Strana la vita. Il Corriere del Mezzogiorno di oggi riporta come notizia la mia partecipazione a una sorta di comitato aperto del PD proposto da Enzo Amendola e Ciriaco De Mita. Eppure mai come in questi giorni mi sento lontano dal PD visti i segnali davvero pessimi forniti dalla chiamata a Roma nel comitato dei 43 di Bassolino e Iervolino, dalla formazione del comitato stesso, dalle altre bestialità provenienti da quel campo e che rischiano di far cadere il governo in fauci sempre più pericolose e preoccupanti per la stessa democrazia.
Infatti ero ripartito con l'ennesima richiesta esplicita di dimissioni di Iervolino e Bassolino e firmando la lettera apparsa, sempre sul Corriere del Mezzogiorno, contro l’attuale assetto di potere in Campania, pensata in risposta immediata e doverosa a un fondo duro di Demarco che chiedeva alla società di battere subito un colpo e a cui nessuno ha voluto dar seguito.
E invece ecco che risulto – dall’articolo di Simona Brandolini - già bello e cooptato nel PD campano, in più come rappresentante della cultura…
Già… e a proposito del mio nome e del come entri in rapporto con la cultura, sto, intanto, più banalmente facendo cose tecniche che non sono considerate di cultura (sic!) come capire se tutti, a 16 anni, dovrebbero o no sapere le equazioni di primo grado e se dunque vanno incluse nei saperi obbligatori di cittadinanza. Che fa Rossi-Doria? Ecco che fa.
Ma, oltre a questo, stamattina prendo il telefono e chiamo Simona Brandolini spiegandole che nessun segretario regionale DS o DL mi ha cercato.
E, però, aggiungendo che, se mi chiamano, vado eccome. E a dire esattamente le cose che sto dicendo e ripetendo da 18 mesi, da quando mi ero proposto per le primarie per sindaco poi annullate e fino a oggi. Qualunque tribuna è buona, PD o altre. Dirò le stesse cose.
Vediamo se domani Simona lo riporterà sul Cormez.
06 giugno, 2007
30 maggio, 2007
Risposte e proposte
Caro Eduardo,
anche io spesso sento un ritmo rap che dalla pancia sale e fa: fujmmuncenne... E confesso che se un giovane mi chiede se deve andarsene rispondo, mio malgrado, di sì. Perché fa bene stare lontano da qui e fa male crescere nutrendo cinismo per poter sopravvivere e abbandonando speranze. Ma io me ne sono fuggito già una volta, in epoca pre-tangentopoli e mi sono recato in giro per otto anni. Per ora non riesco a rifarlo.
Caro Roberto Vallefuoco,
sono d’accordo con il compito che ci affidi: fare opposizione. L’ho gridato insieme a te nel megafono nel mercato di Secondigliano. Teniamo fede all’impegno. E mi pare che, per la mia piccola parte, sto esattamente assolvendo al lavoro di “dimostrare e rendere evidente il fallimento di chi governa”. Non ho cambiato idea. Per non mettere la testa nella sabbia, ho solo posto il problema delle prospettive. Dunque ripeto quel che ho risposto a Norberto Gallo: “O si lavora per una vittoria della opposizione di centro-destra a Napoli o per un Guazzaloca o mini-Sarkozi partenopeo ma a) bisogna essere di centro-destra e b) è un compito comunque gravoso viste le estese e solide consociazioni destra-sinistra e vista la pochezza culturale degli interlocutori di quel campo, con poche eccezioni. Oppure ci si confronta con ogni possibile contraddizione interna al campo di centro-sinistra e ogni spiraglio, compreso il PD, e senza farsi troppe illusioni. Ma – sia chiaro – questo lavoro non annulla la prioritaria funzione di opposizione. Anzi, semmai la rafforza. Quando dico questo qualcuno scrive, su taluni blog, di mission impossible di Rossi-Doria. Ed è più che possible che così sia, intendiamoci. Ma convengo con te: non è un falso problema. E’ il problema politico. L’unico punto su cui forse dissento è che sembri chiedere che la sua soluzione ti deve essere “spiegata”. Francamente: gradiresti davvero che qualche capuzziello te la spiegasse o preferiamo tutti misurarci e confrontarci con questo grattacapo reale?
Caro Daniele Coppin,
concordo; e il programma di Decidiamo Insieme di un anno fa è stato un esempio – credo molto dignitoso - proprio di quel “fare proposte concrete, reali, non sulla politica ma sui problemi veri”. Continuare significa per ciascuno battere un colpo.
A me piacerebbe una cosa semplice che semplice non è e cioè dare seguito ordinato (magari ci si riuscisse!) a quanto andiamo faticosamente proponendo da allora:
La manna dal cielo – si stia tutti certi – non arriverà.
anche io spesso sento un ritmo rap che dalla pancia sale e fa: fujmmuncenne... E confesso che se un giovane mi chiede se deve andarsene rispondo, mio malgrado, di sì. Perché fa bene stare lontano da qui e fa male crescere nutrendo cinismo per poter sopravvivere e abbandonando speranze. Ma io me ne sono fuggito già una volta, in epoca pre-tangentopoli e mi sono recato in giro per otto anni. Per ora non riesco a rifarlo.
Caro Roberto Vallefuoco,
sono d’accordo con il compito che ci affidi: fare opposizione. L’ho gridato insieme a te nel megafono nel mercato di Secondigliano. Teniamo fede all’impegno. E mi pare che, per la mia piccola parte, sto esattamente assolvendo al lavoro di “dimostrare e rendere evidente il fallimento di chi governa”. Non ho cambiato idea. Per non mettere la testa nella sabbia, ho solo posto il problema delle prospettive. Dunque ripeto quel che ho risposto a Norberto Gallo: “O si lavora per una vittoria della opposizione di centro-destra a Napoli o per un Guazzaloca o mini-Sarkozi partenopeo ma a) bisogna essere di centro-destra e b) è un compito comunque gravoso viste le estese e solide consociazioni destra-sinistra e vista la pochezza culturale degli interlocutori di quel campo, con poche eccezioni. Oppure ci si confronta con ogni possibile contraddizione interna al campo di centro-sinistra e ogni spiraglio, compreso il PD, e senza farsi troppe illusioni. Ma – sia chiaro – questo lavoro non annulla la prioritaria funzione di opposizione. Anzi, semmai la rafforza. Quando dico questo qualcuno scrive, su taluni blog, di mission impossible di Rossi-Doria. Ed è più che possible che così sia, intendiamoci. Ma convengo con te: non è un falso problema. E’ il problema politico. L’unico punto su cui forse dissento è che sembri chiedere che la sua soluzione ti deve essere “spiegata”. Francamente: gradiresti davvero che qualche capuzziello te la spiegasse o preferiamo tutti misurarci e confrontarci con questo grattacapo reale?
Caro Daniele Coppin,
concordo; e il programma di Decidiamo Insieme di un anno fa è stato un esempio – credo molto dignitoso - proprio di quel “fare proposte concrete, reali, non sulla politica ma sui problemi veri”. Continuare significa per ciascuno battere un colpo.
A me piacerebbe una cosa semplice che semplice non è e cioè dare seguito ordinato (magari ci si riuscisse!) a quanto andiamo faticosamente proponendo da allora:
- un incontro “casta e municipalità a Napoli” sulla scia del grande lavoro che su ciò ha fatto Norberto Gallo;
- un incontro su Bagnoli su cui abbiamo fatto un appello firmato da molti;
- un osservatorio sulla trasparenza nei processi decisionali in Campania su cui alcuni di noi hanno risposto ieri a Demarco;
- … e mi piacerebbe anche una ”assemblea informata” sui rifiuti, dato che, insieme ad altri (come Fraba), ho proposto di impegnarsi su una iniziativa ad hoc.
La manna dal cielo – si stia tutti certi – non arriverà.
27 maggio, 2007
Quesiti aperti
E’ complicato orientarsi. E dunque è utile il confronto. Vero.
So molto, molto bene che, per risolvere le cose, non basta l’indignazione (che pure assove a una funzione in democrazia) né solo chiedere le dimissioni – come ho fatto - di chi è responsabile del disastro che abbiamo davanti. Ma so altrettanto bene che il mio non è stato un gesto impulsivo o a-politico, come alcuni mi hanno contestato.
Volevo porre la questione da centro-sinistra e volevo farlo anche in un momento speciale, in cui era quasi doveroso dare il segnale di una opposizione al disastro campano e, al contempo, a un’idea del PD “che cambia per non cambiare nulla”, un’idea che pare ora prevalere, a giudicare da come si è formato il comitato dei 45. Per fare un esempio, la Campania significa solo Iervolino e Bassolino.
E aggiungo di aver incontrato con piacere le parole pubblicate, negli ultimi 3 giorni, per esempio da Luisa Bossa che si oppone a questo modo di pensare il PD o da Pietro Cerrito, segretario regionale CISL, che si chiede se non sia il caso di fare uno sciopero contro la regione e individua responsabilità gravissime nei nostri amministratori locali. E da molte altre persone. Posizioni tra loro diverse, certamente. E differenti dalle mie. Ma che – tutte! – fanno comunque un bilancio politico senza appello su chi deve rispondere della crisi irreversibile di questo centro-sinistra campano. E penso all’analisi di Amato Lamberti sull’intreccio tra omicidi di questi giorni, voto di scambio e crisi verticale della poltica nei comuni campani interessati al voto oggi e che ne descrive bene l’atmosfera terribile. Che avevo osservato anche io andando sabato scorso, con gli amici radicali, a Sant’Antimo: c’era un atmosfera che si tagliava col coltello e una grande consapevolezza tra le brave persone di centro-sinistra sul fatto che questa coalizione è arrivata al capolinea e che, se non cambia in fretta e bene, porterà a far vincere una terribile destra populista. E sono stato davvero sollevato dal fondo di Paolo Macry sul Corriere del mezzogiorno quando dice, contro Antonio Polito, che c’è una crisi democratica alla quale non si può più rispondere dicendo semplicemente che “sono stati votati”.
Ma ora voglio tornare a un lungo commento, molto bello, del 19 di maggio, scritto da Mario Mastrocecco. Pone un problema importante e che riguarda ogni ragionamento sulle possibilità di crescita democratica intesa in senso proprio.
Dice Mario, in buona sostanza: caro Marco, dove ti avvii… ma non lo vedi che il bipolarismo in generale – e quello italiano ancor più, per non parlare di quello partenopeo – contribuisce a creare quella casta politica inamovibile alla quale si può solo dare il placet perché “costringe il cittadino a schiacciare una volta ogni 5 anni il pulsante rosso o quello blu e poi, se proprio non ce la fa a stare zitto, a ritagliarsi "spazi pubblici e cittadinanza" dove vuole, ma non dove si comanda”? E, in aggiunta, insiste che il PD è il luogo dove più che altrove è questa la prospettiva.
Come è noto, in questi giorni, altre domande si levano. E proposte che hanno al centro preoccupazioni inverse a quelle di Mario, che conclude il suo commento:
“ho bisogno di continuare a credere che rafforzare la democrazia e "fare cose concrete" per le persone non siano due strade diverse”.
Si tratta di preoccupazioni che hanno al centro la supposta mancata efficacia del governo come azione centrale e centralistica e che si propongono un aggresivo ruolo supplente: Confindustria, una compagine della vita italiana che vuole decidere in diretta e senza perdere tempo con le persone e le procedure… paradosso a sua volta perché si tratta di una compagine che certo non ha avuto solo briciole dai partiti e dal bipolarismo e che spesso ha beneficiato proprio di decisioni centralistiche e sbrigative.
Le considerazioni di Mario, ovviamente, danno voce a molti dubbi e pensieri che ho anche io (credo che questo, oltre al suo metodo di dibattito, sempre molto corretto, spieghi i suoi toni misurati nei miei confronti: mi conosce).
E appaiono essere straordinariamente speculari (lui ne sarà felice, lo so) a quelle sollevate qualche giorno fa, in una intervista sulla Repubblica di Napoli contro Decidiamo Insieme e la sua esperienza di un anno fa da parte di – niente di meno che! – Cirino Pomicino. Pomicino, infatti, ha detto l’opposto: ma voi, che riempivate i cinema con giuste aspirazioni, avete dimostrato per l’ennesima volta che senza partiti niente si produce e da nessuna parte si va.
Monica Tavernini, esponente del comitato di indirizzo di Decidiamo Insieme e convinta sostenitrice del carattere non partitico di Decidiamo Insieme ieri l’altro su La Repubblica di Napoli ha risposto a Pomicino in modo molto bello, spiegando chiatto chiatto a Pomicino che i gesti di vera libertà hanno sempre un valore ma ammettendo, con grande onestà intellettuale, che effettivamente si va poco lontano senza arrischiare un rapporto con i partiti e dunque con i codici della politica i quali, a loro volta, devono però davvero accogliere una dialettica verso quel che si pensa, che si propone e che si muove fuori dal loro ristretto ambito. Cosa che non hanno fatto e che non fanno.
Cosa – aggiungo – che il PD dichiara urbi et orbi di voler fare ma che non riesce per ora o non sa o resiste a fare. O, nella ipotesi di Mario (ragionevole) non farà mai. “Un mostriciattolo dal codice genetico già segnato” – scrive Monica, che pure dichiara che la scommessa sarebbe, appunto, coniugare impegno partecipativo ed effettiva rigenerazione della politica.
E ecco ieri, sul Corriere del Mezzogiorno il fondo del suo direttore Marco Demarco:
“Forse è venuto il momento di scindere radicalmente le responsabilità: da una parte quelle dell'attuale «casta» dirigente e dall'altro quelle della Napoli che non intende lasciarsi coinvolgere in un fallimento ormai epocale. Com'è possibile tollerare ancora un governo locale che ormai non governa più nulla? Per anni Bassolino ha commissariato la Iervolino. Poi Prodi ha commissariato Bassolino. Infine Napolitano ha commissariato tutti con la forza morale dei suoi appelli. Sperare di poter arrivare così fino alla scadenza dei mandati elettorali della Iervolino e di Bassolino è pura follia. Né, d'altro canto, ci si può impiccare alla impraticabilità delle dimissioni che, nell'immediato, nulla risolverebbero. Una città che non è in grado di dare una spallata a questo ceto politico, fosse solo per scuoterlo come un albero e liberarlo dalle foglie morte, è una città condannata alla rassegnazione.
I partiti organizzino le loro manifestazioni pro e contro l'attuale maggioranza, ma i sindacati, gli imprenditori, il mondo delle parrocchie e delle associazioni democratiche incomincino a pensare a un'autonoma mobilitazione straordinaria. Il tempo è maturo, prova ne è l'entusiasmo suscitato da quel «Basta!» stampato sulla nostra prima pagina di qualche giorno fa. Chi ha idee e proposte si faccia avanti. Noi siamo pronti a raccoglierle.”
Egli invita dunque nuovamente a quel movimento che non teme di fare a meno dei partiti, in qualche modo nella direzione della nostra esperienza di un anno fa.
Siamo di nuovo lì. Ma questo non ci deve esaltare. Al contrario: non esalta avere avuto ragione e non averla potuto fare valere – per ragioni obiettive e errori soggettivi pur nello slancio coraggioso, libero e generoso che tanti non hanno fatto.
Mario, temo per te, per me, che si ripropone il problema della politica, del come scardinare questo sistema di potere. Perché "fare cose concrete" per le persone è stato dal 1975 – l’ho già scritto – la mia risposta individuale e professionale alla crisi costante della democrazia italiana. E va benissimo e –aggiungo - probabilmente, alla fine, sarò “portato dalle cose” a ritornare proprio a questo.
Ma si deve pur constatare che non basta, che i nodi tornano al pettine. E certo non si può eludere questo campo di confronto. E di battaglia.
E mi chiedo se le persone che credono che la crisi politica riguarda la vita dei cittadini possano ancora esplorare e tentare forme di denuncia, presenza, aggregazione e proposta senza per forza ogni volta pensarle solo come esterne ai partiti…
E’ una domanda che oggi ci riguarda in Campania ma che, in questi giorni, coinvolge i circuiti nazionali, blog ecc. delle persone vicine al futuro PD che non intendono tuttavia tollerare una ennesima operazione che riduca tutto a una politica ormai morta da tempo.
So molto, molto bene che, per risolvere le cose, non basta l’indignazione (che pure assove a una funzione in democrazia) né solo chiedere le dimissioni – come ho fatto - di chi è responsabile del disastro che abbiamo davanti. Ma so altrettanto bene che il mio non è stato un gesto impulsivo o a-politico, come alcuni mi hanno contestato.
Volevo porre la questione da centro-sinistra e volevo farlo anche in un momento speciale, in cui era quasi doveroso dare il segnale di una opposizione al disastro campano e, al contempo, a un’idea del PD “che cambia per non cambiare nulla”, un’idea che pare ora prevalere, a giudicare da come si è formato il comitato dei 45. Per fare un esempio, la Campania significa solo Iervolino e Bassolino.
E aggiungo di aver incontrato con piacere le parole pubblicate, negli ultimi 3 giorni, per esempio da Luisa Bossa che si oppone a questo modo di pensare il PD o da Pietro Cerrito, segretario regionale CISL, che si chiede se non sia il caso di fare uno sciopero contro la regione e individua responsabilità gravissime nei nostri amministratori locali. E da molte altre persone. Posizioni tra loro diverse, certamente. E differenti dalle mie. Ma che – tutte! – fanno comunque un bilancio politico senza appello su chi deve rispondere della crisi irreversibile di questo centro-sinistra campano. E penso all’analisi di Amato Lamberti sull’intreccio tra omicidi di questi giorni, voto di scambio e crisi verticale della poltica nei comuni campani interessati al voto oggi e che ne descrive bene l’atmosfera terribile. Che avevo osservato anche io andando sabato scorso, con gli amici radicali, a Sant’Antimo: c’era un atmosfera che si tagliava col coltello e una grande consapevolezza tra le brave persone di centro-sinistra sul fatto che questa coalizione è arrivata al capolinea e che, se non cambia in fretta e bene, porterà a far vincere una terribile destra populista. E sono stato davvero sollevato dal fondo di Paolo Macry sul Corriere del mezzogiorno quando dice, contro Antonio Polito, che c’è una crisi democratica alla quale non si può più rispondere dicendo semplicemente che “sono stati votati”.
Ma ora voglio tornare a un lungo commento, molto bello, del 19 di maggio, scritto da Mario Mastrocecco. Pone un problema importante e che riguarda ogni ragionamento sulle possibilità di crescita democratica intesa in senso proprio.
Dice Mario, in buona sostanza: caro Marco, dove ti avvii… ma non lo vedi che il bipolarismo in generale – e quello italiano ancor più, per non parlare di quello partenopeo – contribuisce a creare quella casta politica inamovibile alla quale si può solo dare il placet perché “costringe il cittadino a schiacciare una volta ogni 5 anni il pulsante rosso o quello blu e poi, se proprio non ce la fa a stare zitto, a ritagliarsi "spazi pubblici e cittadinanza" dove vuole, ma non dove si comanda”? E, in aggiunta, insiste che il PD è il luogo dove più che altrove è questa la prospettiva.
Come è noto, in questi giorni, altre domande si levano. E proposte che hanno al centro preoccupazioni inverse a quelle di Mario, che conclude il suo commento:
“ho bisogno di continuare a credere che rafforzare la democrazia e "fare cose concrete" per le persone non siano due strade diverse”.
Si tratta di preoccupazioni che hanno al centro la supposta mancata efficacia del governo come azione centrale e centralistica e che si propongono un aggresivo ruolo supplente: Confindustria, una compagine della vita italiana che vuole decidere in diretta e senza perdere tempo con le persone e le procedure… paradosso a sua volta perché si tratta di una compagine che certo non ha avuto solo briciole dai partiti e dal bipolarismo e che spesso ha beneficiato proprio di decisioni centralistiche e sbrigative.
Le considerazioni di Mario, ovviamente, danno voce a molti dubbi e pensieri che ho anche io (credo che questo, oltre al suo metodo di dibattito, sempre molto corretto, spieghi i suoi toni misurati nei miei confronti: mi conosce).
E appaiono essere straordinariamente speculari (lui ne sarà felice, lo so) a quelle sollevate qualche giorno fa, in una intervista sulla Repubblica di Napoli contro Decidiamo Insieme e la sua esperienza di un anno fa da parte di – niente di meno che! – Cirino Pomicino. Pomicino, infatti, ha detto l’opposto: ma voi, che riempivate i cinema con giuste aspirazioni, avete dimostrato per l’ennesima volta che senza partiti niente si produce e da nessuna parte si va.
Monica Tavernini, esponente del comitato di indirizzo di Decidiamo Insieme e convinta sostenitrice del carattere non partitico di Decidiamo Insieme ieri l’altro su La Repubblica di Napoli ha risposto a Pomicino in modo molto bello, spiegando chiatto chiatto a Pomicino che i gesti di vera libertà hanno sempre un valore ma ammettendo, con grande onestà intellettuale, che effettivamente si va poco lontano senza arrischiare un rapporto con i partiti e dunque con i codici della politica i quali, a loro volta, devono però davvero accogliere una dialettica verso quel che si pensa, che si propone e che si muove fuori dal loro ristretto ambito. Cosa che non hanno fatto e che non fanno.
Cosa – aggiungo – che il PD dichiara urbi et orbi di voler fare ma che non riesce per ora o non sa o resiste a fare. O, nella ipotesi di Mario (ragionevole) non farà mai. “Un mostriciattolo dal codice genetico già segnato” – scrive Monica, che pure dichiara che la scommessa sarebbe, appunto, coniugare impegno partecipativo ed effettiva rigenerazione della politica.
E ecco ieri, sul Corriere del Mezzogiorno il fondo del suo direttore Marco Demarco:
“Forse è venuto il momento di scindere radicalmente le responsabilità: da una parte quelle dell'attuale «casta» dirigente e dall'altro quelle della Napoli che non intende lasciarsi coinvolgere in un fallimento ormai epocale. Com'è possibile tollerare ancora un governo locale che ormai non governa più nulla? Per anni Bassolino ha commissariato la Iervolino. Poi Prodi ha commissariato Bassolino. Infine Napolitano ha commissariato tutti con la forza morale dei suoi appelli. Sperare di poter arrivare così fino alla scadenza dei mandati elettorali della Iervolino e di Bassolino è pura follia. Né, d'altro canto, ci si può impiccare alla impraticabilità delle dimissioni che, nell'immediato, nulla risolverebbero. Una città che non è in grado di dare una spallata a questo ceto politico, fosse solo per scuoterlo come un albero e liberarlo dalle foglie morte, è una città condannata alla rassegnazione.
I partiti organizzino le loro manifestazioni pro e contro l'attuale maggioranza, ma i sindacati, gli imprenditori, il mondo delle parrocchie e delle associazioni democratiche incomincino a pensare a un'autonoma mobilitazione straordinaria. Il tempo è maturo, prova ne è l'entusiasmo suscitato da quel «Basta!» stampato sulla nostra prima pagina di qualche giorno fa. Chi ha idee e proposte si faccia avanti. Noi siamo pronti a raccoglierle.”
Egli invita dunque nuovamente a quel movimento che non teme di fare a meno dei partiti, in qualche modo nella direzione della nostra esperienza di un anno fa.
Siamo di nuovo lì. Ma questo non ci deve esaltare. Al contrario: non esalta avere avuto ragione e non averla potuto fare valere – per ragioni obiettive e errori soggettivi pur nello slancio coraggioso, libero e generoso che tanti non hanno fatto.
Mario, temo per te, per me, che si ripropone il problema della politica, del come scardinare questo sistema di potere. Perché "fare cose concrete" per le persone è stato dal 1975 – l’ho già scritto – la mia risposta individuale e professionale alla crisi costante della democrazia italiana. E va benissimo e –aggiungo - probabilmente, alla fine, sarò “portato dalle cose” a ritornare proprio a questo.
Ma si deve pur constatare che non basta, che i nodi tornano al pettine. E certo non si può eludere questo campo di confronto. E di battaglia.
E mi chiedo se le persone che credono che la crisi politica riguarda la vita dei cittadini possano ancora esplorare e tentare forme di denuncia, presenza, aggregazione e proposta senza per forza ogni volta pensarle solo come esterne ai partiti…
E’ una domanda che oggi ci riguarda in Campania ma che, in questi giorni, coinvolge i circuiti nazionali, blog ecc. delle persone vicine al futuro PD che non intendono tuttavia tollerare una ennesima operazione che riduca tutto a una politica ormai morta da tempo.
24 maggio, 2007
Un democratico, un galantuomo
Oggi è un giorno di difficile battaglia per la nostra città. Altri ne verranno.
Profondamente rattristato per la recente scomparsa di Carlo Ciccarelli riporto qui di seguito il bellissimo suo ricordo scritto da Monica Tavernini per il sito Decidiamo Insieme.
Grazie Carlo.
Per Carlo Cicarelli
di Monica Tavernini
Chi è stato impegnato nell’organizzazione della campagna elettorale di “Decidiamo Insieme”, un anno fa, ha conosciuto Carlo Cicarelli. Abbiamo saputo solo ieri della sua scomparsa, avvenuta qualche settimana fa. Avvocato, di cultura saldamente laica, dirigente dell’ISVEIMER, e poi, dopo la pensione, Giudice di pace, Carlo non era più un giovanotto - aveva 75 anni - ed era anche già un po’ acciaccato, ma si sobbarcò con una disponibilità straordinaria il duro impegno di autenticare le firme necessarie a presentare la lista e la candidatura di Marco. Presenziò ai banchetti di piazza, alle manifestazioni pubbliche, si rese disponibile presso le sedi e ci permise perfino di disturbarlo a casa per portargli di persona gli ultimi sottoscrittori e gli atti necessari alla presentazione delle candidature: con Antonio Pezzano ci siamo presentati da lui, mettendoci un po’ “scuorno”, la sera tardi come al mattino presto, e sempre, con un sorriso un po’ enigmatico (”ci manderà a quel paese prima o poi?”), prendeva dal cassetto la stilografica e il timbro, meticoloso com’era, e ci risolveva il problema. Non sono mai riuscita a capire se fosse più intenerito o più incazzato per gli aspetti ingenui e disorganizzati della nostra campagna elettorale; forse tutte e due le cose insieme, ma questo non gli impediva di fare tutto quello che gli era possibile.
Quando ho presentato la lista, uno dei “soloni” presidenti delle commissioni elettorali mentre mi contestava la mancanza del timbro dell’Ufficio Giudici di Pace del Tribunale sotto la firma di Carlo (anche questo è successo!), ricordo che mi chiese: “Ma perché vi siete rivolti ai giudici di pace?” E io sbottai: “Perché gli altri, i partiti, hanno i consiglieri comunali e provinciali per far autenticare le firme, e chissà pure se è vero che le hanno raccolte davanti a loro!” Ecco: noi non avevamo quasi nulla per quell’opera improba, ma abbiamo avuto Carlo Cicarelli.
E’ stato dalla nostra parte perché da decenni si era impegnato in politica avendone l’idea alta e nobile di un gran signore, borghese ma non snob, e non sopportava di vedere i partiti affondare nelle pratiche che, ancora una volta nella sua storia, stanno spalancando il baratro nel quale la città precipita. Decise di aiutarci, senza troppe parole: firmando, autenticando, timbrando. Lo stesso spirito lo animava all’inizio degli anni ‘90, quando Ernesto Mostardi ed io l’abbiamo conosciuto: dai referendum elettorali, al circolo di Alleanza Democratica che fondammo nel ‘93. Nella campagna elettorale di quell’anno sostenne con passione ed impegno la candidatura di Tino Santangelo: anche allora i partiti erano ridotti a larve e Carlo sognava ante litteram un “Partito Democratico”. Ma uno di una qualità politica, civile ed umana che non si intravvede oggi, purtroppo. Insomma, ogni volta che annusava nell’aria che qualcosa si era messo in moto per rinnovare la politica, Carlo c’era sempre. Poi, forse, anche a lui come ad altri, quei tentativi lasciavano in bocca l’amaro della delusione, ma … al prossimo ci sarebbe stato di nuovo, potete scommetterci! Grazie di tutto, Carlo, è stato un onore conoscerti. ::
ps. Ieri Monica mi aveva scritto la notizia triste, saputa in ritardo. E solo in ritardo possiamo quindi associarci tutti alle cose che Monica dice qui sopra: Ciao, Carlo. Grazie. E’ stato un onore conoscerti, per tutti noi.
Profondamente rattristato per la recente scomparsa di Carlo Ciccarelli riporto qui di seguito il bellissimo suo ricordo scritto da Monica Tavernini per il sito Decidiamo Insieme.
Grazie Carlo.
Per Carlo Cicarelli
di Monica Tavernini
Chi è stato impegnato nell’organizzazione della campagna elettorale di “Decidiamo Insieme”, un anno fa, ha conosciuto Carlo Cicarelli. Abbiamo saputo solo ieri della sua scomparsa, avvenuta qualche settimana fa. Avvocato, di cultura saldamente laica, dirigente dell’ISVEIMER, e poi, dopo la pensione, Giudice di pace, Carlo non era più un giovanotto - aveva 75 anni - ed era anche già un po’ acciaccato, ma si sobbarcò con una disponibilità straordinaria il duro impegno di autenticare le firme necessarie a presentare la lista e la candidatura di Marco. Presenziò ai banchetti di piazza, alle manifestazioni pubbliche, si rese disponibile presso le sedi e ci permise perfino di disturbarlo a casa per portargli di persona gli ultimi sottoscrittori e gli atti necessari alla presentazione delle candidature: con Antonio Pezzano ci siamo presentati da lui, mettendoci un po’ “scuorno”, la sera tardi come al mattino presto, e sempre, con un sorriso un po’ enigmatico (”ci manderà a quel paese prima o poi?”), prendeva dal cassetto la stilografica e il timbro, meticoloso com’era, e ci risolveva il problema. Non sono mai riuscita a capire se fosse più intenerito o più incazzato per gli aspetti ingenui e disorganizzati della nostra campagna elettorale; forse tutte e due le cose insieme, ma questo non gli impediva di fare tutto quello che gli era possibile.
Quando ho presentato la lista, uno dei “soloni” presidenti delle commissioni elettorali mentre mi contestava la mancanza del timbro dell’Ufficio Giudici di Pace del Tribunale sotto la firma di Carlo (anche questo è successo!), ricordo che mi chiese: “Ma perché vi siete rivolti ai giudici di pace?” E io sbottai: “Perché gli altri, i partiti, hanno i consiglieri comunali e provinciali per far autenticare le firme, e chissà pure se è vero che le hanno raccolte davanti a loro!” Ecco: noi non avevamo quasi nulla per quell’opera improba, ma abbiamo avuto Carlo Cicarelli.
E’ stato dalla nostra parte perché da decenni si era impegnato in politica avendone l’idea alta e nobile di un gran signore, borghese ma non snob, e non sopportava di vedere i partiti affondare nelle pratiche che, ancora una volta nella sua storia, stanno spalancando il baratro nel quale la città precipita. Decise di aiutarci, senza troppe parole: firmando, autenticando, timbrando. Lo stesso spirito lo animava all’inizio degli anni ‘90, quando Ernesto Mostardi ed io l’abbiamo conosciuto: dai referendum elettorali, al circolo di Alleanza Democratica che fondammo nel ‘93. Nella campagna elettorale di quell’anno sostenne con passione ed impegno la candidatura di Tino Santangelo: anche allora i partiti erano ridotti a larve e Carlo sognava ante litteram un “Partito Democratico”. Ma uno di una qualità politica, civile ed umana che non si intravvede oggi, purtroppo. Insomma, ogni volta che annusava nell’aria che qualcosa si era messo in moto per rinnovare la politica, Carlo c’era sempre. Poi, forse, anche a lui come ad altri, quei tentativi lasciavano in bocca l’amaro della delusione, ma … al prossimo ci sarebbe stato di nuovo, potete scommetterci! Grazie di tutto, Carlo, è stato un onore conoscerti. ::
ps. Ieri Monica mi aveva scritto la notizia triste, saputa in ritardo. E solo in ritardo possiamo quindi associarci tutti alle cose che Monica dice qui sopra: Ciao, Carlo. Grazie. E’ stato un onore conoscerti, per tutti noi.
23 maggio, 2007
Priorità
Ci sarà tempo per altri ragionamenti nelle prossime ore e giorni e anche di commenti al dibattito in giro sui blog.
Oggi vi è una priorità. Senso di responsabilità vuole che ora si segua Bertolaso e quanto deciso dal governo - come chiede il Presidente Napolitano.
Ma tale priorità porta con sé una conseguenza politica immediata.
Contestualmente e proprio per dare valore a tale ineludibile richiamo all'interesse generale vanno chieste le dimissioni del sindaco e del governatore.
Va chiesta la apertura della crisi politica in Campania.
Perché il sacrificio dei convincimenti particolari ha senso dinanzi al disastro solo se i responsabili politici del disastro stesso fanno a loro volta un passo di decoro e di onore.

Ma tale priorità porta con sé una conseguenza politica immediata.
Contestualmente e proprio per dare valore a tale ineludibile richiamo all'interesse generale vanno chieste le dimissioni del sindaco e del governatore.
Va chiesta la apertura della crisi politica in Campania.
Perché il sacrificio dei convincimenti particolari ha senso dinanzi al disastro solo se i responsabili politici del disastro stesso fanno a loro volta un passo di decoro e di onore.
22 maggio, 2007
Se ne devono andare
Pubblico oggi, volutamente con ritardo – il suo senso si rafforza con il passare dei giorni - il testo del mio articolo su la Repubblica di Napoli di qualche giorno fa.
Intanto la situazione sta peggiorando, come previsto. Da cittadino ne sono anche spaventato. Quando c’è il rischio di epidemie, quelle vere e i ratti aumentano e entrano nelle scuole non si può certo gioire del fallimento politico di un sistema di potere che ho criticato e contro il quale ho condotto una battaglia democratica un anno fa. Anche perché i suoi rappresentanti a tutto pensano fuorché a dimettersi, che sarebbe l’unico atto civile e sensato da fare.
Domani risponderò ai commenti.

E’ davvero tempo di un crudo bilancio politico.
La Campania, incapace di essere pattumiera di se stessa, è anche la pattumiera dei veleni d’Italia. Ne raccoglie il 43%, per lo più sotto il controllo delle eco-mafie. Ha a tal punto intossicato i terreni e le acque che le percentuali di probabilità di cancro per noi sono 400 per cento quelle della media nazionale, un danno irreparabile, che resterà per molti secoli. Al contempo la Campania, le sue province e i suoi comuni, con rare, encomiabili eccezioni, hanno permesso – ciascuno per le sue responsabilità - che si protraesse nel tempo un ciclo doloso dei rifiuti che non ha pari in Europa: la mancanza di impianti moderni corrisponde a una raccolta dei rifiuti che non consente di trattarli facilmente per creare energia e combustile e questo corrisponde a mancata raccolta differenziata, riciclaggio e rigenerazione che, a sua volta, corrisponde all’uso, fuori da qualsiasi misura accettabile, sia delle discariche che del trasporto con treni fuori dal territorio, due opzioni che drenano denaro pubblico per miliardi di euro a favore della speculazione nella compravendita dei suoli e negli appalti sui trasporti. A tale ciclo si è aggiunto il fatto che, per trattare – si fa per dire - i rifiuti campani sono stati assunti un numero di addetti per abitante almeno 7 volte la media delle altre regioni.
I legami, reali o potenziali, tra politica e camorra su ognuno di questi fronti è tale da far tremare i polsi.
Tutto questo è avvenuto contro la legge nazionale in materia ambientale, che è una buona legge perché funziona ovunque, tranne in Campania. E questa deroga alla legge ha prodotto un tale disastro che il governo nazionale è dovuto intervenire, per decreto, a sua volta in deroga alle leggi dello stato, un paradosso che non trova paragoni.
Così si perpetua l’emergenza, si delega all’ennesimo salvatore della patria il quale almeno assume responsabilità e agisce in extremis e di fronte al pericolo di epidemie. Ma al contempo le maniere a dir poco sbrigative avviliscono la responsabilità partecipativa e i diritti dei cittadini.
E’ su questa scena tragica che accade, grottescamente, quel che cento volte è avvenuto nel Mezzogiorno. Gli esponenti della classe dirigente locale, responsabili del disastro - proprio come raccontava Salvemini cento anni fa – si permettono di criticare l’operato del governo, assumendo il noto ruolo del notabilato sovversivo meridionale che critica in nome dell’antica arte: salvare i voti, la sedia e non assumere responsabilità. Il notabilato più sapiente non si arrischia su tale terreno ma o tace o dice poche cose, lascia ancora una volta passare tempo, tesse le relazioni con il centro, alza i soliti muri di gomma.
Quel che avviene per i rifiuti accade su ogni altro tema della vita comune. Non abbiamo un piano strategico di sviluppo? Non si danno deleghe e soldi promessi alle municipalità? Non si capisce che succede a Bagnoli o perché il comune ha elargito nuovo denaro per la STU di Scampia? Lo stadio di Scampia appare e sparisce come nel gioco delle tre carte? Aumenta la forbice tra ricchi e poveri e le politiche di inclusione non mordono mentre la povertà cresce? Notizia. Breve polemica locale dell’uno o dell’altro. Ogni tanto qualche timido o meno timido intervento del governo centrale a secondo della gravità del tema. Fuoco di fila o muro di gomma del notabilato locale.
Ma intanto muore la politica e la speranza civile. La politica, infatti, non si misura solo con i suoi fallimenti in termini di risultati concreti e di sperpero del nostro denaro. Si misura, in democrazia, anche con l’etica pubblica, legata ad una funzione educativa. Da tale punto di vista la nostra classe politica locale ha condotto una sistematica azione diseducativa verso i cittadini perché è stato insegnato che le cose non si possono risolvere, che non esiste una regola, che quel che si dichiara non ha alcuna corrispondenza con quello che si fa, che nessuno porta responsabilità e che illudersi di proporre nel nome del bene comune è mera ingenuità.
Durante la campagna elettorale, ieri a Napoli e oggi a Palermo, si racconta che si usano i telefonini a prova del voto per ottenere regalie, che si pagano prebende per mettere manifesti nei quartieri difficili e portare i fac-simili – i famosi santini – nelle scale dei palazzi, casa per casa. C’è chi lo fa e chi no. A destra e a sinistra. C’è chi lo denuncia nelle aule dei tribunali o sulla stampa e in tempo utile per ridare forza alla legge. E chi no.
Se accade questo è davvero tempo di ricostruire la politica nel nostro territorio. Su tutta la linea: rifiuti, gestione dei progetti per la città, politiche sociali ma anche modalità di costruzione del consenso.
Ma, per farlo – si tratta di un’opera quasi disperata - va respinta la retorica della volontà e dell’ottimismo. Ci vuole invece una analisi pessimista e intelligente di questi anni disastrosi. Una analisi pubblica. Una riflessione civile. Che implica un ampio, serrato giudizio politico su chi li ha condotti. E che deve evitare l’altalena tra richiami moralistici e salvaguardia della continuità. Non basta il cauto e ben manovrato avvicendamento generazionale qui da noi. Ci vuole, invece, una chiara rottura di continuità. E non solo se ne devono andare i vecchi. Se ne deve andare un modo di intendere la politica che troppo spesso hanno trasmesso, addirittura peggiorato, ai loro eredi.
Intanto la situazione sta peggiorando, come previsto. Da cittadino ne sono anche spaventato. Quando c’è il rischio di epidemie, quelle vere e i ratti aumentano e entrano nelle scuole non si può certo gioire del fallimento politico di un sistema di potere che ho criticato e contro il quale ho condotto una battaglia democratica un anno fa. Anche perché i suoi rappresentanti a tutto pensano fuorché a dimettersi, che sarebbe l’unico atto civile e sensato da fare.
Domani risponderò ai commenti.
E’ davvero tempo di un crudo bilancio politico.
La Campania, incapace di essere pattumiera di se stessa, è anche la pattumiera dei veleni d’Italia. Ne raccoglie il 43%, per lo più sotto il controllo delle eco-mafie. Ha a tal punto intossicato i terreni e le acque che le percentuali di probabilità di cancro per noi sono 400 per cento quelle della media nazionale, un danno irreparabile, che resterà per molti secoli. Al contempo la Campania, le sue province e i suoi comuni, con rare, encomiabili eccezioni, hanno permesso – ciascuno per le sue responsabilità - che si protraesse nel tempo un ciclo doloso dei rifiuti che non ha pari in Europa: la mancanza di impianti moderni corrisponde a una raccolta dei rifiuti che non consente di trattarli facilmente per creare energia e combustile e questo corrisponde a mancata raccolta differenziata, riciclaggio e rigenerazione che, a sua volta, corrisponde all’uso, fuori da qualsiasi misura accettabile, sia delle discariche che del trasporto con treni fuori dal territorio, due opzioni che drenano denaro pubblico per miliardi di euro a favore della speculazione nella compravendita dei suoli e negli appalti sui trasporti. A tale ciclo si è aggiunto il fatto che, per trattare – si fa per dire - i rifiuti campani sono stati assunti un numero di addetti per abitante almeno 7 volte la media delle altre regioni.
I legami, reali o potenziali, tra politica e camorra su ognuno di questi fronti è tale da far tremare i polsi.
Tutto questo è avvenuto contro la legge nazionale in materia ambientale, che è una buona legge perché funziona ovunque, tranne in Campania. E questa deroga alla legge ha prodotto un tale disastro che il governo nazionale è dovuto intervenire, per decreto, a sua volta in deroga alle leggi dello stato, un paradosso che non trova paragoni.
Così si perpetua l’emergenza, si delega all’ennesimo salvatore della patria il quale almeno assume responsabilità e agisce in extremis e di fronte al pericolo di epidemie. Ma al contempo le maniere a dir poco sbrigative avviliscono la responsabilità partecipativa e i diritti dei cittadini.
E’ su questa scena tragica che accade, grottescamente, quel che cento volte è avvenuto nel Mezzogiorno. Gli esponenti della classe dirigente locale, responsabili del disastro - proprio come raccontava Salvemini cento anni fa – si permettono di criticare l’operato del governo, assumendo il noto ruolo del notabilato sovversivo meridionale che critica in nome dell’antica arte: salvare i voti, la sedia e non assumere responsabilità. Il notabilato più sapiente non si arrischia su tale terreno ma o tace o dice poche cose, lascia ancora una volta passare tempo, tesse le relazioni con il centro, alza i soliti muri di gomma.
Quel che avviene per i rifiuti accade su ogni altro tema della vita comune. Non abbiamo un piano strategico di sviluppo? Non si danno deleghe e soldi promessi alle municipalità? Non si capisce che succede a Bagnoli o perché il comune ha elargito nuovo denaro per la STU di Scampia? Lo stadio di Scampia appare e sparisce come nel gioco delle tre carte? Aumenta la forbice tra ricchi e poveri e le politiche di inclusione non mordono mentre la povertà cresce? Notizia. Breve polemica locale dell’uno o dell’altro. Ogni tanto qualche timido o meno timido intervento del governo centrale a secondo della gravità del tema. Fuoco di fila o muro di gomma del notabilato locale.
Ma intanto muore la politica e la speranza civile. La politica, infatti, non si misura solo con i suoi fallimenti in termini di risultati concreti e di sperpero del nostro denaro. Si misura, in democrazia, anche con l’etica pubblica, legata ad una funzione educativa. Da tale punto di vista la nostra classe politica locale ha condotto una sistematica azione diseducativa verso i cittadini perché è stato insegnato che le cose non si possono risolvere, che non esiste una regola, che quel che si dichiara non ha alcuna corrispondenza con quello che si fa, che nessuno porta responsabilità e che illudersi di proporre nel nome del bene comune è mera ingenuità.
Durante la campagna elettorale, ieri a Napoli e oggi a Palermo, si racconta che si usano i telefonini a prova del voto per ottenere regalie, che si pagano prebende per mettere manifesti nei quartieri difficili e portare i fac-simili – i famosi santini – nelle scale dei palazzi, casa per casa. C’è chi lo fa e chi no. A destra e a sinistra. C’è chi lo denuncia nelle aule dei tribunali o sulla stampa e in tempo utile per ridare forza alla legge. E chi no.
Se accade questo è davvero tempo di ricostruire la politica nel nostro territorio. Su tutta la linea: rifiuti, gestione dei progetti per la città, politiche sociali ma anche modalità di costruzione del consenso.
Ma, per farlo – si tratta di un’opera quasi disperata - va respinta la retorica della volontà e dell’ottimismo. Ci vuole invece una analisi pessimista e intelligente di questi anni disastrosi. Una analisi pubblica. Una riflessione civile. Che implica un ampio, serrato giudizio politico su chi li ha condotti. E che deve evitare l’altalena tra richiami moralistici e salvaguardia della continuità. Non basta il cauto e ben manovrato avvicendamento generazionale qui da noi. Ci vuole, invece, una chiara rottura di continuità. E non solo se ne devono andare i vecchi. Se ne deve andare un modo di intendere la politica che troppo spesso hanno trasmesso, addirittura peggiorato, ai loro eredi.
15 maggio, 2007
Come si scardina questo sistema?
Grazie tutti per il dire nel merito.
Parto dall’idea di blocco di potere che viene ri-evocata da Norberto. E dico subito e con forza che io continuo ad essere per scardinare il blocco di potere qui, a Napoli e in Campania.
Una sola domanda, a me stesso, a noi, ai commentatori: come?
Per favore: non rispondete dicendo che ho tradito la mission perché ho firmato un appello di merito, per il sapere nel PD, insieme alle persone che in Italia sono le più competenti di scuola e di educazione - che è il mio campo di lavoro e di passione civile. Sono contento di averlo fatto insieme alla gente che più si è dannata per migliorare il nostro sistema pubblico di istruzione. Ieri ha firmato, per esempio, Clotilde Pontecorvo. L’altro ieri Anna Maria Ajello e Cesare Moreno.
Il fatto che io abbia firmato quel appello, in termini logici, politici e umani, non corrisponde al fatto che uno scelga di stare dentro al blocco di potere campano o di avere trovato un posto al sole altrove….
E' una conclusione impropria. Questo tipo di sillogismi sono una modalità di ragionamento degli hegeliani d'accatto, di cui l'Italia è piena.
E io non lo sono. Vengo da una tradizione che afferma, anzi, il contrario. E voglio citare, per una volta, quella tradizione. Mio padre ha fatto la riforma agraria, oggetto del suo mestiere e della sua competenza, con la DC degli anni '50. Lo ricordate Scelba? Ecco: quella DC. E ha espropriato milioni di ettari di latifondo, assegnandoli a contadini poveri e braccianti, d'accordo con gli USA.
Non è mai stato clericale, non è mai stato anti-comunista, non è mai stato supinamente filo americano. Andava dai politici e dai partiti, belli e brutti, per fare cose possibili. Che erano di merito e non prevalentemente di schieramento. Gli hegeliani del suo tempo lo hanno insultato per decenni così come hanno fatto con Ernesto Rossi, con Capitini, con tanti altri di una Italia ragionevole e riformatrice. Era il PCI a condurre queste danze. Salvo poi, anche qui a babbo morto (in senso letterale, per me), chiedere scusa a quasi 40 anni dai fatti.
Ci sono 1000 altri esempi analoghi nella storia d'Italia e di Napoli, non sono particolarmente illuso ne particolarmente originale (Pirozzi su questo fa alcune citazioni molto appropriate): si possono fare cose imperfette ma buone, nel proprio ambito e non essere a favore del blocco di potere dato.
Perciò, quando mi si ripete che, dato che ho firmato una cosa che ha firmato anche Fioroni il quale è andato alla family day allora vuol dire che sono un potenziale clericale nemico dei DICO e un candidato sostenitore di Bassolino e De Mita mi tremano i polsi. E per favore basta con la cialtroneria intellettuale.
La domanda la ripeto: "come si scardina questo sistema di potere campano?". E posso permettermi di fare di nuovo questa domanda dato che nel mio piccolo la faccia ce la ho messa, i rischi li ho presi, a differenza di troppe anime belle e malpanciste, che hanno sempre criticato più me che Bassolino & Co. O no?
Per onestà intellettuale devo dire che, in democrazia, le ipotesi di risposta sono due:
1 - sostenere l'opposizione, che è la destra, nel nome dell'alternanza e dunque darle quel quid culturale e politico che non ha e provare ad affrancarla dalla evidente collusione con il bassolinismo (ma bisogna anche essere di destra per cultura e sentire personale; io non lo sono);
2 - provare ad usare il PD come un grimaldello, pur nutrendo dubbi e anche pronti a dichiarare fallimento se non funziona.
Questo è, in politica per come è la politica.
C'è qualche altra cosa in giro che sia possibile e dunque realistica? Risposte nel merito, per favore.
Naturalmente, poi, c'è un'altra politica, quella dei diritti e degli spazi pubblici, a partire da quelli degli esclusi. E' la politica di cui ho parlato al congresso DS di Firenze - andatelo a sentire il mio intervento. La conosco bene: è quella che ho praticato ogni giorno dall'aprile 1975 (presa di Saigon da parte dei Vietcong, quando ho smesso di militare in una organizzazione politica) fino ad oggi: 32 anni di vita. Perciò: la battaglia per gli spazi pubblici e di cittadinanza io continuo a farla, sia chiaro e la so anche fare, immodestamente. La farò in DI, finalmente liberata dal mito oppressivo, per me e per tutti, di candidato sindaco – grazie Pirozzi per averlo detto chiaro-chiaro.
Ma non risolve la questione del blocco di potere, anzi, per poter funzionare, un po' la elude.
Vogliamo parlare di questo?
Parto dall’idea di blocco di potere che viene ri-evocata da Norberto. E dico subito e con forza che io continuo ad essere per scardinare il blocco di potere qui, a Napoli e in Campania.
Una sola domanda, a me stesso, a noi, ai commentatori: come?
Per favore: non rispondete dicendo che ho tradito la mission perché ho firmato un appello di merito, per il sapere nel PD, insieme alle persone che in Italia sono le più competenti di scuola e di educazione - che è il mio campo di lavoro e di passione civile. Sono contento di averlo fatto insieme alla gente che più si è dannata per migliorare il nostro sistema pubblico di istruzione. Ieri ha firmato, per esempio, Clotilde Pontecorvo. L’altro ieri Anna Maria Ajello e Cesare Moreno.
Il fatto che io abbia firmato quel appello, in termini logici, politici e umani, non corrisponde al fatto che uno scelga di stare dentro al blocco di potere campano o di avere trovato un posto al sole altrove….
E' una conclusione impropria. Questo tipo di sillogismi sono una modalità di ragionamento degli hegeliani d'accatto, di cui l'Italia è piena.
E io non lo sono. Vengo da una tradizione che afferma, anzi, il contrario. E voglio citare, per una volta, quella tradizione. Mio padre ha fatto la riforma agraria, oggetto del suo mestiere e della sua competenza, con la DC degli anni '50. Lo ricordate Scelba? Ecco: quella DC. E ha espropriato milioni di ettari di latifondo, assegnandoli a contadini poveri e braccianti, d'accordo con gli USA.
Non è mai stato clericale, non è mai stato anti-comunista, non è mai stato supinamente filo americano. Andava dai politici e dai partiti, belli e brutti, per fare cose possibili. Che erano di merito e non prevalentemente di schieramento. Gli hegeliani del suo tempo lo hanno insultato per decenni così come hanno fatto con Ernesto Rossi, con Capitini, con tanti altri di una Italia ragionevole e riformatrice. Era il PCI a condurre queste danze. Salvo poi, anche qui a babbo morto (in senso letterale, per me), chiedere scusa a quasi 40 anni dai fatti.
Ci sono 1000 altri esempi analoghi nella storia d'Italia e di Napoli, non sono particolarmente illuso ne particolarmente originale (Pirozzi su questo fa alcune citazioni molto appropriate): si possono fare cose imperfette ma buone, nel proprio ambito e non essere a favore del blocco di potere dato.
Perciò, quando mi si ripete che, dato che ho firmato una cosa che ha firmato anche Fioroni il quale è andato alla family day allora vuol dire che sono un potenziale clericale nemico dei DICO e un candidato sostenitore di Bassolino e De Mita mi tremano i polsi. E per favore basta con la cialtroneria intellettuale.
La domanda la ripeto: "come si scardina questo sistema di potere campano?". E posso permettermi di fare di nuovo questa domanda dato che nel mio piccolo la faccia ce la ho messa, i rischi li ho presi, a differenza di troppe anime belle e malpanciste, che hanno sempre criticato più me che Bassolino & Co. O no?
Per onestà intellettuale devo dire che, in democrazia, le ipotesi di risposta sono due:
1 - sostenere l'opposizione, che è la destra, nel nome dell'alternanza e dunque darle quel quid culturale e politico che non ha e provare ad affrancarla dalla evidente collusione con il bassolinismo (ma bisogna anche essere di destra per cultura e sentire personale; io non lo sono);
2 - provare ad usare il PD come un grimaldello, pur nutrendo dubbi e anche pronti a dichiarare fallimento se non funziona.
Questo è, in politica per come è la politica.
C'è qualche altra cosa in giro che sia possibile e dunque realistica? Risposte nel merito, per favore.
Naturalmente, poi, c'è un'altra politica, quella dei diritti e degli spazi pubblici, a partire da quelli degli esclusi. E' la politica di cui ho parlato al congresso DS di Firenze - andatelo a sentire il mio intervento. La conosco bene: è quella che ho praticato ogni giorno dall'aprile 1975 (presa di Saigon da parte dei Vietcong, quando ho smesso di militare in una organizzazione politica) fino ad oggi: 32 anni di vita. Perciò: la battaglia per gli spazi pubblici e di cittadinanza io continuo a farla, sia chiaro e la so anche fare, immodestamente. La farò in DI, finalmente liberata dal mito oppressivo, per me e per tutti, di candidato sindaco – grazie Pirozzi per averlo detto chiaro-chiaro.
Ma non risolve la questione del blocco di potere, anzi, per poter funzionare, un po' la elude.
Vogliamo parlare di questo?
12 maggio, 2007
Viva i castori, abbasso le talpe
Mi ha molto sollevato - nel senso di sollievo interiore - il commento di Pirozzi al mio post di ieri. Concordo con lui su più cose: sono decisive, sempre “pratiche di altri soggetti non considerati culturali (così come non vengono riconosciuti politici tanti soggetti che pur si considerano tali), pratiche che saranno "differenti" e in quanto tali costruttive”.
Credo anche che queste pratiche debbano sapersi rappresentare e dunque abbiano bisogno di “pontieri”, altrimenti si assopiscono, tacciono, non sono. Ci vogliono cittadini capaci di governare acque che mutano, creare argini ma fare scorrere la corrente, costruire ponti. Invece di ripetere l’adagio - “ben scavato, vecchia talpa” - oggi serve un inno ai castori, costruttori di dighe e ponti fluidi, intelligenti, modificabili. Spetta a ciascuno essere un po’ castoro: aprire varchi, mettere materiali e provare procedure tra azioni e riflessioni diffuse e istituzioni pubbliche, invadere territori e farsi invadere da un’idea di politica come prove di trasformazione non semplice, largamente conflittuale, aperta a esiti molteplici, a sviluppi da governare in fieri ma senza delirio di rigido e impossibile controllo, a accogliere crisi e risponderne e non solo fuori ma anche dentro gli statuti istituzionali. Caro Pirozzi, per queste ragioni io non sono un entrista. Vorrei restare outsider nelle istituzioni ma anche propormi come ospite gradito al loro interno. Un castoro, che con la coda segnala pericoli, che costruisce cose nuove ma non vi si affeziona troppo, che lavora in gruppo e mai da solo, che sgobba per vie procedurali e non assertive. E’ – lo so – una pretesa fare il castoro nell’Italia della politica gridata e schierata. Ma tant’è. Tu vuoi fare l’outsider e fai bene, sei un castoro lo stesso, lo so; io ho fatto l’outsider per 40 anni e lo rifarò probabilmente; ora voglio stare per un breve tratto a provare la porosità del confine tra mare e terra, tra liquido e solido: se la corrente travolgerà il confine, si tratterà di riprendere la fatica… andare avanti, tornare indietro… Una cosa è certa: la vecchia talpa ha scavato tanto. Ma tanto bene non ha fatto.
Il testo dell’appello per il PD per il sapere dice anche cose ovvie ed è un po’ un temino, concordo; ma non è neanche cattivo, francamente e visto l'andazzo politico italiano il fatto che dei politici scrivano in quel modo quelle cose.
Ma torniamo al centro delle questioni. Una domanda mi perseguita da anni:
Cosa fare di fronte al fallimento del nostro sistema formativo e al fatto che la scuola pubblica italiana non è fattore di discriminazione positiva e di emancipazione reale da molti anni ed è più di classe che al tempo di Don Milani (cadono in questi giorni i 40 anni di Lettera a una professoressa e l’esclusione si è solo spostata dalle montagne dell’Appennino o dai figli degli operai di fabbrica ai poveri metropolitani) - e non solo per colpa della perfida Moratti ma di tanti di noi a sinistra che abbiamo confuso il dire che la scuola è sinonimo di nuova opportunità per tutti con il fatto che lo sia davvero e per ciascuno?
Credo, in verità, che gente come Cesare, Pirozzi, il sottoscritto e tanti amici delle scuole da vari anni questa confusione rassicurante la abbiamo avversata in positivo. E ci siamo accorti che non basta dire per essere. Ma – ecco il punto – non basta neanche “fare nel nostro piccolo”. Ci vuole rappresentanza, cornice, aknowledgment da parte della politica. Ci vuole una politica su questo. E la politica è concreta, certosina, artigianale azione di accompagnamento dentro le istituzioni, i suoi modi, i suoi linguaggi a sostegno del lavoro innovativo nelle scuole e, più in generale, insieme ai ragazzi/e.
Ecco, per provare un'ennesima volta a rispondere in modo politico e dunque concreto, fattivo a questo profondo bisogno (ma si legga di nuovo l'articolo 3 della Costituzione) ho voluto, nel mio campo di impegno professionale e politico di decenni, rischiare una sfida dentro all'area di governo (lavorare a una legge finanziaria che eleva l'obbligo a 16 anni, provare a farla funzionare nei prossimi anni, cambiare un poco i programmi, che oggi si chiamano indicazioni, rispetto a quelli della Moratti, provare a ottimizzare i fondi sulla dispersione, sciupati in modo scandaloso... cose di questo tipo). Per questo da settembre lavoro nella segreteria tecnica di Mariangela Bastico, una signora lontana da me per cultura politica (modenese, di scuola riformista da PCI emiliano) che, tuttavia, in epoca Moratti, ha scritto e attuato una legge regionale chiamata "Non uno di meno" che voleva raggiungere tutti i ragazzi, stranieri e italiani...
E’ certamente gente che se la suona e se la canta, sorella di Pandora, ma ha anche fatto queste cose, non ha rubato, ha creato l’autonomia scolastica (Berlinguer). E, poi, il mondo è davvero strano e complicato, lo dico in modo interrogativo e non provocatorio, credimi, sorella di Pandora: io ho lavorato con De Mauro che è un gigante, che adoro e che la scuola meritava ma De Mauro non è neanche riuscito ad elevare sulla carta l’obbligo a 16 anni e Fioroni sulla carta almeno e ahimé solo in parte sì, poi si vedrà e non sarà facile certo.
Caro anonimo delle 14 e 21, è proprio certo che tutto fa schifo allo stesso modo? E Bastico o Berlinguer sei proprio sicuro che sono uguali a De Mita e Bassolino? Puoi argomentare, per favore?
E tu, anonimo delle 19 e 59 pensi davvero che sono uno interessato solo allo strapuntino nel PD e per questo disposto, a 53 anni a vendersi? Lo schema del tradimento e del venduto è così convincente? Del tuo discorso mi interessa di più la questione del consumo, ecc... Come intervenire su questo a scuola e con i ragazzi? Lo sai che c’è un ampio dibattito e molte pratiche nuove, nelle scuole, per vedere, appunto, come anzicché fermarsi alla petizione di principio?
Comunque convengo che la mia adesione a questo appello è una cosa arrischiata e che gli esiti si toccheranno via via e... starò sul confine, sui varchi, proprio come suggerisce Pirozzi. Sono fatto così, sono una persona di confine. Non lo nascondo certo. L’ho anche scritto nel libro "Napoli centrale", spiegandone la genesi, credo con onestà. Mi dispiace, cara anonima delle 11 e 20, che vuoi le persone tutte ben codificate entro opzioni sempre chiare e non divise e mai con molteplicità di pulsioni e pensieri, anche conflittuali. Mi dispiace per le tue pretese di mondo perfettamente univoco e rassicurante ma è un problema tuo, non mio. E ho due domande che credo facciano parte del dibattito più generale. Prima domanda: qualche doppiezza o dubbio te lo sai raccontare qualche volta tu nel mezzo di questo nostro mondo che non mi pare percorso da unicità e se lo fai non scopri cose, non capisci di più? E non è che a furia di far quadrare tutto intorno a un’idea molto integralista invece rischi di non capire proprio, come nel caso di Ranieri che non è quel Ranieri ma proprio un’altra persona, uno che si occupa da 40 anni di scuola, democrazia partecipativa e società della conoscenza legata alla inclusione sociale? Seconda domanda: ti sei mai chiesta perché quelli che più insistono sull’abrogazione o negazione di quelle duplicità e molteplicità di cui tu dici di diffidare guarda un po’ si chiamano Taliban, George W. Bush, Putin e Ratzinger per nominare solo quelli di oggi giorno e non voler infierire guardando al secolo scorso?
So che dovrò dare conto a me e agli altri di questo mio passo e mi sta bene. E – caro Confucio – proverò a non mettere l’intelligenza al macero, al servizio miope di un partito. Il rischio, in queste cose, c’è e va tenuto presente. Proverò a dare conto di questo viaggio arrischiato.
Ma al contempo - francamente - sono contento che Decidiamo Insieme possa forse avere una spinta ulteriore ad affrancarsi dal tempo della campagna per sindaco - come dice Pirozzi. E io starò dentro D.I. e contro la nomenclatura campana che vuole continuare a fare danni usando anche il PD... Già da tempo lavoro perché D.I. non sia un luogo di sogni di vendetta e di autoreferenziale purismo ma di concreta opposizione, nei limiti delle poche forze, al sistema di potere di Napoli e della Campania, qualcosa dove si è capaci, però, di riflettere tra persone diverse e di contribuire a creare, in condizioni che sono difficili, spazio pubblico, programmi possibili e partecipazione. Un posto da castori.
Da questo punto di vista la firma dell’appello PD del sapere non è l’adesione al PD campano per come si sta configurando, anzi; e questo mi crea indubbi problemi… Cose complicate, lo so.
Credo anche che queste pratiche debbano sapersi rappresentare e dunque abbiano bisogno di “pontieri”, altrimenti si assopiscono, tacciono, non sono. Ci vogliono cittadini capaci di governare acque che mutano, creare argini ma fare scorrere la corrente, costruire ponti. Invece di ripetere l’adagio - “ben scavato, vecchia talpa” - oggi serve un inno ai castori, costruttori di dighe e ponti fluidi, intelligenti, modificabili. Spetta a ciascuno essere un po’ castoro: aprire varchi, mettere materiali e provare procedure tra azioni e riflessioni diffuse e istituzioni pubbliche, invadere territori e farsi invadere da un’idea di politica come prove di trasformazione non semplice, largamente conflittuale, aperta a esiti molteplici, a sviluppi da governare in fieri ma senza delirio di rigido e impossibile controllo, a accogliere crisi e risponderne e non solo fuori ma anche dentro gli statuti istituzionali. Caro Pirozzi, per queste ragioni io non sono un entrista. Vorrei restare outsider nelle istituzioni ma anche propormi come ospite gradito al loro interno. Un castoro, che con la coda segnala pericoli, che costruisce cose nuove ma non vi si affeziona troppo, che lavora in gruppo e mai da solo, che sgobba per vie procedurali e non assertive. E’ – lo so – una pretesa fare il castoro nell’Italia della politica gridata e schierata. Ma tant’è. Tu vuoi fare l’outsider e fai bene, sei un castoro lo stesso, lo so; io ho fatto l’outsider per 40 anni e lo rifarò probabilmente; ora voglio stare per un breve tratto a provare la porosità del confine tra mare e terra, tra liquido e solido: se la corrente travolgerà il confine, si tratterà di riprendere la fatica… andare avanti, tornare indietro… Una cosa è certa: la vecchia talpa ha scavato tanto. Ma tanto bene non ha fatto.
Il testo dell’appello per il PD per il sapere dice anche cose ovvie ed è un po’ un temino, concordo; ma non è neanche cattivo, francamente e visto l'andazzo politico italiano il fatto che dei politici scrivano in quel modo quelle cose.
Ma torniamo al centro delle questioni. Una domanda mi perseguita da anni:
Cosa fare di fronte al fallimento del nostro sistema formativo e al fatto che la scuola pubblica italiana non è fattore di discriminazione positiva e di emancipazione reale da molti anni ed è più di classe che al tempo di Don Milani (cadono in questi giorni i 40 anni di Lettera a una professoressa e l’esclusione si è solo spostata dalle montagne dell’Appennino o dai figli degli operai di fabbrica ai poveri metropolitani) - e non solo per colpa della perfida Moratti ma di tanti di noi a sinistra che abbiamo confuso il dire che la scuola è sinonimo di nuova opportunità per tutti con il fatto che lo sia davvero e per ciascuno?
Credo, in verità, che gente come Cesare, Pirozzi, il sottoscritto e tanti amici delle scuole da vari anni questa confusione rassicurante la abbiamo avversata in positivo. E ci siamo accorti che non basta dire per essere. Ma – ecco il punto – non basta neanche “fare nel nostro piccolo”. Ci vuole rappresentanza, cornice, aknowledgment da parte della politica. Ci vuole una politica su questo. E la politica è concreta, certosina, artigianale azione di accompagnamento dentro le istituzioni, i suoi modi, i suoi linguaggi a sostegno del lavoro innovativo nelle scuole e, più in generale, insieme ai ragazzi/e.
Ecco, per provare un'ennesima volta a rispondere in modo politico e dunque concreto, fattivo a questo profondo bisogno (ma si legga di nuovo l'articolo 3 della Costituzione) ho voluto, nel mio campo di impegno professionale e politico di decenni, rischiare una sfida dentro all'area di governo (lavorare a una legge finanziaria che eleva l'obbligo a 16 anni, provare a farla funzionare nei prossimi anni, cambiare un poco i programmi, che oggi si chiamano indicazioni, rispetto a quelli della Moratti, provare a ottimizzare i fondi sulla dispersione, sciupati in modo scandaloso... cose di questo tipo). Per questo da settembre lavoro nella segreteria tecnica di Mariangela Bastico, una signora lontana da me per cultura politica (modenese, di scuola riformista da PCI emiliano) che, tuttavia, in epoca Moratti, ha scritto e attuato una legge regionale chiamata "Non uno di meno" che voleva raggiungere tutti i ragazzi, stranieri e italiani...
E’ certamente gente che se la suona e se la canta, sorella di Pandora, ma ha anche fatto queste cose, non ha rubato, ha creato l’autonomia scolastica (Berlinguer). E, poi, il mondo è davvero strano e complicato, lo dico in modo interrogativo e non provocatorio, credimi, sorella di Pandora: io ho lavorato con De Mauro che è un gigante, che adoro e che la scuola meritava ma De Mauro non è neanche riuscito ad elevare sulla carta l’obbligo a 16 anni e Fioroni sulla carta almeno e ahimé solo in parte sì, poi si vedrà e non sarà facile certo.
Caro anonimo delle 14 e 21, è proprio certo che tutto fa schifo allo stesso modo? E Bastico o Berlinguer sei proprio sicuro che sono uguali a De Mita e Bassolino? Puoi argomentare, per favore?
E tu, anonimo delle 19 e 59 pensi davvero che sono uno interessato solo allo strapuntino nel PD e per questo disposto, a 53 anni a vendersi? Lo schema del tradimento e del venduto è così convincente? Del tuo discorso mi interessa di più la questione del consumo, ecc... Come intervenire su questo a scuola e con i ragazzi? Lo sai che c’è un ampio dibattito e molte pratiche nuove, nelle scuole, per vedere, appunto, come anzicché fermarsi alla petizione di principio?
Comunque convengo che la mia adesione a questo appello è una cosa arrischiata e che gli esiti si toccheranno via via e... starò sul confine, sui varchi, proprio come suggerisce Pirozzi. Sono fatto così, sono una persona di confine. Non lo nascondo certo. L’ho anche scritto nel libro "Napoli centrale", spiegandone la genesi, credo con onestà. Mi dispiace, cara anonima delle 11 e 20, che vuoi le persone tutte ben codificate entro opzioni sempre chiare e non divise e mai con molteplicità di pulsioni e pensieri, anche conflittuali. Mi dispiace per le tue pretese di mondo perfettamente univoco e rassicurante ma è un problema tuo, non mio. E ho due domande che credo facciano parte del dibattito più generale. Prima domanda: qualche doppiezza o dubbio te lo sai raccontare qualche volta tu nel mezzo di questo nostro mondo che non mi pare percorso da unicità e se lo fai non scopri cose, non capisci di più? E non è che a furia di far quadrare tutto intorno a un’idea molto integralista invece rischi di non capire proprio, come nel caso di Ranieri che non è quel Ranieri ma proprio un’altra persona, uno che si occupa da 40 anni di scuola, democrazia partecipativa e società della conoscenza legata alla inclusione sociale? Seconda domanda: ti sei mai chiesta perché quelli che più insistono sull’abrogazione o negazione di quelle duplicità e molteplicità di cui tu dici di diffidare guarda un po’ si chiamano Taliban, George W. Bush, Putin e Ratzinger per nominare solo quelli di oggi giorno e non voler infierire guardando al secolo scorso?
So che dovrò dare conto a me e agli altri di questo mio passo e mi sta bene. E – caro Confucio – proverò a non mettere l’intelligenza al macero, al servizio miope di un partito. Il rischio, in queste cose, c’è e va tenuto presente. Proverò a dare conto di questo viaggio arrischiato.
Ma al contempo - francamente - sono contento che Decidiamo Insieme possa forse avere una spinta ulteriore ad affrancarsi dal tempo della campagna per sindaco - come dice Pirozzi. E io starò dentro D.I. e contro la nomenclatura campana che vuole continuare a fare danni usando anche il PD... Già da tempo lavoro perché D.I. non sia un luogo di sogni di vendetta e di autoreferenziale purismo ma di concreta opposizione, nei limiti delle poche forze, al sistema di potere di Napoli e della Campania, qualcosa dove si è capaci, però, di riflettere tra persone diverse e di contribuire a creare, in condizioni che sono difficili, spazio pubblico, programmi possibili e partecipazione. Un posto da castori.
Da questo punto di vista la firma dell’appello PD del sapere non è l’adesione al PD campano per come si sta configurando, anzi; e questo mi crea indubbi problemi… Cose complicate, lo so.
11 maggio, 2007
Il sapere è la maggiore risorsa e va valorizzato
Il sapere è la maggiore risorsa del Paese e va valorizzato. E' una priorità finora solo predicata che va, invece, praticata. Perché proprio su questo terreno, in Italia, ha luogo l'esclusione dei giovani che vivono fuori dalle protezioni di classe. E' urgente una iniziativa politica ampia, non strumentale, che raccolga questa sfida. Perciò ho deciso di fare parte del comitato promotore dell'area sapere del PD. Ho firmato questo appello, reso pubblico oggi, insieme a persone del "mio mestiere" con le quali mi confronto e lavoro da molti anni, che si dedicano con tenacia alla battaglia per salvare e migliorare le nostre scuole pubbliche, in particolare Andrea Ranieri, Mariangela Bastico, Luigi Berlinguer, Susanna Mantovani, Mario Ceruti. L'appello è stato firmato anche dai ministri Fioroni e Nicolais. Consiglio di leggerlo. Dice cose che condivido sul rapporto tra conoscenza, partecipazione democratica, sviluppo sostenibile e partecipativo. E aggiunge delle cose di metodo, sul come costruire un partito nuovo, che sono in linea con quanto ho scritto negli ultimi tempi e detto al congresso ds di Firenze.
09 maggio, 2007
Sguardo preoccupato su family day e dintorni

Il bombardamento integralista della Chiesa è e sarà uno dei grandi temi che ci accompagnerà. Dobbiamo dirlo chiaro: non è una mera questione di Dico o non Dico né solo la questione della famiglia. Lo Stato Italiano non è mai stato, dal suo sorgere a Porta Pia e dal tempo del Sillabo, così supino rispetto alla Chiesa. Sembra finita davvero la spinta propulsiva del Risorgimento che, bene o male, aveva tenuto, anche influenzando il partito e la cultura cattolica, che restò esterna alle motivazioni risorgimentali ma memore di Porta Pia. Sì, aveva tenuto fino alla Grande guerra, durante lo stesso fascismo nonostante il Concordato, nella DC della Costituente e di De Gasperi. Il divorzio e l'aborto, poi - non dimentichiamolo per favore - furono possibili perché vi erano ancora spezzoni conservatori e di destra liberale (il PRI, il PLI, lo stesso Psdi) che avevano ruolo di governo anche conservatore ma che "tenevano" su principi di distanza dai diktat della Chiesa, principi ancora risorgimentali. Oggi a destra c'è solo clericalismo, fatte salve alcune isolate personalità. E la Chiesa non è mai stata, da parte sua, così hegeliana, così priva di pietas e di missione accogliente, così poco curiosa e attenta all'altro da sé, così evidentemente anti-conciliare. Certo, ci sono tanti suoi esponenti che sono allarmati e provano altro - penso al cardinal Martini, tra tanti. Ma la Chiesa di Roma, impaurita dal "moderno", si sente debole proprio in merito alla sua missione precipua e attacca. Ma trova una classe dirigente nazionale supina. Non si tratta solo dei vecchi DC. Si tratta, appunto, di tutta l'area conservatrice del Parlamento, come non era stato mai. E si tratta anche di quel scivolamento a sinistra, condito da ricerca interiore o Monte Athos, che dimostra come, con la formazione materialista dialettica o affine, non si tiene di fronte ai nuovi quesiti del mondo perché si è stati, appunto, nutriti solo di dialettica hegeliana e di positivismo logico rassicurante e ora si tentenna e gravemente e, peggio, si rende cosa pubblica e dunque politica, la del tutto naturale ricerca umana individuale intorno agli eterni misteri. I neofiti della ricerca sono pericolosi. E si tentenna tanto più quanto non si ha una tradizione laica vera, liberale, di ricerca aperta e quanto più si è respinto l'etica kantiana in nome di sistemi di pensiero integrali, rigidi o, specularmente, strumentali. C'è dunque una situazione nuova e assai pericolosa nella cultura profonda del Paese. Di fronte a questo stato di cose, davvero preoccupante, la "minorità" dei laici è tanto reale quanto a sua volta creatrice di autogol. La manifestazione a favore dei Dico nella data del family day è il segno e l'emblema della mancata comprensione della gravità e profondità della crisi in atto. Sarebbe stato meglio aprire un fronte più largo, preparare in altra data e altro modo una campagna lunga sul valore dello Stato liberale e laico in una democrazia complessa, tessere qualche alleanza nel fronte avverso, esplorare trasversalità politiche nel nome di principi più larghi. Poi io andrò a difendere i Dico, sia chiaro. Perché è una battaglia di libertà fondamentale. Ma sia altrettanto chiaro: non capire la portata delle cose trascina verso sconfitte. E anche la vicenda del PD non si risolve mica urlando slogan laicisti per salvarsi la coscienza. Il problema è come dare senso e forza alla diversità oggi, a ogni diversità - davanti ai nuovi integralismi. L'insistenza dei Mussi and company su appartenenza e identità in politica è la testimonianza speculare e asserisce a sua volta una cosa grave che è l'idea che i contenitori politici debbano avere sempre a monte e a suggello identità e dunque appartenenza. I lari e i penati per tutti uguali a me fanno schifo e voglio identità plurime e messe in gioco. Da questo punto di vista il PD è meglio perché mescola. Poi: io sono un ebreo di tradizione laica - che si è anche molto incazzato con il rav. Di Segni e ha tifato per Grillini. Ma attenzione: ieri si sono visti i due aum aum e gli ebrei italiani, per quanto "spostati a destra" su molti temi in questi anni, non marceranno uniti tra i monoteisti come è stato in Francia sui temi della famiglia. Dunque, forse, nel conflitto e nella comunicazione, spazi utili se ne trovano, accogliendo le reciproche diversità. E, poi, facciamo pure la nostra doverosa testimonianza ma non ci coglioniamo più di tanto nel bearci nella laicità minoritaria che "tiene". Ci vuole altro pensiero e non è oggi a facile portata di mano.
Le cose dette qui sopra sono un mio commento a una discussione in famiglia nata su "decidiamoinsieme.it"
05 maggio, 2007
Le cose della vita dei cittadini contano di più

Leggo che sono da tenersi segreti i contenuti della recente audizione di Bertolaso sulla perenne crisi dei nostri rifiuti. Secretare il pensiero di chi è incaricato dal governo a cercare di farci uscir fuori dalla monnezza è intollerabile. Leggo anche che c’è chi propone di buttare tutto in modo indifferenziato nelle cave ma fa intendere che sono ipotesi dibattute aumm aumm… Di queste secretazioni e aumm aumm chissà che ne pensa (?) Enzo Amendola, confermato segretario campano dei DS che, nello sforzo di indicare un nuovo slancio fattivo ai DS in vista del PD in Campania, aveva lavorato a procedure più trasparenti in materia di rifiuti… Il 19 maggio viene proposta una manifestazione a Napoli a sostegno della raccolta differenziata casa per casa e di impianti differenziati e soft per lo smaltimento dei nostri rifiuti. Penso che vi si debba subito aderire e favorire uno spazio di dibattito pubblico su questi temi: quali impianti, quale possibile ri-attivizzazione dei cittadini.

Ci vuole in generale una glasnost sui temi della vita a Napoli. Lo dico da mesi. L’ho ripetuto sulla stampa fin troppe volte. Vale per le municipalità che sono sempre più costose e più finte; vale per Bagnoli – su cui nessuno risponde all’appello di decine di cittadini, nessuno. Vale per la ridicola vicenda dello stadio che, apparso al limitar di Scampia, come le isole che affiorano e svaniscono nel nulla di certi racconti di mare e di avventure, ora nuovamente sparisce insieme al suo codazzo di acerrime ed inutili polemiche, alle quali mai sono venute meno le parole del sindaco, vera specialista nel montare e smontare progetti e piani con astio di toni. Ricordate i cento progetti? Che fine fecero? E se qualcuno glielo ricorda si offende. Certo, si è contenti che la follia dello stadio a Scampia forse non sarà e che ci sarà un sensato, forse, rinnovo del S. Paolo. Ma – attenzione! - potrebbe riaffiorare… come ora capita per l’aereoporto di Grazzanise, altro oggetto malsano che viene e che va. Qualcuno timidamente ricorda che le cose andrebbero integrate in modo equilibrato e dibattute pubblicamente, come accade ovunque in Europa e sempre sottovoce – per non turbare le sensibilissime suscettibilità degli amministratori partenopei – chiede del Piano strategico, un cavallo di battaglia della stagione elettorale del centro-sinistra napoletano: “Ma non c’era un piano strategico?”…Sì, il Piano strategico… Chissà che ne dice (?), per esempio, l’assessore Oddati, che ne è il responsabile, anzi, il cui assessorato è stato istituito per questo, il quale è ancora seduto nella giunta meno efficace del Mezzogiorno mentre predica di sviluppo sostenibile con toni che nemmeno i rappresentanti dei campesinos del Chiapas…
A Napoli bisogna riprendere la parola sulle questioni che ci toccano in quanto cittadini. Non ha alcun senso parlare di “alta politica” - compreso il PD o la “cosa alla sua sinistra” – in questa città se lo si fa senza alcuna relazione con le cose della vita di ogni giorno che devono poter vedere una nuova prospettiva e suscitare concrete speranze nei cittadini. E’ un’impresa lunga, frustrante e faticosa. Ma, dimorando qui, non vi si può rinunciare.
24 aprile, 2007
Quando un elemento si muove
Oggi "La Repubblica - Napoli" ospita un mio articolo sul tema del Partito Democratico a Napoli. Lo riporto anche qui per dargli un po' più di un giorno di vita.
Quando un elemento si muove, tutto riprende a girare. Così, anche a Napoli – dove fino a ieri ogni cosa appariva congelata nel nome degli assetti dati – la vicenda del Partito Democratico può aprire una nuova fase di possibilità.
Non si tratta di una prospettiva semplice né già avviata alla quale dare una adesione o fare opposizione a scatola chiusa. Si tratta di uno scenario nuovo che ha in sé segni diversi. Infatti è del tutto evidente che, per un verso, l’unione tra i due partiti parla, a Napoli e in Campania, il linguaggio della tenuta e della stabilità tra due apparati muniti di appartenenza e di una folla di pratiche quotidiane oltre che di dei e di penati (il famoso pantheon) legati alla conservazione e alla mancata soluzione dei problemi connotativi della crisi del nostro territorio. Ma, al contempo, questo stesso processo annuncia, appunto, democrazia e promette di aprire davvero le porte alla partecipazione di cittadini che a quei partiti non hanno mai appartenuto, che non ne hanno a cuore le identità e i simboli e che vi portano, in libertà, i propri percorsi e le proprie personali icone, insieme ad esperienze di soluzione di problemi, dubbi, nuove competenze e ambizioni o di quegli iscritti che vogliono un radicale cambiamento. Da una parte si vuole consolidare la “muraglia di Gerico” con puntelli e terrapieni. Ma dall’altro si permette alle trombe di annunciare nuovi suoni che parlano di premio al merito, ricambio generazionale, più donne in posti chiave. Se, dunque, è vero che qui il Partito Democratico significa De Mita e Bassolino e, più che altrove, una separata e chiara duplice identità, ex-comunista e ex democristiana, conservatrice nel bene e nel male, e, in particolare, nella grande vocazione e competenza nel controllo degli assetti stabiliti, non è detto che tutto debba per forza tenersi ancora così. E nascono dubbi, nuove appartenenze, insperate possibilità mentre si rinnovano vecchie resistenze. Così gli apparati e gli appartenenti ai due partiti sono spinti, al contempo e non senza incertezze, fuori e dentro il proprio campo, a capire se davvero rimescolarsi con linfe nuove e in quali modi, in vista dei meccanismi elettorali per la costituente del PD o se, invece, salvaguardare coi denti le aggregazioni difensive, con le due anime e i relativi meccanismi di mediazione conservate, a custodia degli assetti di sempre, magari cambiando un po’ il linguaggio. E può accadere, come spesso è in questi casi, che quanto maggiori sono i fattori di rigidità nella conservazione tanto più incontrollabili e incombenti possono essere i processi innovativi. E le trombe che chiamano alla effettiva innovazione possono fare crollare le mura.
E questo moto incerto non avviene in un luogo di sostanziale buon governo e di rassicurante sviluppo o di avvio, sia pur faticoso, di un nuovo inizio dopo le elezioni vinte per la terza volta. Si annuncia, invece, nel bel mezzo di una città a economia stagnante e con i più alti tassi di povertà e la più larga forbice nelle differenze sociali, ancora coperta di rifiuti, paurosamente inquinata, senza piano strategico troppe volte annunciato, con i processi decisionali su Bagnoli o su Scampia o sul nuovo stadio tanto confusi quanto poco partecipativi, con le municipalità pomposamente avviate a centinaia di migliaia di euro spesi ma senza poteri reali trasferiti, con le nomine che avvengono in modi non più tollerabili, con le donne fuori dal consiglio comunale ecc. Sono cose che non sono avvenute fuori dai due partiti che ora si uniscono e promettono altro. Perciò: sono tutti temi della cittadinanza – propri della nuova identità potenziale del Partito Democratico annunciata a Firenze e a Cinecittà – aperti come altrettante ferite. Tali temi – il come li si affronta in modi nuovi – diventeranno dirimenti per il carattere effettivo, reale del PD. Sono altrettante “messe alla prova”. E gli occhi di tanti cittadini, dei giovani stanno già guardando proprio questo.
E’ evidente, dunque, che la promessa annunciata di poter fare parte di un luogo politico nuovo da un lato non può avvenire per cooptazioni controllate ma invece per pacifica invasione atta a plasmarne programmi e azioni; dall’altro lato non può avvenire su una astratta adesione a un riformismo generico ma proprio sul piano della inversione di rotta per la salvezza della città in cui si vive. Questa incontrovertibile evidenza, dunque, segna l’agenda politica e la sfida del nuovo partito: esso intanto sarà democratico quanto più saprà spalancare le porte ai cittadini non sul tema pre-moderno della identità né su quello della conservazione di vecchi metodi e potentati ma su proposte innovative, costruite con esperti, cittadini, associazioni, sui nodi critici della vita a Napoli. E’ su questo piano che si gioca il carattere democratico effettivo del nuovo partito e il ricambio di classe dirigente. Se ciò avrà avvio nelle prossime settimane anche le altre aggregazioni – quelle a sinistra e quelle dell’opposizione di destra, i socialisti e i radicali – saranno forse spronate alle trasformazioni annunciate e dunque a competere nelle proposte utili alla città e utilmente alternative. E crescerà una migliore politica a cui fa piacere partecipare. Se ciò non avverrà diminuiranno ancora le possibilità per Napoli di invertire il destino di declino, si chiuderà di nuovo la finestra delle speranze e per tanti rimarrà l’impegno civile ma la politica organizzata resterà lontana.

Non si tratta di una prospettiva semplice né già avviata alla quale dare una adesione o fare opposizione a scatola chiusa. Si tratta di uno scenario nuovo che ha in sé segni diversi. Infatti è del tutto evidente che, per un verso, l’unione tra i due partiti parla, a Napoli e in Campania, il linguaggio della tenuta e della stabilità tra due apparati muniti di appartenenza e di una folla di pratiche quotidiane oltre che di dei e di penati (il famoso pantheon) legati alla conservazione e alla mancata soluzione dei problemi connotativi della crisi del nostro territorio. Ma, al contempo, questo stesso processo annuncia, appunto, democrazia e promette di aprire davvero le porte alla partecipazione di cittadini che a quei partiti non hanno mai appartenuto, che non ne hanno a cuore le identità e i simboli e che vi portano, in libertà, i propri percorsi e le proprie personali icone, insieme ad esperienze di soluzione di problemi, dubbi, nuove competenze e ambizioni o di quegli iscritti che vogliono un radicale cambiamento. Da una parte si vuole consolidare la “muraglia di Gerico” con puntelli e terrapieni. Ma dall’altro si permette alle trombe di annunciare nuovi suoni che parlano di premio al merito, ricambio generazionale, più donne in posti chiave. Se, dunque, è vero che qui il Partito Democratico significa De Mita e Bassolino e, più che altrove, una separata e chiara duplice identità, ex-comunista e ex democristiana, conservatrice nel bene e nel male, e, in particolare, nella grande vocazione e competenza nel controllo degli assetti stabiliti, non è detto che tutto debba per forza tenersi ancora così. E nascono dubbi, nuove appartenenze, insperate possibilità mentre si rinnovano vecchie resistenze. Così gli apparati e gli appartenenti ai due partiti sono spinti, al contempo e non senza incertezze, fuori e dentro il proprio campo, a capire se davvero rimescolarsi con linfe nuove e in quali modi, in vista dei meccanismi elettorali per la costituente del PD o se, invece, salvaguardare coi denti le aggregazioni difensive, con le due anime e i relativi meccanismi di mediazione conservate, a custodia degli assetti di sempre, magari cambiando un po’ il linguaggio. E può accadere, come spesso è in questi casi, che quanto maggiori sono i fattori di rigidità nella conservazione tanto più incontrollabili e incombenti possono essere i processi innovativi. E le trombe che chiamano alla effettiva innovazione possono fare crollare le mura.
E questo moto incerto non avviene in un luogo di sostanziale buon governo e di rassicurante sviluppo o di avvio, sia pur faticoso, di un nuovo inizio dopo le elezioni vinte per la terza volta. Si annuncia, invece, nel bel mezzo di una città a economia stagnante e con i più alti tassi di povertà e la più larga forbice nelle differenze sociali, ancora coperta di rifiuti, paurosamente inquinata, senza piano strategico troppe volte annunciato, con i processi decisionali su Bagnoli o su Scampia o sul nuovo stadio tanto confusi quanto poco partecipativi, con le municipalità pomposamente avviate a centinaia di migliaia di euro spesi ma senza poteri reali trasferiti, con le nomine che avvengono in modi non più tollerabili, con le donne fuori dal consiglio comunale ecc. Sono cose che non sono avvenute fuori dai due partiti che ora si uniscono e promettono altro. Perciò: sono tutti temi della cittadinanza – propri della nuova identità potenziale del Partito Democratico annunciata a Firenze e a Cinecittà – aperti come altrettante ferite. Tali temi – il come li si affronta in modi nuovi – diventeranno dirimenti per il carattere effettivo, reale del PD. Sono altrettante “messe alla prova”. E gli occhi di tanti cittadini, dei giovani stanno già guardando proprio questo.
E’ evidente, dunque, che la promessa annunciata di poter fare parte di un luogo politico nuovo da un lato non può avvenire per cooptazioni controllate ma invece per pacifica invasione atta a plasmarne programmi e azioni; dall’altro lato non può avvenire su una astratta adesione a un riformismo generico ma proprio sul piano della inversione di rotta per la salvezza della città in cui si vive. Questa incontrovertibile evidenza, dunque, segna l’agenda politica e la sfida del nuovo partito: esso intanto sarà democratico quanto più saprà spalancare le porte ai cittadini non sul tema pre-moderno della identità né su quello della conservazione di vecchi metodi e potentati ma su proposte innovative, costruite con esperti, cittadini, associazioni, sui nodi critici della vita a Napoli. E’ su questo piano che si gioca il carattere democratico effettivo del nuovo partito e il ricambio di classe dirigente. Se ciò avrà avvio nelle prossime settimane anche le altre aggregazioni – quelle a sinistra e quelle dell’opposizione di destra, i socialisti e i radicali – saranno forse spronate alle trasformazioni annunciate e dunque a competere nelle proposte utili alla città e utilmente alternative. E crescerà una migliore politica a cui fa piacere partecipare. Se ciò non avverrà diminuiranno ancora le possibilità per Napoli di invertire il destino di declino, si chiuderà di nuovo la finestra delle speranze e per tanti rimarrà l’impegno civile ma la politica organizzata resterà lontana.
23 aprile, 2007
L'intervento al congresso DS
Radio Radicale ha trasmesso e registrato tutto il congresso DS di Firenze e quello della Margherita, come fa per tutte le principali iniziative politche italiane, e anche per le meno principali. Per questo ha messo in onda anche il mio intervento di 11 minuti e una breve intervista.
Per commenti di più vasto respiro ci sentiremo al più presto, spero.
Ma per ora il video su Radio Radicale sembra non funzionare. Se non è così avvertitemi nei commenti.
Per commenti di più vasto respiro ci sentiremo al più presto, spero.
Ma per ora il video su Radio Radicale sembra non funzionare. Se non è così avvertitemi nei commenti.
19 aprile, 2007
Parlerò al congresso DS di Firenze
Domani parlerò al congresso nazionale dei DS a Firenze.
Sono stato invitato da Andrea Ranieri, responsabile nazionale scuola, come uno degli esterni che porta testimonianza di analisi e di proposta. Lo vivo come la continuazione del mio lavoro di questi mesi a sostegno dell’azione di governo nell’ambito della scuola e dell’educazione. Sto facendo il tecnico. Sto operando nella logica di fare funzionare meglio le cose sapendo bene che si tratta di una fatica contraddittoria, di un artigianato imperfetto. Sono stato chiamato nella segreteria tecnica del vice-ministro Bastico, DS, per occuparmi del nuovo obbligo di istruzione a 16 anni. Faccio parte della commissione nazionale sulle indicazioni per la scuola di base che dovranno sostituire quelle della Moratti. Lavoro per ottimizzare fondi e dispositivi sulla dispersione scolastica – una vera piaga dell’Italia che nega i diritti dei ragazzi più poveri, soprattutto meridionali. Certamente parlerò di scuola, di esclusione dei giovani, di un welfare nuovo per il Mezzogiorno – come ho anticipato al cronista de Il Mattino di oggi.
Ma ho pochi minuti di tempo e intendo usare questa tribuna per dire alcune cose di carattere politico generale. Ecco la scaletta che mi sono fatto:
1. Non sono mai stato iscritto ai DS né al PDS né al PCI. Non ho mai avuto una tessera di partito. La politica così com’è non mi attrae, come a tanti. Sono interessato al Partito democratico e voglio il confronto vero ma non aderisco ora e certamente non aderisco al buio. Si può fare politica anche altrimenti, sono 30 anni che lo faccio. Penso, dunque, che non sia un’opportunità in sé e per sé ma solo a determinate condizioni.
2. L’interesse politico per il sommovimento prodotto dalla proposta del PD non sta dunque nel essere a favore o contro “a prescindere” ma nel seguire e giudicare serenamente il processo e, però, volere e sapere declinare le condizioni o almeno alcune condizioni-chiave capaci di avere una valenza assolutamente dirimente sia reale che simbolica. E tali condizioni, a mio parere, sono legate almeno ad alcune questioni prioritarie che riguardano la vita della società in cui viviamo e quella di ciascuno.
- Una prima questione riguarda il merito delle politiche verso i più deboli e verso il Mezzogiorno: si devono scegliere le vie di un welfare nuovo e davvero partecipativo e inclusivo e dedicarci ingenti risorse ma senza più sprechi. Farò brevi esempi.
- Una seconda questione riguarda la scelta dei gruppi dirigenti e degli amministratori a tutti i livelli: interessa che davvero si inverta la rotta e si scelga in modo democratico ma anche per merito e competenze, perché si è portatori di esperienze e di sapere, perché si è praticato metodo e cultura partecipativi.
- Una terza questione riguarda una radicale inversione delle politiche per l’ambiente. L’agenda di Al Gore, per intendersi, è l’agenda dei giovani e va sostenuta subito e nei fatti e implica scelte e giudizi su classi dirigenti.
- Qualsiasi sia l’alchimia tra partiti sulla legge elettorale una cosa è certa: il listone scelto dai vertici dei partiti è intollerabile. E – sia chiaro - non basta aggiungere l’antidoto delle primarie. Gli elettori devono poter scegliere. Gli elettori!
Spero di trovare il ritmo e il piglio giusti. Farò sapere e metterò qui il dettaglio dell’intervento.
Sono stato invitato da Andrea Ranieri, responsabile nazionale scuola, come uno degli esterni che porta testimonianza di analisi e di proposta. Lo vivo come la continuazione del mio lavoro di questi mesi a sostegno dell’azione di governo nell’ambito della scuola e dell’educazione. Sto facendo il tecnico. Sto operando nella logica di fare funzionare meglio le cose sapendo bene che si tratta di una fatica contraddittoria, di un artigianato imperfetto. Sono stato chiamato nella segreteria tecnica del vice-ministro Bastico, DS, per occuparmi del nuovo obbligo di istruzione a 16 anni. Faccio parte della commissione nazionale sulle indicazioni per la scuola di base che dovranno sostituire quelle della Moratti. Lavoro per ottimizzare fondi e dispositivi sulla dispersione scolastica – una vera piaga dell’Italia che nega i diritti dei ragazzi più poveri, soprattutto meridionali. Certamente parlerò di scuola, di esclusione dei giovani, di un welfare nuovo per il Mezzogiorno – come ho anticipato al cronista de Il Mattino di oggi.
Ma ho pochi minuti di tempo e intendo usare questa tribuna per dire alcune cose di carattere politico generale. Ecco la scaletta che mi sono fatto:
1. Non sono mai stato iscritto ai DS né al PDS né al PCI. Non ho mai avuto una tessera di partito. La politica così com’è non mi attrae, come a tanti. Sono interessato al Partito democratico e voglio il confronto vero ma non aderisco ora e certamente non aderisco al buio. Si può fare politica anche altrimenti, sono 30 anni che lo faccio. Penso, dunque, che non sia un’opportunità in sé e per sé ma solo a determinate condizioni.
2. L’interesse politico per il sommovimento prodotto dalla proposta del PD non sta dunque nel essere a favore o contro “a prescindere” ma nel seguire e giudicare serenamente il processo e, però, volere e sapere declinare le condizioni o almeno alcune condizioni-chiave capaci di avere una valenza assolutamente dirimente sia reale che simbolica. E tali condizioni, a mio parere, sono legate almeno ad alcune questioni prioritarie che riguardano la vita della società in cui viviamo e quella di ciascuno.
- Una prima questione riguarda il merito delle politiche verso i più deboli e verso il Mezzogiorno: si devono scegliere le vie di un welfare nuovo e davvero partecipativo e inclusivo e dedicarci ingenti risorse ma senza più sprechi. Farò brevi esempi.
- Una seconda questione riguarda la scelta dei gruppi dirigenti e degli amministratori a tutti i livelli: interessa che davvero si inverta la rotta e si scelga in modo democratico ma anche per merito e competenze, perché si è portatori di esperienze e di sapere, perché si è praticato metodo e cultura partecipativi.
- Una terza questione riguarda una radicale inversione delle politiche per l’ambiente. L’agenda di Al Gore, per intendersi, è l’agenda dei giovani e va sostenuta subito e nei fatti e implica scelte e giudizi su classi dirigenti.
- Qualsiasi sia l’alchimia tra partiti sulla legge elettorale una cosa è certa: il listone scelto dai vertici dei partiti è intollerabile. E – sia chiaro - non basta aggiungere l’antidoto delle primarie. Gli elettori devono poter scegliere. Gli elettori!
Spero di trovare il ritmo e il piglio giusti. Farò sapere e metterò qui il dettaglio dell’intervento.
16 aprile, 2007
Un documento sulla scuola di base italiana
Nelle ultime settimane ho lavorato, insieme alla commissione nazionale di cui faccio parte, al documento che dovrà fare da guida culturale alla riscrittura delle indicazioni – i programmi, per intendersi – della scuola di base italiana: scuola dell’infanzia, scuola primaria (elementare), scuola secondaria di I grado (media). Le indicazioni sostituiranno quelle della Moratti, tanto criticate. Il 3 aprile si è svolto a Roma un affollato seminario nazionale di presentazione di questo documento-guida titolato“Cultura Scuola Persona. Verso le indicazioni nazionali per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo di istruzione”.
Ha introdotto il documento Edgar Morin. E ne hanno sostenuto i contenuti alcuni studiosi italiani di diverse aree scientifiche e umanistiche: Edoardo Boncinelli, Francesco Paolo Casavola, Anna Maria Chiavacci Leonardi, Roberta De Monticelli, Ezio Raimondi, Edoardo Vesentini, Giovanni Maria Vian.
Il governo, il ministro – almeno nelle intenzioni esplicitate – intendono aprire così una fase di confronto partecipativo con la scuola. “Le riforme – scrive il Ministro Fioroni nell’introduzione del documento – non si fanno senza confronto e collaborazione; richiedono persino una forte passione; pretendono comunque non solo il contributo impegnato di tutti e di ciascuno, ma pure uno sforzo comune di condivisione il più possibile ampio e convinto. Il mio augurio è che l’itinerario che abbiamo intrapreso raggiunga i risultati che il Paese e la sua scuola giustamente si attendono”.
Se sarà davvero così lo vedremo nei prossimi mesi. Non tutti i segnali sono rassicuranti, purtroppo. Ma penso che ci si debba battere fortemente per spingere i processi partecipativi nel senso delle cose dichiarate… che sappiamo non essere sempre quelle effettive. Gli esiti dipendono anche da noi.
Intanto il merito culturale del documento – che riporto qui di seguito integralmente perché (altro segnale non rassicurante!) non è facile da trovare in rete – sarebbe interessante leggerlo e dibatterlo anche alla luce di una spinta a superare la situazione di minorità della nostra città, che ha una grande pratica di scuola difficile ma che stenta ad avere luoghi pubblici nei quali poter dibattere la prospettiva nella quale si inscrive la azione di ogni giorno, così difficile e faticosa.
La cosa che più mi colpisce e addolora – di questa mia partecipazione a una elaborazione importante e che continuerà con la stesura delle vere e proprie indicazioni per i tre gradi di scuola di base – è che sono l’unico docente e il solo meridionale della commissione.
Come si vede, le cose non sono affatto semplici anche quando sono cose molto serie e forse promettenti.
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Ministero della Pubblica Istruzione
CULTURA SCUOLA PERSONA: verso le indicazioni nazionali per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo di istruzione, Roma 2007
Tra gli impegni qualificanti assunti all’inizio del mio mandato vi era quello di mettere le istituzioni scolastiche nelle condizioni di sviluppare la loro autonomia educativa e didattica, senza che ciò significasse passare dal centralismo burocratico allo spontaneismo improduttivo.
Tale impegno si è tradotto in questi mesi in una significativa attività mirata a giungere in tempi ragionevoli alla revisione delle attuali “Indicazioni Nazionali” per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo di istruzione. Gli esiti di questo primo tempo di analisi e di ricerca si sono tradotti in questo “Documento di base“, elaborato da una Commissione di studiosi e di esperti presieduta dal professore Mauro Ceruti.
Si avvia così un percorso di dialogo e di confronto che richiede il protagonismo non solo del mondo della scuola “militante” - peraltro già da tempo coinvolto in una operazione di “ascolto” - ma anche l’apporto costruttivo dell’associazionismo professionale e disciplinare dei docenti, nonché delle articolate realtà della società politica e civile del Paese: dal Parlamento agli Enti locali, dal mondo dell’Università e della Ricerca alle Organizzazioni sindacali, dalle Associazioni delle famiglie e degli studenti all’universo dei media. Sono queste le componenti che - a vario titolo coinvolte nel sistema formativo - sono direttamente interessate a un suo organico e armonioso sviluppo.
Le riforme non si fanno senza confronto e collaborazione; richiedono persino una forte passione; pretendono comunque non solo il contributo impegnato di tutti e di ciascuno, ma pure uno sforzo comune di condivisione il più possibile ampio e convinto.
Il mio augurio è che l’itinerario che abbiamo intrapreso raggiunga i risultati che il Paese e la sua scuola giustamente si attendono.
Giuseppe Fioroni
Ministro della Pubblica Istruzione
LA SCUOLA NEL NUOVO SCENARIO
In un tempo molto breve abbiamo vissuto il passaggio da una società relativamente stabile a una società caratterizzata da molteplici cambiamenti e discontinuità. Questo nuovo scenario è ambivalente: per ogni persona, per ogni comunità, per ogni società si moltiplicano sia i rischi che le opportunità.
Gli ambienti in cui la scuola è immersa sono più ricchi di stimoli culturali, ma anche più contraddittori. Oggi l’apprendimento scolastico è solo una delle tante esperienze di formazione che i bambini e gli adolescenti vivono e per acquisire competenze specifiche spesso non vi è bisogno dei contesti scolastici. Ma proprio per questo la scuola non può e non deve abdicare al compito di scoprire la capacità degli studenti di dare senso alla varietà delle loro esperienze, al fine di ridurre la frammentazione e il carattere episodico che rischiano di caratterizzare la vita dei bambini e degli adolescenti.
L’orizzonte territoriale della scuola si allarga. Ogni specifico territorio possiede legami con le varie aree del mondo e con ciò stesso costituisce un microcosmo che su scala locale riproduce opportunità, interazioni, tensioni, convivenze globali. Anche ogni singola persona, nella sua esperienza quotidiana, deve tener conto di informazioni sempre più numerose ed eterogenee e si deve confrontare con la pluralità delle culture. Nel suo itinerario formativo ed esistenziale lo studente si trova a interagire con culture diverse, senza tuttavia avere strumenti adatti per comprenderle e metterle in relazione con la propria. Alla scuola spetta il compito di fornire supporti adeguati affinché ogni persona sviluppi un’identità consapevole e aperta.
Non dobbiamo però dimenticare che in questa situazione di potenziale ricchezza formativa permangono vecchie forme di analfabetismo e di emarginazione culturale. Queste si intrecciano con analfabetismi di ritorno, che rischiano di impedire a molti l’esercizio di una piena cittadinanza. Inoltre, la diffusione delle tecnologie di informazione e di comunicazione, insieme a grandi opportunità, rischia di introdurre anche serie penalizzazioni nelle possibilità di espressione di chi non ha ancora accesso a tali tecnologie. Questa situazione nella scuola è ancora più evidente. Allo stato attuale delle cose, infatti, le relazioni con gli strumenti informatici sono assai diseguali fra gli studenti come fra gli insegnanti.
Anche le relazioni fra il sistema formativo e il mondo del lavoro stanno rapidamente cambiando. Ogni persona si trova ricorrentemente nella necessità di riorganizzare e reinventare i propri saperi, le proprie competenze e persino il proprio stesso lavoro. Le tecniche e le competenze diventano obsolete nel volgere di pochi anni. Per questo l’obiettivo della scuola non può essere soprattutto quello di inseguire lo sviluppo di singole tecniche e competenze; piuttosto, è quello di formare saldamente ogni persona sul piano cognitivo e culturale, affinché possa affrontare positivamente l’incertezza e la mutevolezza degli scenari sociali e professionali, presenti e futuri. Le trasmissioni standardizzate e normative delle conoscenze, che comunicano contenuti invarianti pensati per individui medi, non sono più adeguate. Al contrario, la scuola può e deve realizzare percorsi formativi sempre più rispondenti alle inclinazioni personali degli studenti, nella prospettiva di valorizzare gli aspetti peculiari della personalità di ognuno.
In tale scenario, alla scuola spettano alcune finalità specifiche. La scuola deve offrire agli studenti occasioni di apprendimento dei saperi e dei linguaggi culturali di base; deve far sì che gli studenti acquisiscano gli strumenti di pensiero necessari per apprendere a selezionare le informazioni; deve promuovere negli studenti la capacità di elaborare metodi e categorie che siano in grado di fare da bussola negli itinerari personali; deve favorire l’autonomia di pensiero degli studenti, orientando la propria didattica alla costruzione di saperi a partire da concreti bisogni formativi.
La scuola realizza appieno la propria funzione pubblica impegnandosi, in questa prospettiva, per il successo scolastico di tutti gli studenti, con una particolare attenzione al sostegno delle varie forme di diversità o di svantaggio. Questo comporta saper accettare la sfida che la diversità pone: innanzi tutto nella classe, dove le diverse situazioni individuali vanno riconosciute e valorizzate, evitando che la differenza si trasformi in disuguaglianza; inoltre nel Paese, affinché le penalizzazioni sociali, economiche, culturali non impediscano il raggiungimento degli essenziali obiettivi di qualità che è doveroso garantire.
CENTRALITÀ DELLA PERSONA
Le finalità della scuola devono essere definite a partire dalla persona che apprende, con l’originalità del suo percorso individuale e con l’unicità della rete di relazioni che la legano alla famiglia e agli ambiti sociali. La definizione e la realizzazione delle strategie educative e didattiche devono sempre tener conto della singolarità di ogni persona, della sua articolata identità, delle sue capacità e delle sue fragilità, nelle varie fasi di sviluppo e di formazione.
Lo studente è posto al centro dell’azione educativa in tutti i suoi aspetti: cognitivi, affettivi, relazionali, corporei, estetici, etici, spirituali. In questa prospettiva, i docenti dovranno pensare e realizzare i loro progetti educativi e didattici non per individui astratti, ma per persone che vivono qui e ora, che sollevano precise domande esistenziali, che vanno alla ricerca di orizzonti di significato.
Sin dai primi anni di scolarizzazione è importante che i docenti definiscano le loro proposte in una relazione costante con i bisogni fondamentali e i desideri dei bambini e degli adolescenti. È altrettanto importante valorizzare simbolicamente i momenti di passaggio che segnano le tappe principali di apprendimento e di crescita di ogni studente.
Particolare cura deve essere contemporaneamente posta alla formazione della classe come gruppo, alla promozione dei legami cooperativi fra i suoi componenti, alla gestione degli inevitabili conflitti indotti dalla socializzazione. La scuola si deve costruire come luogo accogliente, coinvolgendo in questo compito gli studenti stessi. Si deve esplicitare l’importanza delle condizioni che favoriscono lo star bene a scuola, al fine di ottenere la partecipazione più ampia dei bambini e degli adolescenti a un progetto educativo condiviso. La formazione di importanti legami di gruppo non contraddice la scelta di porre la persona al centro dell’azione educativa, ma è al contrario condizione indispensabile per lo sviluppo della personalità di ognuno.
La scuola deve porre le basi del percorso formativo dei bambini e degli adolescenti sapendo che esso proseguirà in tutte le fasi successive della vita. In tal modo deve fornire le chiavi per apprendere ad apprendere, per costruire e per trasformare le mappe dei saperi rendendole continuamente coerenti con la rapida e spesso imprevedibile evoluzione delle conoscenze e dei loro oggetti. Si tratta di elaborare gli strumenti di conoscenza necessari per comprendere i contesti naturali, sociali, culturali, antropologici nei quali gli studenti si troveranno a vivere e ad operare.
PER UNA NUOVA CITTADINANZA
La scuola persegue una doppia linea formativa: verticale e orizzontale. La linea verticale esprime l’esigenza di impostare una formazione che possa poi continuare lungo l’intero arco della vita; quella orizzontale indica la necessità di un’attenta collaborazione fra la scuola e gli attori extrascolastici con funzioni a vario titolo educative: la famiglia in primo luogo.
Insegnare le regole del vivere e del convivere è per la scuola un compito oggi ancora più ineludibile rispetto al passato, perché sono molti i casi nei quali le famiglie incontrano difficoltà più o meno grandi nello svolgere il loro ruolo educativo.
La scuola non può interpretare questo compito come semplice risposta a un’emergenza. Non deve trasformare le sollecitazioni che le provengono da vari ambiti della società in un moltiplicarsi di microprogetti che investano gli aspetti più disparati della vita degli studenti, con l’intento di definire norme di comportamento specifiche per ogni situazione. L’obiettivo non è di accompagnare passo dopo passo lo studente nella quotidianità di tutte le sue esperienze, bensì di proporre un’educazione che lo spinga a fare scelte autonome e feconde, quale risultato di un confronto continuo della sua progettualità con i valori che orientano la società in cui vive.
La scuola perseguirà costantemente l’obiettivo di costruire un’alleanza educativa con i genitori. Non si tratta di rapporti da stringere solo in momenti critici, ma di relazioni costanti che riconoscano i reciproci ruoli e che si supportino vicendevolmente nelle comuni finalità educative.
La scuola si apre alle famiglie e al territorio circostante, facendo perno sugli strumenti forniti dall’autonomia scolastica, che prima di essere un insieme di norme è un modo di concepire il rapporto delle scuole con le comunità di appartenenza, locali e nazionali. L’acquisizione dell’autonomia rappresenta un momento decisivo per le istituzioni scolastiche. Grazie ad essa si è già avviato un processo di sempre maggiore responsabilizzazione condiviso dai docenti e dai dirigenti, che favorisce altresì la stretta connessione di ogni scuola con il suo territorio.
In quanto comunità educante, la scuola deve generare una diffusa convivialità relazionale, intessuta di linguaggi affettivi ed emotivi, ed essere anche in grado di promuovere la condivisione di quei valori che fanno sentire i membri della società come parte di una comunità vera e propria. La scuola può affiancare al compito dell’«insegnare ad apprendere» anche quello dell’«insegnare a essere».
L’obiettivo è quello di valorizzare l’unicità e la singolarità dell’identità culturale di ogni studente. La presenza di bambini e adolescenti con radici culturali diverse è un fenomeno ormai strutturale e non può più essere considerato episodico: deve trasformarsi in un’opportunità per tutti. Non basta riconoscere e conservare le diversità preesistenti, nella loro pura e semplice autonomia. Si deve, invece, sostenere attivamente la loro interazione e la loro integrazione attraverso la conoscenza della nostra e delle altre culture, in un confronto che non eluda questioni quali le convinzioni religiose, i ruoli familiari, le differenze di genere.
La promozione e lo sviluppo di ogni persona deve stimolare in maniera vicendevole la promozione e lo sviluppo delle altre persone: ognuno impara meglio nella relazione con gli altri. Non basta convivere nella società, ma questa stessa società bisogna crearla continuamente insieme.
Il sistema educativo deve formare cittadini in grado di partecipare consapevolmente alla costruzione di collettività più ampie e composite, siano esse quella nazionale, quella europea, quella mondiale. Non dobbiamo dimenticare che fino a tempi assai recenti la scuola ha avuto il compito di formare cittadini nazionali attraverso una cultura omogenea. Oggi, invece, può porsi il compito più ampio di educare alla convivenza proprio attraverso la valorizzazione delle diverse identità e radici culturali di ogni studente. La finalità è una cittadinanza che certo permane coesa e vincolata ai valori fondanti della tradizione nazionale, ma che può essere alimentata da una varietà di espressioni ed esperienze personali molto più ricca che in passato.
Per educare a questa cittadinanza unitaria e plurale ad un tempo, una via privilegiata è proprio la conoscenza e la trasmissione delle nostre tradizioni e memorie nazionali: non si possono realizzare appieno le possibilità del presente senza una profonda memoria e condivisione delle radici storiche. A tal fine sarà indispensabile una piena valorizzazione dei beni culturali presenti sul territorio nazionale, proprio per arricchire l’esperienza quotidiana dello studente con culture materiali, espressioni artistiche, idee, valori che sono il lascito vitale di altri tempi e di altri luoghi.
La nostra scuola, inoltre, deve formare cittadini italiani che siano nello stesso tempo cittadini dell’Europa e del mondo. I problemi più importanti che oggi toccano il nostro continente e l’umanità tutta intera non possono essere affrontati e risolti all’interno dei confini nazionali tradizionali, ma solo attraverso la comprensione di far parte di grandi tradizioni comuni, di un’unica comunità di destino europea così come di un’unica comunità di destino planetaria. Perché gli studenti acquisiscano una tale comprensione, è necessario che la scuola li aiuti a mettere in relazione le molteplici esperienze culturali emerse nei diversi spazi e nei diversi tempi della storia europea e della storia dell’umanità. La scuola è luogo in cui il presente è elaborato nell’intreccio tra passato e futuro, tra memoria e progetto.
PER UN NUOVO UMANESIMO
Le relazioni fra il microcosmo personale e il macrocosmo dell’umanità e del pianeta oggi devono essere intese in un duplice senso. Da un lato tutto ciò che accade nel mondo influenza la vita di ogni persona; dall’altro, ogni persona tiene nelle sue stesse mani una responsabilità unica e singolare nei confronti del futuro dell’umanità.
La scuola può e deve educare a questa consapevolezza e a questa responsabilità i bambini e gli adolescenti, in tutte le fasi della loro formazione. A questo scopo si deve comprendere che il bisogno di conoscenze degli studenti non si soddisfa con il semplice accumulo di tante informazioni in vari campi, ma solo con il pieno dominio dei singoli ambiti disciplinari e, contemporaneamente, con l’elaborazione delle loro molteplici connessioni. E’ quindi decisiva una nuova alleanza fra scienza, storia, discipline umanistiche, arti e tecnologia, in grado di delineare la prospettiva di un nuovo umanesimo.
In tale prospettiva, la scuola potrà perseguire alcuni obiettivi, oggi prioritari.
Dovrà insegnare a ricomporre i grandi oggetti della conoscenza - l’universo, il pianeta, la natura, la vita, l’umanità, la società, il corpo, la mente, la storia - in una prospettiva complessa, volta cioè a superare la frammentazione delle discipline e a integrarle in nuovi quadri d’insieme.
Dovrà promuovere i saperi propri di un nuovo umanesimo: la capacità di cogliere gli aspetti essenziali dei problemi; la capacità di comprendere le implicazioni, per la condizione umana, degli inediti sviluppi delle scienze e delle tecnologie; la capacità di valutare i limiti e le possibilità delle conoscenze; la capacità di vivere e di agire in un mondo in continuo cambiamento.
Dovrà diffondere la consapevolezza che i grandi problemi dell’attuale condizione umana – il degrado ambientale, il caos climatico, le crisi energetiche, la distribuzione ineguale delle risorse, la salute e la malattia, l’incontro e il confronto di culture e di religioni, i dilemmi bioetici, la ricerca di una nuova qualità della vita – possono essere affrontati e risolti attraverso una stretta collaborazione non solo fra le nazioni, ma anche fra le discipline e fra le culture.
Tutti questi obiettivi possono essere realizzati sin dalle prime fasi della formazione. L’esperimento, la manipolazione, il gioco, la narrazione, le espressioni artistiche e musicali sono infatti altrettante occasioni privilegiate per apprendere per via pratica quello che successivamente dovrà essere fatto oggetto di più elaborate conoscenze teoriche e sperimentali. Nel contempo, lo studio dei contesti storici, sociali, culturali nei quali si sono sviluppate le conoscenze è condizione di una loro piena comprensione. Inoltre, le esperienze personali che i bambini e gli adolescenti hanno degli aspetti a loro prossimi della natura, della cultura, della società e della storia sono una via di accesso importante per la sensibilizzazione ai problemi più generali e per la conoscenza di orizzonti più estesi nello spazio e nel tempo. Ma condizione indispensabile per raggiungere questo obiettivo è ricostruire insieme agli studenti le coordinate spaziali e temporali necessarie per comprendere la loro collocazione rispetto agli spazi e ai tempi assai ampi della geografia e della storia umane, così come rispetto agli spazi e ai tempi ancora più ampi della natura e del cosmo.
Definire un tale quadro d’insieme è compito sia della formazione scientifica (chi sono e dove sono io nell’universo, sulla terra, nell’evoluzione?) sia della formazione umanistica (chi sono e dove sono io nelle culture umane, nelle società, nella storia?). Negli ultimi decenni, infatti, discipline una volta distanti hanno collaborato nel ricostruire un albero genealogico delle popolazioni umane e nel tracciare i tempi e i percorsi delle grandi migrazioni con cui il pianeta è stato popolato. La genetica, la linguistica, l’archeologia, l’antropologia, la climatologia, la storia comparata dei miti e delle religioni hanno cominciato a delineare una storia globale dell’umanità. Da parte loro, la filosofia, le arti, l’economia, la storia delle idee, delle società, delle scienze e delle tecnologie stanno mettendo in evidenza come le popolazioni umane abbiano sempre comunicato fra loro e come le innovazioni materiali e culturali siano sempre state prodotte da una lunga storia di scambi, interazioni, traduzioni. A loro volta, le scienze del vivente oggi allargano ancora di più questo quadro: le collaborazioni fra genetica, paleontologia, embriologia, ecologia, etologia, geologia, biochimica, biofisica, ci danno per la prima volta un quadro delle grandi tappe della storia della vita sulla terra e mostrano la stretta interdipendenza fra tutte le forme viventi.
L’elaborazione dei saperi necessari per comprendere l’attuale condizione dell’uomo planetario, definita dalle molteplici interdipendenze fra locale e globale, è dunque la premessa indispensabile per l’esercizio consapevole di una cittadinanza nazionale, europea e planetaria. Oggi la scuola italiana può proporsi concretamente un tale obiettivo, contribuendo con ciò a creare le condizioni propizie per rivitalizzare gli aspetti più alti e fecondi della nostra tradizione. Questa ,infatti, è stata ricorrentemente caratterizzata da momenti di intensa creatività - come la civiltà classica greca e latina, la Cristianità, il Rinascimento e, più in generale, l’apporto degli artisti, dei musicisti, degli scienziati, degli esploratori e degli artigiani in tutto il mondo e per tutta l’età moderna - nei quali l’incontro fra culture diverse ha saputo generare l’idea di un essere umano integrale, capace di concentrare nella singolarità del microcosmo personale i molteplici aspetti del macrocosmo umano.
LA COMMISSIONE
La Commissione, presieduta dal prof. Mauro Ceruti, ordinario di filosofia della scienza presso l’Università degli studi di Bergamo e coordinata dal prof. Italo Fiorin docente presso l’Università LUMSA di Roma, è composta da:
Prof.ssa Anna Maria Ajello - Università degli Studi di Roma “La Sapienza”
Prof. Andrea Canevaro - Università degli Studi di Bologna
Prof. Gustavo Charmet Pietropolli - Università degli Studi di Milano
Prof. Gaetano Domenici - Università degli Studi “Roma Tre”
Prof. Franco Frabboni - Università degli Studi di Bologna
Prof. Lucio Guasti - Università “Cattolica del Sacro Cuore” di Milano
Prof.ssa Silvana Loiero - Dirigente scolastico - S.Lazzaro di Savena (Bologna)
Prof.ssa Caterina Manco - Dirigente Scolastico – Monterotondo (Roma)
Prof.ssa Susanna Mantovani - Università degli Studi di Milano - “Bicocca”
Prof.ssa Luigina Mortari - Università degli Studi di Verona
Prof. Carlo Petracca - Dirigente Tecnico MPI
Prof. Mario Riboldi - Dirigente Scolastico - Milano
Prof. Marco Rossi Doria - Docente di scuola primaria - Napoli
Prof.ssa Elena Ugolini - Dirigente Scolastico - Bologna
Ha introdotto il documento Edgar Morin. E ne hanno sostenuto i contenuti alcuni studiosi italiani di diverse aree scientifiche e umanistiche: Edoardo Boncinelli, Francesco Paolo Casavola, Anna Maria Chiavacci Leonardi, Roberta De Monticelli, Ezio Raimondi, Edoardo Vesentini, Giovanni Maria Vian.
Il governo, il ministro – almeno nelle intenzioni esplicitate – intendono aprire così una fase di confronto partecipativo con la scuola. “Le riforme – scrive il Ministro Fioroni nell’introduzione del documento – non si fanno senza confronto e collaborazione; richiedono persino una forte passione; pretendono comunque non solo il contributo impegnato di tutti e di ciascuno, ma pure uno sforzo comune di condivisione il più possibile ampio e convinto. Il mio augurio è che l’itinerario che abbiamo intrapreso raggiunga i risultati che il Paese e la sua scuola giustamente si attendono”.
Se sarà davvero così lo vedremo nei prossimi mesi. Non tutti i segnali sono rassicuranti, purtroppo. Ma penso che ci si debba battere fortemente per spingere i processi partecipativi nel senso delle cose dichiarate… che sappiamo non essere sempre quelle effettive. Gli esiti dipendono anche da noi.
Intanto il merito culturale del documento – che riporto qui di seguito integralmente perché (altro segnale non rassicurante!) non è facile da trovare in rete – sarebbe interessante leggerlo e dibatterlo anche alla luce di una spinta a superare la situazione di minorità della nostra città, che ha una grande pratica di scuola difficile ma che stenta ad avere luoghi pubblici nei quali poter dibattere la prospettiva nella quale si inscrive la azione di ogni giorno, così difficile e faticosa.
La cosa che più mi colpisce e addolora – di questa mia partecipazione a una elaborazione importante e che continuerà con la stesura delle vere e proprie indicazioni per i tre gradi di scuola di base – è che sono l’unico docente e il solo meridionale della commissione.
Come si vede, le cose non sono affatto semplici anche quando sono cose molto serie e forse promettenti.
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Ministero della Pubblica Istruzione
CULTURA SCUOLA PERSONA: verso le indicazioni nazionali per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo di istruzione, Roma 2007
Tra gli impegni qualificanti assunti all’inizio del mio mandato vi era quello di mettere le istituzioni scolastiche nelle condizioni di sviluppare la loro autonomia educativa e didattica, senza che ciò significasse passare dal centralismo burocratico allo spontaneismo improduttivo.
Tale impegno si è tradotto in questi mesi in una significativa attività mirata a giungere in tempi ragionevoli alla revisione delle attuali “Indicazioni Nazionali” per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo di istruzione. Gli esiti di questo primo tempo di analisi e di ricerca si sono tradotti in questo “Documento di base“, elaborato da una Commissione di studiosi e di esperti presieduta dal professore Mauro Ceruti.
Si avvia così un percorso di dialogo e di confronto che richiede il protagonismo non solo del mondo della scuola “militante” - peraltro già da tempo coinvolto in una operazione di “ascolto” - ma anche l’apporto costruttivo dell’associazionismo professionale e disciplinare dei docenti, nonché delle articolate realtà della società politica e civile del Paese: dal Parlamento agli Enti locali, dal mondo dell’Università e della Ricerca alle Organizzazioni sindacali, dalle Associazioni delle famiglie e degli studenti all’universo dei media. Sono queste le componenti che - a vario titolo coinvolte nel sistema formativo - sono direttamente interessate a un suo organico e armonioso sviluppo.
Le riforme non si fanno senza confronto e collaborazione; richiedono persino una forte passione; pretendono comunque non solo il contributo impegnato di tutti e di ciascuno, ma pure uno sforzo comune di condivisione il più possibile ampio e convinto.
Il mio augurio è che l’itinerario che abbiamo intrapreso raggiunga i risultati che il Paese e la sua scuola giustamente si attendono.
Giuseppe Fioroni
Ministro della Pubblica Istruzione
LA SCUOLA NEL NUOVO SCENARIO
In un tempo molto breve abbiamo vissuto il passaggio da una società relativamente stabile a una società caratterizzata da molteplici cambiamenti e discontinuità. Questo nuovo scenario è ambivalente: per ogni persona, per ogni comunità, per ogni società si moltiplicano sia i rischi che le opportunità.
Gli ambienti in cui la scuola è immersa sono più ricchi di stimoli culturali, ma anche più contraddittori. Oggi l’apprendimento scolastico è solo una delle tante esperienze di formazione che i bambini e gli adolescenti vivono e per acquisire competenze specifiche spesso non vi è bisogno dei contesti scolastici. Ma proprio per questo la scuola non può e non deve abdicare al compito di scoprire la capacità degli studenti di dare senso alla varietà delle loro esperienze, al fine di ridurre la frammentazione e il carattere episodico che rischiano di caratterizzare la vita dei bambini e degli adolescenti.
L’orizzonte territoriale della scuola si allarga. Ogni specifico territorio possiede legami con le varie aree del mondo e con ciò stesso costituisce un microcosmo che su scala locale riproduce opportunità, interazioni, tensioni, convivenze globali. Anche ogni singola persona, nella sua esperienza quotidiana, deve tener conto di informazioni sempre più numerose ed eterogenee e si deve confrontare con la pluralità delle culture. Nel suo itinerario formativo ed esistenziale lo studente si trova a interagire con culture diverse, senza tuttavia avere strumenti adatti per comprenderle e metterle in relazione con la propria. Alla scuola spetta il compito di fornire supporti adeguati affinché ogni persona sviluppi un’identità consapevole e aperta.
Non dobbiamo però dimenticare che in questa situazione di potenziale ricchezza formativa permangono vecchie forme di analfabetismo e di emarginazione culturale. Queste si intrecciano con analfabetismi di ritorno, che rischiano di impedire a molti l’esercizio di una piena cittadinanza. Inoltre, la diffusione delle tecnologie di informazione e di comunicazione, insieme a grandi opportunità, rischia di introdurre anche serie penalizzazioni nelle possibilità di espressione di chi non ha ancora accesso a tali tecnologie. Questa situazione nella scuola è ancora più evidente. Allo stato attuale delle cose, infatti, le relazioni con gli strumenti informatici sono assai diseguali fra gli studenti come fra gli insegnanti.
Anche le relazioni fra il sistema formativo e il mondo del lavoro stanno rapidamente cambiando. Ogni persona si trova ricorrentemente nella necessità di riorganizzare e reinventare i propri saperi, le proprie competenze e persino il proprio stesso lavoro. Le tecniche e le competenze diventano obsolete nel volgere di pochi anni. Per questo l’obiettivo della scuola non può essere soprattutto quello di inseguire lo sviluppo di singole tecniche e competenze; piuttosto, è quello di formare saldamente ogni persona sul piano cognitivo e culturale, affinché possa affrontare positivamente l’incertezza e la mutevolezza degli scenari sociali e professionali, presenti e futuri. Le trasmissioni standardizzate e normative delle conoscenze, che comunicano contenuti invarianti pensati per individui medi, non sono più adeguate. Al contrario, la scuola può e deve realizzare percorsi formativi sempre più rispondenti alle inclinazioni personali degli studenti, nella prospettiva di valorizzare gli aspetti peculiari della personalità di ognuno.
In tale scenario, alla scuola spettano alcune finalità specifiche. La scuola deve offrire agli studenti occasioni di apprendimento dei saperi e dei linguaggi culturali di base; deve far sì che gli studenti acquisiscano gli strumenti di pensiero necessari per apprendere a selezionare le informazioni; deve promuovere negli studenti la capacità di elaborare metodi e categorie che siano in grado di fare da bussola negli itinerari personali; deve favorire l’autonomia di pensiero degli studenti, orientando la propria didattica alla costruzione di saperi a partire da concreti bisogni formativi.
La scuola realizza appieno la propria funzione pubblica impegnandosi, in questa prospettiva, per il successo scolastico di tutti gli studenti, con una particolare attenzione al sostegno delle varie forme di diversità o di svantaggio. Questo comporta saper accettare la sfida che la diversità pone: innanzi tutto nella classe, dove le diverse situazioni individuali vanno riconosciute e valorizzate, evitando che la differenza si trasformi in disuguaglianza; inoltre nel Paese, affinché le penalizzazioni sociali, economiche, culturali non impediscano il raggiungimento degli essenziali obiettivi di qualità che è doveroso garantire.
CENTRALITÀ DELLA PERSONA
Le finalità della scuola devono essere definite a partire dalla persona che apprende, con l’originalità del suo percorso individuale e con l’unicità della rete di relazioni che la legano alla famiglia e agli ambiti sociali. La definizione e la realizzazione delle strategie educative e didattiche devono sempre tener conto della singolarità di ogni persona, della sua articolata identità, delle sue capacità e delle sue fragilità, nelle varie fasi di sviluppo e di formazione.
Lo studente è posto al centro dell’azione educativa in tutti i suoi aspetti: cognitivi, affettivi, relazionali, corporei, estetici, etici, spirituali. In questa prospettiva, i docenti dovranno pensare e realizzare i loro progetti educativi e didattici non per individui astratti, ma per persone che vivono qui e ora, che sollevano precise domande esistenziali, che vanno alla ricerca di orizzonti di significato.
Sin dai primi anni di scolarizzazione è importante che i docenti definiscano le loro proposte in una relazione costante con i bisogni fondamentali e i desideri dei bambini e degli adolescenti. È altrettanto importante valorizzare simbolicamente i momenti di passaggio che segnano le tappe principali di apprendimento e di crescita di ogni studente.
Particolare cura deve essere contemporaneamente posta alla formazione della classe come gruppo, alla promozione dei legami cooperativi fra i suoi componenti, alla gestione degli inevitabili conflitti indotti dalla socializzazione. La scuola si deve costruire come luogo accogliente, coinvolgendo in questo compito gli studenti stessi. Si deve esplicitare l’importanza delle condizioni che favoriscono lo star bene a scuola, al fine di ottenere la partecipazione più ampia dei bambini e degli adolescenti a un progetto educativo condiviso. La formazione di importanti legami di gruppo non contraddice la scelta di porre la persona al centro dell’azione educativa, ma è al contrario condizione indispensabile per lo sviluppo della personalità di ognuno.
La scuola deve porre le basi del percorso formativo dei bambini e degli adolescenti sapendo che esso proseguirà in tutte le fasi successive della vita. In tal modo deve fornire le chiavi per apprendere ad apprendere, per costruire e per trasformare le mappe dei saperi rendendole continuamente coerenti con la rapida e spesso imprevedibile evoluzione delle conoscenze e dei loro oggetti. Si tratta di elaborare gli strumenti di conoscenza necessari per comprendere i contesti naturali, sociali, culturali, antropologici nei quali gli studenti si troveranno a vivere e ad operare.
PER UNA NUOVA CITTADINANZA
La scuola persegue una doppia linea formativa: verticale e orizzontale. La linea verticale esprime l’esigenza di impostare una formazione che possa poi continuare lungo l’intero arco della vita; quella orizzontale indica la necessità di un’attenta collaborazione fra la scuola e gli attori extrascolastici con funzioni a vario titolo educative: la famiglia in primo luogo.
Insegnare le regole del vivere e del convivere è per la scuola un compito oggi ancora più ineludibile rispetto al passato, perché sono molti i casi nei quali le famiglie incontrano difficoltà più o meno grandi nello svolgere il loro ruolo educativo.
La scuola non può interpretare questo compito come semplice risposta a un’emergenza. Non deve trasformare le sollecitazioni che le provengono da vari ambiti della società in un moltiplicarsi di microprogetti che investano gli aspetti più disparati della vita degli studenti, con l’intento di definire norme di comportamento specifiche per ogni situazione. L’obiettivo non è di accompagnare passo dopo passo lo studente nella quotidianità di tutte le sue esperienze, bensì di proporre un’educazione che lo spinga a fare scelte autonome e feconde, quale risultato di un confronto continuo della sua progettualità con i valori che orientano la società in cui vive.
La scuola perseguirà costantemente l’obiettivo di costruire un’alleanza educativa con i genitori. Non si tratta di rapporti da stringere solo in momenti critici, ma di relazioni costanti che riconoscano i reciproci ruoli e che si supportino vicendevolmente nelle comuni finalità educative.
La scuola si apre alle famiglie e al territorio circostante, facendo perno sugli strumenti forniti dall’autonomia scolastica, che prima di essere un insieme di norme è un modo di concepire il rapporto delle scuole con le comunità di appartenenza, locali e nazionali. L’acquisizione dell’autonomia rappresenta un momento decisivo per le istituzioni scolastiche. Grazie ad essa si è già avviato un processo di sempre maggiore responsabilizzazione condiviso dai docenti e dai dirigenti, che favorisce altresì la stretta connessione di ogni scuola con il suo territorio.
In quanto comunità educante, la scuola deve generare una diffusa convivialità relazionale, intessuta di linguaggi affettivi ed emotivi, ed essere anche in grado di promuovere la condivisione di quei valori che fanno sentire i membri della società come parte di una comunità vera e propria. La scuola può affiancare al compito dell’«insegnare ad apprendere» anche quello dell’«insegnare a essere».
L’obiettivo è quello di valorizzare l’unicità e la singolarità dell’identità culturale di ogni studente. La presenza di bambini e adolescenti con radici culturali diverse è un fenomeno ormai strutturale e non può più essere considerato episodico: deve trasformarsi in un’opportunità per tutti. Non basta riconoscere e conservare le diversità preesistenti, nella loro pura e semplice autonomia. Si deve, invece, sostenere attivamente la loro interazione e la loro integrazione attraverso la conoscenza della nostra e delle altre culture, in un confronto che non eluda questioni quali le convinzioni religiose, i ruoli familiari, le differenze di genere.
La promozione e lo sviluppo di ogni persona deve stimolare in maniera vicendevole la promozione e lo sviluppo delle altre persone: ognuno impara meglio nella relazione con gli altri. Non basta convivere nella società, ma questa stessa società bisogna crearla continuamente insieme.
Il sistema educativo deve formare cittadini in grado di partecipare consapevolmente alla costruzione di collettività più ampie e composite, siano esse quella nazionale, quella europea, quella mondiale. Non dobbiamo dimenticare che fino a tempi assai recenti la scuola ha avuto il compito di formare cittadini nazionali attraverso una cultura omogenea. Oggi, invece, può porsi il compito più ampio di educare alla convivenza proprio attraverso la valorizzazione delle diverse identità e radici culturali di ogni studente. La finalità è una cittadinanza che certo permane coesa e vincolata ai valori fondanti della tradizione nazionale, ma che può essere alimentata da una varietà di espressioni ed esperienze personali molto più ricca che in passato.
Per educare a questa cittadinanza unitaria e plurale ad un tempo, una via privilegiata è proprio la conoscenza e la trasmissione delle nostre tradizioni e memorie nazionali: non si possono realizzare appieno le possibilità del presente senza una profonda memoria e condivisione delle radici storiche. A tal fine sarà indispensabile una piena valorizzazione dei beni culturali presenti sul territorio nazionale, proprio per arricchire l’esperienza quotidiana dello studente con culture materiali, espressioni artistiche, idee, valori che sono il lascito vitale di altri tempi e di altri luoghi.
La nostra scuola, inoltre, deve formare cittadini italiani che siano nello stesso tempo cittadini dell’Europa e del mondo. I problemi più importanti che oggi toccano il nostro continente e l’umanità tutta intera non possono essere affrontati e risolti all’interno dei confini nazionali tradizionali, ma solo attraverso la comprensione di far parte di grandi tradizioni comuni, di un’unica comunità di destino europea così come di un’unica comunità di destino planetaria. Perché gli studenti acquisiscano una tale comprensione, è necessario che la scuola li aiuti a mettere in relazione le molteplici esperienze culturali emerse nei diversi spazi e nei diversi tempi della storia europea e della storia dell’umanità. La scuola è luogo in cui il presente è elaborato nell’intreccio tra passato e futuro, tra memoria e progetto.
PER UN NUOVO UMANESIMO
Le relazioni fra il microcosmo personale e il macrocosmo dell’umanità e del pianeta oggi devono essere intese in un duplice senso. Da un lato tutto ciò che accade nel mondo influenza la vita di ogni persona; dall’altro, ogni persona tiene nelle sue stesse mani una responsabilità unica e singolare nei confronti del futuro dell’umanità.
La scuola può e deve educare a questa consapevolezza e a questa responsabilità i bambini e gli adolescenti, in tutte le fasi della loro formazione. A questo scopo si deve comprendere che il bisogno di conoscenze degli studenti non si soddisfa con il semplice accumulo di tante informazioni in vari campi, ma solo con il pieno dominio dei singoli ambiti disciplinari e, contemporaneamente, con l’elaborazione delle loro molteplici connessioni. E’ quindi decisiva una nuova alleanza fra scienza, storia, discipline umanistiche, arti e tecnologia, in grado di delineare la prospettiva di un nuovo umanesimo.
In tale prospettiva, la scuola potrà perseguire alcuni obiettivi, oggi prioritari.
Dovrà insegnare a ricomporre i grandi oggetti della conoscenza - l’universo, il pianeta, la natura, la vita, l’umanità, la società, il corpo, la mente, la storia - in una prospettiva complessa, volta cioè a superare la frammentazione delle discipline e a integrarle in nuovi quadri d’insieme.
Dovrà promuovere i saperi propri di un nuovo umanesimo: la capacità di cogliere gli aspetti essenziali dei problemi; la capacità di comprendere le implicazioni, per la condizione umana, degli inediti sviluppi delle scienze e delle tecnologie; la capacità di valutare i limiti e le possibilità delle conoscenze; la capacità di vivere e di agire in un mondo in continuo cambiamento.
Dovrà diffondere la consapevolezza che i grandi problemi dell’attuale condizione umana – il degrado ambientale, il caos climatico, le crisi energetiche, la distribuzione ineguale delle risorse, la salute e la malattia, l’incontro e il confronto di culture e di religioni, i dilemmi bioetici, la ricerca di una nuova qualità della vita – possono essere affrontati e risolti attraverso una stretta collaborazione non solo fra le nazioni, ma anche fra le discipline e fra le culture.
Tutti questi obiettivi possono essere realizzati sin dalle prime fasi della formazione. L’esperimento, la manipolazione, il gioco, la narrazione, le espressioni artistiche e musicali sono infatti altrettante occasioni privilegiate per apprendere per via pratica quello che successivamente dovrà essere fatto oggetto di più elaborate conoscenze teoriche e sperimentali. Nel contempo, lo studio dei contesti storici, sociali, culturali nei quali si sono sviluppate le conoscenze è condizione di una loro piena comprensione. Inoltre, le esperienze personali che i bambini e gli adolescenti hanno degli aspetti a loro prossimi della natura, della cultura, della società e della storia sono una via di accesso importante per la sensibilizzazione ai problemi più generali e per la conoscenza di orizzonti più estesi nello spazio e nel tempo. Ma condizione indispensabile per raggiungere questo obiettivo è ricostruire insieme agli studenti le coordinate spaziali e temporali necessarie per comprendere la loro collocazione rispetto agli spazi e ai tempi assai ampi della geografia e della storia umane, così come rispetto agli spazi e ai tempi ancora più ampi della natura e del cosmo.
Definire un tale quadro d’insieme è compito sia della formazione scientifica (chi sono e dove sono io nell’universo, sulla terra, nell’evoluzione?) sia della formazione umanistica (chi sono e dove sono io nelle culture umane, nelle società, nella storia?). Negli ultimi decenni, infatti, discipline una volta distanti hanno collaborato nel ricostruire un albero genealogico delle popolazioni umane e nel tracciare i tempi e i percorsi delle grandi migrazioni con cui il pianeta è stato popolato. La genetica, la linguistica, l’archeologia, l’antropologia, la climatologia, la storia comparata dei miti e delle religioni hanno cominciato a delineare una storia globale dell’umanità. Da parte loro, la filosofia, le arti, l’economia, la storia delle idee, delle società, delle scienze e delle tecnologie stanno mettendo in evidenza come le popolazioni umane abbiano sempre comunicato fra loro e come le innovazioni materiali e culturali siano sempre state prodotte da una lunga storia di scambi, interazioni, traduzioni. A loro volta, le scienze del vivente oggi allargano ancora di più questo quadro: le collaborazioni fra genetica, paleontologia, embriologia, ecologia, etologia, geologia, biochimica, biofisica, ci danno per la prima volta un quadro delle grandi tappe della storia della vita sulla terra e mostrano la stretta interdipendenza fra tutte le forme viventi.
L’elaborazione dei saperi necessari per comprendere l’attuale condizione dell’uomo planetario, definita dalle molteplici interdipendenze fra locale e globale, è dunque la premessa indispensabile per l’esercizio consapevole di una cittadinanza nazionale, europea e planetaria. Oggi la scuola italiana può proporsi concretamente un tale obiettivo, contribuendo con ciò a creare le condizioni propizie per rivitalizzare gli aspetti più alti e fecondi della nostra tradizione. Questa ,infatti, è stata ricorrentemente caratterizzata da momenti di intensa creatività - come la civiltà classica greca e latina, la Cristianità, il Rinascimento e, più in generale, l’apporto degli artisti, dei musicisti, degli scienziati, degli esploratori e degli artigiani in tutto il mondo e per tutta l’età moderna - nei quali l’incontro fra culture diverse ha saputo generare l’idea di un essere umano integrale, capace di concentrare nella singolarità del microcosmo personale i molteplici aspetti del macrocosmo umano.
LA COMMISSIONE
La Commissione, presieduta dal prof. Mauro Ceruti, ordinario di filosofia della scienza presso l’Università degli studi di Bergamo e coordinata dal prof. Italo Fiorin docente presso l’Università LUMSA di Roma, è composta da:
Prof.ssa Anna Maria Ajello - Università degli Studi di Roma “La Sapienza”
Prof. Andrea Canevaro - Università degli Studi di Bologna
Prof. Gustavo Charmet Pietropolli - Università degli Studi di Milano
Prof. Gaetano Domenici - Università degli Studi “Roma Tre”
Prof. Franco Frabboni - Università degli Studi di Bologna
Prof. Lucio Guasti - Università “Cattolica del Sacro Cuore” di Milano
Prof.ssa Silvana Loiero - Dirigente scolastico - S.Lazzaro di Savena (Bologna)
Prof.ssa Caterina Manco - Dirigente Scolastico – Monterotondo (Roma)
Prof.ssa Susanna Mantovani - Università degli Studi di Milano - “Bicocca”
Prof.ssa Luigina Mortari - Università degli Studi di Verona
Prof. Carlo Petracca - Dirigente Tecnico MPI
Prof. Mario Riboldi - Dirigente Scolastico - Milano
Prof. Marco Rossi Doria - Docente di scuola primaria - Napoli
Prof.ssa Elena Ugolini - Dirigente Scolastico - Bologna
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