuola vengono smentite in modo potente. Lo sa bene chi opera ogni giorno. Lo ha scritto la CEI nel suo prezioso documento dell’anno scorso. E soprattutto lo ripetono i ragazzi, delusi e spaesati.
Ma ancor prima di questo, due possenti mutamenti hanno cambiato la posizione della scuola e la relazione tra scuola e famiglie.

Il primo mutamento riguarda il fatto che, a differenza di oggi, fino a una generazione e mezzo fa, ogni bambino veniva affidato dalla famiglia a un gruppo di altri bambini, coetanei o poco più grandi entro cui provarsi, specchiarsi, riconoscersi. E insieme ai quali si condividevano i tempi ripetuti e i luoghi oltre le mura di casa e anche diversi dalla scuola: quartiere, paese, cortile, rione, piazzetta, condominio, campagna. Era la prima palestra della socialità. Che abituava a funzionare entro una comunità di coetanei regolata intorno al gioco ma anche intorno all’essere progressivamente capaci di… Tanto che ogni nuovo venuto imparava a vivere il riscontro giornaliero “di fare parte di”, le piacevolezze proprie delle relazioni e costruzioni progettuali comuni e anche le sue prove e frustrazioni. Era un sistema accettato di regole, prove e ritualità tra coetanei. Con gli adulti in posizione presente ma distante, non intrusiva. Così, la scuola ha rappresentato, fino a poco fa, la seconda palestra della socialità, ulteriore e diversa dalla prima. Perché era il luogo che ha sì una dimensione sociale ma modificata dal fatto che era deputata a altro rispetto a quella prima socialità e, dunque, regolata per imparare le cose che non si possono imparare a casa o con gli amici. Dunque, la scuola era pienamente riconosciuta dalla famiglia per questa sua specificità e per le leggi, esterne a sé, che la presidiavano, sorvegliate dagli adulti docenti che erano altro dalla famiglia. La quale, però, ne garantiva la funzionalità sulla base di un riconoscimento implicito, tale da delegare funzioni educative.
Il secondo mutamento riguarda il fatto che i confini e le regole, a differenza di oggi, venivano rimarcati dai genitori entro una definizione codificata di ruoli e liturgie di presidio. Le rigidità e gli arbitri potevano essere parti dolorose di questo assetto. Tuttavia il codice implicito era universalmente riconosciuto da una comunità più larga della singola famiglia e ciò la sosteneva nelle funzioni strutturanti e mitigava l’eccesso di soggettività. Era la prima palestra della legge. Che aveva luogo, anche essa, prima della scuola. E che favoriva un insieme graduato di trasferimenti di consegne, attese di comportamenti, riti di passaggio, catene di comando, regole e sanzioni prevedibili. La scuola era in una posizione di continuità anche con questo apprendistato precoce. E poteva contare su di esso per fare valere le proprie regole.

Oggi sono fortemente indeboliti questi fondamentali retroterra di ogni società educante. Tanto che ogni giorno le scuole sia pubbliche che private e le famiglie, insieme, stanno faticosamente lavorando a ritessere la rete educativa adulta comune, entro le mutate condizioni. Il che implica la ricostruzione del patto tra adulti, che da implicito si deve rendere esplicito. Un’opera tanto complessa, lunga, faticosa, delicata quanto irrinunciabile. Che ha bisogno di forte sostegno e di parole e azioni che uniscono e non che dividono.

Istigare alla divisione tra scuole e scuole, tra genitori e genitori, tra scuole e famiglie – come hanno fatto le parole del presidente del consiglio – sono, perciò, un atto di estremismo politico e di irresponsabilità civile che, per il bene di tutti i nostri figli, l’Italia, già fin troppo divisa, non si può né si deve permettere.

2 commenti:

pirozzi ha detto...

marco è tutto condividibile quello che dici, soprattutto il modo con cui lo dice e che dovresti sforzarti di proporre anche all'"opposizione" (?): il discorso sulla scuola - io amerei dire sull'apprendere e suul'educare perchè la sinonimia, e l'arroganza della ssua superiorità istituzionale, tra scuola e apprendimento è tutta da dimostrare - è così importante che non può essere ridotto a occasione e strumento di polemica politica antiberlusconiana. tu sai che il riduzionismo del capro espiatorio non porta da nessuna parte. tu sai che le argomentazioni che opponi a berlusca andrebbero soprattutto riportate tra di noi, tra i suoi "nemici", perchè è tra noi attori dell'educazione che deve crescere la riflessività, la capacità di rimettere in gioco retoriche e categorie (tutte anch'esse conficcate, ben più di berlusca, nel secolo scorso) e cominciare a dire che il re è perlomeno seminudo. tu sai che l'andazzo non è questo, che l'antiberlusconismo, in cui tutte le vacche sono progressiste e democratiche, è un velo per l'inermità cognitiva che ci avvolge. soprattutto noi progressisti.
partiamo da un'assunzione cognitiva paradossale, che ci spaventa, ma serve a cominciare a pensare: "questa" scuola pubblica, come istituzione, pedagogica, culturale, dei saperi, professionale e orgsnizzativa (la scuola e non i suopi spesso eroici e anonimi soldati) fa schifo, e il suo carattere pubblico fa acqua da tutte le parti. da dove ricominciamo?
accettando la tipologia che ci ha proposto bonomi, ma anche donolo: leggilo, è un manifesto, è un luogo in cui comunità operose e di cura lavorano e dovrebbero crescere; ma è a rischio di trasformarsi in una comunità rancorosa.
Se poi l'antiberlusconismo attizza e arrizza e smuove il pantano, che ben venga, lo spero ma non ci credo. Ma trasformiamolo in una palestra di domande e non in un torneo di temi in classe.
Insistisci e cerca i mezzi per costruire momenti riflessivi che riproducano un pubblico intorno a questioni importanti della nostra democrazia.

domusorea ha detto...

Dopo aver sentito la frase incriminata ho sentito subito la necessità di scriverci sopra
http://narrativeinfo.blogspot.com/2011/02/lora-di-religione.html