30 dicembre, 2011

Giro di boa?

Care e cari maestri e professori,

gli anni passati a insegnare in tre diversi continenti, ma in particolare gli ultimi tre, trascorsi in giro per l’Italia, osservando, ascoltando e confrontandomi con migliaia di colleghi di ogni ordine di scuole, scuole dell’agio e del disagio, scuole per chi a scuola non va più, licei, scuole di base e centri di formazione professionale, mi hanno consegnato una sorta di carta geografica, sicuramente approssimata per difetto, ma capace, credo, di descrivere il territorio della “scuola italiana”, dove si aggira, si impegna, si misura la figura del docente.
Un po’ come Caboto, credo che questa mia mappa, per quanto migliorabile, possa guidarmi nella nuova rotta che ho intrapreso come Sottosegretario all’istruzione.
Quando ci si ferma a parlare con le donne e gli uomini che “fanno la scuola”, tra le mille differenze e le tante somiglianze, nel cahier des doléances emerge spesso la voce profonda e affaticata di noi docenti: esausti per le tante, troppe cose che si pretendono da noi. Essere psicologi, sociologi, assistenti sociali, consulenti dei genitori. Edotti di organizzazione, di didattica, della disciplina e degli spazi tra discipline. Esperti del computer e dotati di capacità manageriali. Preparati nelle nostre materie, ma attenti al territorio. Una stanchezza che fa emergere la velata nostalgia per un tempo passato, in cui fare l’insegnante era più semplice, rassicurante, soddisfacente.
Quando la nostra professionalità si fondava sulla padronanza di contenuti disciplinari molto stabili e su alcune competenze pedagogiche; su certezza del tempo (l’ora) e dello spazio (l’aula).
E’ questa la crisi d’identità emersa di fronte ai cambiamenti e alle nuove incessanti richieste educative che ricadono sulla scuola pubblica. Un’instabilità accresciuta ed aggravata dalla sempre maggiore solitudine sociale degli insegnanti, dalla mancanza di un ruolo pubblicamente riconosciuto. E dal disprezzo di alcuni “soloni” che strombazzano contro di noi senza essere mai stati in classe. E’ questa la sofferenza del nostro lavoro, nel nostro tempo attuale. Tutto questo sento che un ministro, un sottosegretario, lo debbano ricordare. Innanzitutto per dire, ripetere “grazie” a chi fa questo lavoro. Che è bello, vario, prezioso e però poco riconosciuto e mal pagato.
Ma all’inizio di questo mio incarico e all’avvicinarsi del nuovo anno, mi sento di proporre a tutti noi anche un capovolgimento dell’ottica da cui osservare le trasformazioni.
La complessità sempre maggiore delle competenze e delle conoscenze, la necessità di ridefinire e forse allargare il ruolo svolto dall’istruzione e quindi dall’insegnamento, non segnano la decadenza della nostra professione, ma la sua rigenerazione, la sua inevitabile evoluzione.
Le difficoltà che ci investono, indicano dove siamo arrivati e dove dobbiamo andare. Ed è proprio sulla rivendicazione della complessità del mestiere di insegnare che dobbiamo basare la nostra richiesta di riconoscimento sociale, e non su una malinconica nostalgia del tempo passato.
La complessità su cui dobbiamo fondarci non è tanto quella di una scuola sempre più stretta tra le complicazioni organizzative e gestionali, tra nuove materie e curricula sempre più articolati. E’ la complessità delle fasi evolutive dell’infanzia e dell’adolescenza che ci troviamo davanti, la complessità crescente del sapere che ormai sfugge ai classici confini disciplinari, la complessità dei nuovi linguaggi e delle nuove domande sociali, la difficoltà nel riconoscere sempre negli studenti la capacità di trasmetterci a loro volta saperi ed esperienze.
Tutta questa complessità rende l’insegnamento una professione fondante dell’epoca in cui viviamo. Dobbiamo esserne fieri e consapevoli. E dobbiamo imparare.
L’augurio che rivolgo a tutti noi per l’anno che viene è di rinnovare il nostro impegno per la scuola pubblica. Innanzitutto per rendere più vivibile il lavoro quotidiano degli insegnanti. Alleggerendo le scuole da troppe complicazioni burocratiche, dando finalmente fiducia ad un’autonomia progettuale delle scuole e dei gruppi docenti, garantendo un po’ di stabilità in più al sistema nel suo complesso.
In secondo luogo, auguro a voi tutti di sentirvi sostenuti nella presa in carico della crisi educativa che si riverbera giorno dopo giorno nella scuola. E auguro a noi istituzioni di saper realizzare e trasmettere questo sostegno pieno alla professione docente, alla sua capacità di rigenerarsi, trasformarsi insieme al mondo. E’ evidente che non è un intento facile e che i soldi pubblici per operare sono molto pochi .
C’è da augurarsi di non ricevere dal nuovo anno nuovi sogni irrealizzabili, ma conquiste possibili e concrete sì. Seppure in una contingenza complicata come quella attuale, auguro di cuore a tutti noi un realistico giro di boa.


27 dicembre, 2011

Napoli fra degrado e riscatto: dialogo con Giorgio Bocca

È morto Giorgio Bocca. Partigiano. E azionista. Come mio padre. E cuneese. Con un’idea del Sud forse utilmente impietosa ma ferma nel tempo. E sovente incapace di cogliere le promesse che pure nel Sud resistono, provano, fanno…
Una volta con lui ho avuto un dialogo nel merito, che proprio oggi viene ripreso da Micromega, che lo pubblicò. Ero nel bel mezzo della campagna elettorale per sindaco di Napoli. Era uscito il suo ultimo libro sul Sud, Napoli siamo noi, e la “società civile” si divideva: ha ragione, ha torto.
Oggi, nel ricordarne la grande dirittura, mi piace segnalare questo nostro dialogo. Perché è grazie alla nettezza della posizione di Bocca che si è potuto parlar chiaro tra noi.

21 dicembre, 2011

La terza buona notizia

Le prime reazioni alla proposta di riaprire i concorsi per docenti dopo 13 anni di blocco mi sembrano complessivamente buone.
Nel merito ho risposto ieri alle domande de L’Unità. Certo, sono comprensibili le preoccupazioni di chi lavora in modo precario da tanti anni, in attesa del passaggio in ruolo. Come è comprensibile la cautela sulle cifre, su cui è impossibile fare stime accurate prima che i tecnici abbiano studiato gli effetti delle nuove norme sul pensionamento.
Resta il fatto che il mondo della scuola sente con forza la necessità di dare accesso all’insegnamento a una nuova generazione. Anche nella vita capita spesso di dover tenere insieme due principi. Non per rispettare chissà quale equilibrio, ma perché in cattedra serve sia l’esperienza, sia le energie nuove. Sia la tradizione pedagogica, sia una nuova missione educativa adatta al nostro tempo. Sia carta e penna, sia computer e lavagne multimediali.
Dobbiamo anche pensare a chi ha subito anni di precariato, suo malgrado. Sono decine di migliaia di insegnanti che hanno maturato pratica ed esperienza anche in contesti difficili, bisogna tenerne conto. Per questo la metà dei posti disponibili verrà coperta dalle Graduatorie ad esaurimento. L’orizzonte a cui guardare è la stabilità sia per i docenti sia per i ragazzi. La formazione e l’aggiornamento. Non vogliamo creare false speranze o dare inizio al balletto delle cifre sui posti disponibili: il mondo della scuola è un mondo complesso e adulto. Sa quanto sia difficile oggi rimettere in moto il sistema. Ma è almeno altrettanto necessario.
I nuovi concorsi sono la terza buona notizia in pochi giorni: le altre due sono lampanti, perché per ora non si parla più di tagli. Anzi. Con il Piano Coesione si recuperano fondi per l’edilizia scolastica e la lotta alla dispersione. Proprio domani vado a parlarne con gli assessori campani.

19 dicembre, 2011

Si comincia da qui

“Aiutami a essere me stesso”. Secondo Alessandro D’Avenia, è questo che i ragazzi chiedono ogni giorno ai propri insegnanti. Essere adulti di riferimento senza diventare mai degli amici. Senza mai giudizi sprezzanti, saper ascoltare e presidiare il limite. Ne ho discusso in questa intervista, dove però ho voluto ribadire quanti insegnanti siano guide competenti per i loro studenti. È giusto riconoscerlo, perché chi ogni mattina si sveglia, e per uno stipendio poco superiore a quello di un operaio, si occupa dei nostri figli in un contesto mutato, molto più complesso che nel passato, merita un riconoscimento. Ci stiamo lavorando, anche se forse non sarà possibile un aumento di stipendio, non subito. E stiamo lavorando per portare la scuola nell’era contemporanea. Tutte le più importanti indagini sul confronto tra i risultati scolastici in Italia e in Europa mettono in evidenza i divari preoccupanti tra Nord e Sud, e tra scuola e scuola. Sono queste differenze troppo forti, le opportunità diseguali dei nostri ragazzi a rallentare tutto il sistema e a creare ingiustificabili discriminazioni. Il  Piano Azione e Coesione si occupa anche di questo: l’istruzione, il suo primo capitolo, ha un posto centrale. Si prevede quasi un miliardo di nuovi finanziamenti che si sommano a due miliardi di fondi europei non ancora spesi dalle quattro Regioni del Sud. Il Piano si prefigge di fornire computer collegati a Internet e lavagne multimediali nel 54% delle scuole del Sud.  Riqualificare gli edifici scolastici nel 43%. Innalzare i livelli dell’apprendimento dei ragazzi con i risultati scolastici meno soddisfacenti. Promuovere e sostenere i percorsi formativi che limitano e prevengono la dispersione scolastica.
Queste non sono belle parole, ma investimenti concreti sulla scuola pubblica. Sono segni meno, che diventano segni più. Più risorse per la scuola, più fiducia nel sistema e nei professori, più inclusione e opportunità per i ragazzi. E’ da qui che si comincia.

16 dicembre, 2011

Pensare di più

Veniamo da anni orribili, per quanto riguarda fatti, linguaggi e messaggi di chiusura, odio e paura per gli altri. Sì, gli altri. Perché siamo tutti uguali e, per fortuna, diversi. Eppure pare che ce ne siamo dimenticati. Che abbiamo digerito senza tanti problemi le immagini dei barconi a fondo a largo di Lampedusa, le notizie di pestaggi, caccia alle streghe contro immigrati e rom nelle nostre città- l’ultima di queste proprio in questi giorni, a Torino (due anni e mezzo fa, a Ponticelli) . Pensando a quel che è accaduto a Firenze, mi viene in mente che ha ragione Adriano Sofri quando chiede di non appellarci alla follia per spiegare i fatti. Nell’essere contro gli altri in modo estremo, certo, c’è sempre un “tratto di follia”- Una follia specifica- la paranoia. La follia non può essere negata, ma non aiuta a capire, a guardare oltre la superficie, a ragionare sul collettivo, sulla comunità in cui matura e poi esplode il gesto tremendo.

Ed è troppo facile spiegare il tutto con le categorie degli estremi: estrema destra, in questo caso.
In Italia c’è un humus razzista che si riproduce tra antichi pregiudizi e una nuova paura di fronte alla crisi economica globale e anche al “senso di retrocessione” del Paese a confronto con i vicini europei. Alla paura più antica del mondo, quella del diverso da noi, si somma il senso di vertigine per una caduta che ci allontana dall’Europa e forse evoca dentro ciascuno il fantasma di essere schiacciati contro l’altra sponda del Mediterraneo, proprio là da dove arrivano i disperati e diversi. Le paure prendono strade loro proprie: “Non è che chi arriva cerca futuro e noi qui lo stiamo perdendo?”. I gesti tremendi sono frutto di follia e di perfidi convincimenti- ideologie malate e orrende. Che salgono come rigurgiti dal “secolo breve”. Ma sono anche nutriti dalla paura.

Casapound è espressione di questo humus: luoghi in cui condividere ed esprimere la predica fanatica e il linguaggio dell’odio, contro le banche, la finanza, le razze “nemiche”.Luoghi della paura e delle semplificazioni che servono a rimuoverla. Scrivevo qui della necessità di entrare nelle sedi di Casapound per aprire un dialogo, per quanto difficile. Chiedevo anche che quelle sedi si aprissero per moto proprio. Sono ancora convinto di quel che affermavo. Ma oggi Casapound deve scusarsi. Non basta dichiarare folle un loro militante oggi omicida, né incontrare la comunità senegalese, seppure sia un gesto apprezzabile. Sarebbe il momento per loro di aprire una seria riflessione sui linguaggi e sui messaggi. Accettare la complessità del mondo in cui viviamo. E aprire un dialogo, per quanto le posizioni di partenza siano lontane fra loro. Questo Paese ha bisogno di una riflessione profonda sui diritti dell’uomo e sui principi fondanti della comunità. Fatti come quello di Firenze non possono semplicemente essere archiviati con la retorica dei buoni sentimenti, nell’assenza della politica e nella semplificazione mediatica. Occorre pensare e discutere. Molto di più. Pensare a quali parole, occasioni, esperienze servono per guardare diversamente, sì agli altri, ma innanzitutto a noi stessi.

15 dicembre, 2011

Istantanee

Sanzioni disciplinari come per l’hockey: per punire un’infrazione grave, si va in panchina per un breve tempo in cui accogliere la regola e poi di nuovo in classe, dopo aver riflettuto e svolto qualche attività “riparatrice”. Lunedì il Corriere della Sera ha riportato quello che penso sulle sospensioni degli studenti. Se ne è parlato ben più ampiamente nel convegno della rete Context tenuto a Trento. Martedì Giorgio Israel mi risponde sul Giornale, definendo allarmanti le mie idee e dandomi del “tecno-buonista”. Credo nel ruolo educativo della sanzione, a patto che non sia una scusa comoda per restare a casa a dormire.

Poi in serata a Genova, per parlare con Cesare Moreno e Andrea Ranieri di lotta alla dispersione scolastica. Ho incontrato alcune maestre che qualche settimana fa hanno portato in salvo dall’acqua qualche centinaio di alunni: l’acqua scendeva da un lato dell’edificio, giù per le scale, dal tetto che dava sul lato del fiume in esondazione. Hanno messo i bimbi in fila. Controllato che le altre scale fossero sicure. E sono andati in cima all’ala opposta, ancora sicura. In pochissimi minuti. Sono situazioni complesse. Sono da valutare anche queste.

Gli insegnanti hanno tanti dubbi e poca fiducia nel Governo, ed è su questo che occorre fare subito qualcosa. Primo, cambiare il nostro linguaggio e abbandonare il nostro atteggiamento giudicante.
Davvero, non è facile far scuola tutti i giorni. Il rispetto per chi svolge un ruolo difficile, complesso e prezioso è la precondizione per poter migliorare questo bel lavoro.

Martedì notte ho partecipato a Crash, una trasmissione del canale educativo della Rai: abbiamo discusso di inclusione, integrazione e apprendimento. Su Rai Educational il video; le repliche in TV a partire da Domenica, ore 23 su Rai Storia.

Queste sono alcune fotografie istantanee degli ultimi giorni: tante cose affollano il mio nuovo incarico. Posso soltanto cercare di elencarle in modo breve e un po’ didascalico, quando trovo il tempo. E non dimenticare nessuno. Perché ogni aspetto di questa responsabilità ha la sua importanza.

11 dicembre, 2011

Muoversi

C'è da insistere sul cambiare, in meglio, la scuola.
La sua funzione pubblica è difendibile solo se migliora, se sta sull'agenda vera. Venerdì su questo è uscita una mia intervista a Repubblica Napoli. Sabato mattina sono stato con il ministro a Napoli, ho incontrato il presidente della Campania, Caldoro e il sindaco di Napoli, de Magistris.
Si è parlato di cose concrete: ottimizzare l'uso dei pochi soldi che ci sono per ricerca e università, rimettere in moto un po' di soldi per l'edilizia scolastica, partire da ciò che funziona e migliorarlo, aggredire povertà minorile e dispersione scolastica.
La strada non è facile ma è ora di muoversi, dare segnali, presto. Poi bisogna vigilare che le cose vengano attuate e sui tempi. Muoversi.

04 dicembre, 2011

Un po' sottosegretario

Eccomi qui finalmente. Scusate.

Ho letto tutti i vostri commenti, come ho letto gli sms e le email. Tanti, che mi sono arrivati in questi giorni di frenetico lavoro, inatteso e di cui mi sento onorato.
Grazie. capisco che le attese sono tante, anche io le ho. Ma la situazione è veramente difficile, il tempo è poco.
Capisco che bisogna concentrarsi sulle cose possibili e essenziali. Perché sotto sotto sono anche un po' sottosegretario.
Direi così: nessun ulteriore taglio al budget della scuola (se la manovra non lo intacca, sarà già un buon segnale), riprendere la strada dell'autonomia delle scuole e ascoltarle. E poi pensare ai ragazzi, a come e se imparano e a quelli che partono con meno.

Proverò a raccontare, di questo e anche di alcune cose divertenti che accadono a uno come me. Ancora grazie

21 novembre, 2011

Changes a Napoli


Changes Napoli si terrà domenica prossima, una occasione per riflettere sui cambiamenti possibili e la politica.
Ecco luogo, tempi, programma:

Domenica 27 novembre 2011
Palazzo Forum Universale delle Culture, ex asilo Filangeri, Vico Maffei 4 (nei pressi di S.Gregorio Armeno)


Questi i temi:
Il cambiamento è cultura: Ricerca, sapere, giovani: le fondamenta del cambiamento

Il cambiamento è partecipazione: Partiti, persone, cittadinanza: i soggetti del cambiamento

Il cambiamento è politica: Il mezzogiorno, l'Italia, le cose da fare: le leve del cambiamento

20 novembre, 2011

Giornata mondiale dei diritti dei bambini e adolescenti – appello a Monti

Oggi esce questo mio articolo-invito al nuovo governo, su La Stampa.

Il 20 novembre ricorre l’anniversario della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. Che stabilisce che ogni persona che nasce deve avere uguali possibilità di riuscita nella vita. In queste giornate il Presidente del Consiglio, Mario Monti, ha più volte rivolto al Parlamento della Repubblica l’impegno di combattere iniquità e privilegi e di dedicare forti energie alle giovani generazioni del nostro Paese, a partire da chi sta peggio.

Milioni di persone – nella scuola, nelle famiglie, nel privato sociale – si occupano del benessere di bambini e adolescenti. Abbiamo posizioni politiche spesso divergenti. Ma condividiamo le stesse crescenti preoccupazioni. Innanzitutto per la piaga della povertà minorile in un grande paese qual è l’Italia.
Infatti l’Istat conta 2 milioni e 734 mila famiglie povere, l’11%, di cui, però, 1 milione e 829 mila nel Sud, il 23% delle famiglie meridionali. E se le persone povere sono 8 milioni e 272, pari al 13,8% della popolazione, i minori poveri sono 1 milione 876 mila, il 18,2% di tutti i minori! E, secondo i parametri dell’UE, i nostri bambini e ragazzi a rischio di povertà sono il 24,4% del totale, il tasso più elevato della UE. Tanto è vero che, in Italia, più fai figli e più questi rischiano la povertà: il 30,5% delle famiglie con tre o più figli è povera. E – anche qui – il 70 % dei bambini e adolescenti poveri vive nel Mezzogiorno: 1 milione 266 mila persone in crescita, un terzo dei minori di anni 18 che vivono nel nostro Sud. Sono cifre terribili.
I bambini e ragazzi poveri sono la parte più debole, meno protetta della popolazione; e non votano. Ogni bolletta e ogni piccola spesa imprevista che capita nelle loro case sono un dramma, l’affitto o il mutuo sono spesso a rischio, insieme al lavoro dei genitori, quasi sempre precario. E sono a rischio le ormai brevissime vacanze estive, i vocabolari per la scuola, le rate del computer, l’invito agli amichetti per il compleanno. Lo racconta sempre l’Istat. E i quartieri dove vivono hanno meno verde, palestre, piscine, tempo pieno a scuola, asili nido.
L’Italia ha, al contempo, una grande risorsa: le persone che si occupano di infanzia e adolescenza in difficoltà sono molto esperte, le meno inclini a buttarla in protesta e le meno litigiose. Perché devono poter aiutare. Perché sono il front office di chi se la passa male, conoscono le persone, sanno trovare soluzioni perché tante volte si sono cimentate in questa opera. E oggi sono anche disposte ad abbandonare posizioni rigide e modelli vecchi pur di riequilibrare le cose a favore di chi parte con meno nella vita.
Perciò – per la giornata del 20 novembre - verrebbe da fare un appello semplice al Presidente Monti, al ministro dell’istruzione, a quello del welfare, al ministro della coesione territoriale. Si crei subito una camera di regia a Palazzo Chigi. Come quella che oltre dieci anni fa fu costituita a Downing street. Si metta su una squadra di persone che pensi - sulla base sì dei conti pubblici ma anche dell’urgenza del riequilibrio e sulla scorta dell’esperienza vasta che l’Italia possiede in questo campo - al come costruire un nuovo grande sforzo a favore dei bambini e ragazzi poveri. Uno sforzo insieme pubblico e privato. Da metter in campo entro due mesi. Per ridare sostegno all’auto-impresa dei giovani, agli asili nido e alle mense, alle famiglie e alle donne sole e alle scuole, innanzitutto quelle di base, nelle aree dove si concentra la povertà minorile. Programmi snelli, rigorose procedure di controllo. Cose realistiche affidate a chi sa fare, secondo i modelli che hanno funzionato meglio in questi anni. D’accordo con la Conferenza stato-regioni, per concentrare bene tutte le risorse. Un segnale forte dal nuovo governo. Subito.

15 novembre, 2011

Quale scuola vogliamo davvero


Sì, c’è la crisi economica, quella di governo e della politica in senso vero, ampio. Che vuole dire, però, la vita della società e delle persone. Ed è su questa che va mantenuta la sbarra della riflessione collettiva. A tal proposito ecco cosa ho detto (file word 45k) al congresso nazionale di Legambiente – scuole e formazione
Solo una parte dell’apprendimento avviene a scuola. E’ stato sempre così. Ma, nel tempo, si sono anche perduti alcuni decisivi apprendimenti. I quali da un lato afferivano più direttamente alla relazione tra uomo e natura e, dall’altro, erano appresi non in un luogo separato ma entro le comunità di appartenenza. Nelle società umane, da quelle dette primitive fino a metà del secolo scorso, l’apprendimento largo ha affiancato quello che avveniva a scuola. Le pagine nelle quali i ragazzi di Barbiana mostrano il loro sapere sulla terra, sulle coltivazioni, sul bosco e sugli uccelli sono gli ultimi echi di questo “mondo dell’apprendere” che era largo. E che poteva riverberarsi in una scuola ben fatta, consolidarsi in sapere scientifico, scrittura, calcolo e rappresentazione. Senza svilire quel piano primo dell’imparare. Era un apprendere nel quale la scuola era una parte, con suoi canoni distinti, che assumevano l’insieme più esteso degli apprendimenti. L’urbanizzazione non ha smentito completamente questa scena. Piuttosto la ha trasferita e modificata. E anche nelle città vi erano costanti attività dove i ragazzi erano in giro ad imparare, in vera autonomia, a fare cose e a misurarsi con socialità e conflitto, libertà e responsabilità, fuori dalla scuola. Certo, c’era la durezza del lavoro infantile. Ma c’erano, al contempo, esplorazioni, costruzioni, cacce, aquiloni, combattimenti. Vi è stato, dunque, un mondo di avvenimenti complessi, carichi di saperi e competenze che venivano svolti altrove dalla scuola. In modo per lo più auto-organizzato. E dove era possibile provare e provarsi. Molti di questi apprendimenti hanno sempre anche comportato la verifica “naturale” della competenza. “Sono bravo a…” Il mondo adulto era parte di tale riconoscimento, grazie ai riti di passaggio, comunitari e sapeva dire ai ragazzi: “Ora tu sai, ora tu sai fare”. E gli adulti - una volta riconosciuto ciascun sapere e apprendimento - delegavano compiti, funzioni, responsabilità diretta.
Ancora oggi la maggioranza dei bambini e ragazzi del pianeta conoscono queste cose nella loro esperienza di apprendimento. Invece, nei nostri luoghi – che sono una minoranza del mondo – la scuola ha progressivamente imposto il monopolio dei codici e dei metodi di apprendimento. Questo ha relegato in spazi secondi e terzi il corpo, l’autonoma organizzazione, il contatto diretto con le materie e la loro trasformazione, il rischio di fare, disfare, scegliere, provare conseguenze dei gesti, assumere presto compiti, eseguire opere. Ma questo ha recato un lutto e una nostalgia. E’ possibile elaborare quel lutto e rendere desiderio quella nostalgia. E’ possibile riscoprire l’apprendimento diffuso, basato sul compito, autonomo, in diretto rapporto con le cose del mondo. Ma solo se la scuola, insieme alle altre agenzie educative, ritrovano il modo di educare al rapporto con la natura, alla scoperta della biosfera e, insieme, al senso delle relazioni umane che servono a custodirla.
Intanto, oggi sta avvenendo qualcosa che disegna un nuovo gigantesco apprendistato cognitivo. Che è globale. Che proietta tutte le discipline del sapere fuori dalle mura scolastiche, su un piano di libero accesso, in mille forme e in ogni luogo. Con la possibilità di essere rapidamente manipolate, variate, confuse, confrontate, espanse. Lo stesso funzionamento del cervello umano viene chiamato in causa: organizzazione della memoria, presenza simultanea di molti codici e dispositivi che stimolano i diversi sensi insieme, compresenza di procedure analogiche e logiche, relazione immediata tra produzione costruita e fruita, tra rapidità e pazienza, tra rigore e invenzione.
Di fronte a questo scenario - una volta consolidati i saperi irrinunciabili durante l’infanzia – l’idea di scuola non può che mutare radicalmente. Perché il tema centrale dell’apprendimento umano passa dai modi della trasmissione del sapere in un tempo-luogo dati a tutt’altro: intreccio complesso tra nuovi media e salvaguardia del rigore del metodo, cura del sapere di base insieme a graduale acquisizione delle procedure di ricerca, sviluppo del protagonismo personale in risposta al rischio di subalternità ai gadgets. L’intero dibattito delle neuroscienze sul come si apprende, il rapporto tra teoria e operatività, tra modelli e laboratorio, tra apprendimento individuale e co-costruzione di competenze insieme agli altri, tra conoscenze fondative delle discipline e conoscenze atte a guardare ai grandi problemi del mondo entro campi di sapere pluri-disciplinari, complessi, con ampie zone di cerniera tra saperi, tra certezze da conquistare e dubbi indispensabili per farlo: è tutto questo che può essere oggi spostato in uno spazio x, che si trova in bilico perenne tra scuola e fuori.
Siamo già dentro questo nuovo orizzonte. Da trasmettitori di saperi ci stiamo facendo metodologi della loro selezione. Da detentori di un corpus di nozioni stabilite e rigidamente divise in discipline stiamo trasformandoci in esploratori e co-produttori di ricerca, sorveglianti di procedure, esperti dei rapporti mutanti tra forme e contenuti, tra acquisizioni e comunicazioni, tra aree diverse di sapere che hanno rimandi e campi comuni. Per farlo scopriamo che stiamo agendo in almeno tre direzioni tra loro complementari. Prima: ricostruire in altro modo i riferimenti fondativi delle discipline e far riscoprire i “classici” in ogni area di conoscenza. E anche i mezzi classici: il buon libro, il vocabolario, gli appunti, l’atlante, il calibro, la china, l’acquarello. Seconda: condividere una navigazione curiosa attraverso le scritture on line, i giochi di ruolo, i programmi di simulazione, scovando il sapere economico, geografico, storico, giuridico, scientifico e i passaggi logici che contengono o esplorare insieme gli immensi giacimenti informatici di letteratura mondiale o matematica, scienze, arte, musica. Terza: produrre opere in ogni campo, promuovere prove d’opera, creare produzioni e scambi globali.
E’ tutto questo che sta accadendo. Ed è così che siamo costretti ad imparare a spezzare il nesso rigido e il controllo deterministico tra l’informazione erogata (il testo, la lezione) e l’informazione richiesta (il test, l’interrogazione) e a fare ingresso nei campi proficui delle procedure di ricerca: l’elaborazione di progetti e produzioni, la decodificazione e l’interpretazione, l’analisi e l’attribuzione di significati, l’espressione di giudizi personali entro procedure sorvegliate e legittime, la validazione di ipotesi e percorsi.
E’ un universo. Che ha bisogno urgente di una nuova scuola.

13 novembre, 2011

Passaggio


Passaggio: è il momento del cambiamento, il variare di stato, di condizione, di prospettiva. Come quando in una sinfonia si passa da una tonalità all’altra. Sentiremo altri suoni. Vedremo le stesse e altre cose in una scena cambiata e in un’atmosfera mutata. Ieri B. ha attraversato Piazza del Quirinale tra i fischi. I clacson hanno suonato a festa: “e da quel suon diresti che il cor si riconforta”. Ma non è una liberazione e non è ancora finita questa storia. Può esserci una bruttissima musica o una musica necessariamente molto seria. Al contempo, è stato rimosso un peso grandissimo, un impedimento che interrompeva ogni strada futura e che ci ha angosciato ogni giorno nel quotidiano dell’anima oltre che nelle relazioni sociali e nell’ecomomia reale. Nel passaggio della vicenda comune non è male ragionare ad alta voce. Con gli altri e più del solito. Ragionare e non aderire e semplificare. Cosa non facile, opera incerta. Con molti dubbi.

Giustino Fortunato
Un po’ la crisi mostra meglio le cose; le distilla.
La crisi politica nasce dall’economia oltre che dal logoramento della politica degli ultimi tempi. E’ il segno di una mancata autonomia e di una marcata incapacità della politica. La roba economica non è una macchinazione, non si tratta di un trucco.
Il capitale e i suoi cicli determinano le cose, spingono alle scelte, soprattutto nei passaggi più critici. La crisi della finanza oggi punisce l’Italia per il suo debito abnorme e per le sue debolezze specifiche e la grave stagnazione economica europea e italiana sono cose vere. Poi determina anche e accellera la vicenda politica. Ma non accettare il dato di fatto di dover dare risposte alla situazione economica con un nuovo assetto della politica, con un senso della straordinarietà della situazione vuole dire fingere di non capire la portata concreta delle cose, il peso del debito e i pericoli effettivi delle speculazioni, della concorrenza accanitissima, della forte recessione che è in atto.
Chi, a sinistra, fa questo errore e continua in giocarelli di bottega non vuole proprio capire; chi, poi, racconta che il default vero e proprio è cosa gestibile sottovaluta colpevolmente il fatto che il peggio davvero non è mai morto in questi casi.

09 novembre, 2011

Italian politics


Squilla il cellulare. “Can you explane all this to me, I really can’t grasp Italian politics” – “Che sta succedendo, davvero non riesco ad afferrare la politica italiana”. Così mi dice l’informatissimo Jack, avvocato, studi in scienze politiche e amico americano.
Gli racconto che sì, mister B. si è dimesso, anche se tecnicamente è un sospeso, il Capo dello stato ha le sue prerogative, vi è un tempo intermedio…
Jack capisce fino a un certo punto: nel mondo o ti dimetti o non ti dimetti. Parto da un altro argomento, che si intreccia con quello sulle procedure e le loro italiche interpretazioni. Gli dico che l’uomo è folle. In due sensi. Continuerà manovre, dilazioni, trappole e colpi di coda. Per provare la rivincita, che è il suo demone profondo. E per ridurre i danni, salvaguardare i suoi fortilizi e interessi, da qui in avanti, anche con l’uso di un eventuale ruolo di “capo anziano” e manovratore indiscusso dell’opposizione (se vincesse l’opposizione di ora), con i suoi deputati eletti con la vecchia legge elettorale, suoi servi, nella prossima legislatura, schierati assieme alle tv per non fare toccare, neanche se perdesse le elezioni, i suoi personali lucri e potentati. Ma è folle anche nel senso che la realtà coincide con il suo sé, come Gheddafi e dunque può anche fare cose per lui non utili…
Chi governerà? – mi chiede Jack. Gli spiego del governo tecnico che se fosse vero sarebbe utile… Ma che è improbabile. E più mi avviluppo nei meandri dei nostri tatticismi, meno capisce. A un certo punto taglia corto: “What are the issues, the debt and then? What would be your political agenda… the nine (not ten) things that you think should be done?” – “Quali sono i punti di merito, il debito sì, e poi? Quale sarebbe la tua agenda politica… le nove (non dieci) cose che tu pensi che andrebbero fatte…”
Venti secondi di silenzio. Poi enumero, uno in fila all’altro i punti, come so che piace a Jack:
1. un anti-trust contro il monopolio in tutto il sistema di informazione;
2. un provvedimento anti-evasione draconiano per chi evade e premiante per imprese e cittadini virtuosi, dedicata direttamente a coprire il debito e se necessario, l’Iva sulle case, secondo ragionevole misura;
3. una patrimoniale sui grandi patrimoni per cinque anni da utilizzare per allentare la pressione fiscale su imprese e lavoro, per riportare al 2006 il budget per la scuola e per politiche contro la povertà e a sostegno dell’auto-impresa vera, per i ragazzi del Mezzogiorno in particolare;
4. l’aumento dell’età pensionabile tranne per i lavori usuranti, con maggiore flessibilità nella sua gestione e un patto tra generazioni che ridia il diritto a una vecchiaia protetta a chi entra oggi al lavoro;
5. una seria flex-security anzicché il brutale diritto di licenziare;
6. un piano di dismissioni pubbliche che contribuisca a coprire il debito ma anche a creare un fondo per valorizzare il patrimonio e difendere terriorio e ambiente;
7. il superamento del bicameralismo perfetto, il senato delle autonomie locali, la diminuzione dei parlamentari nazionali e ragionali e l’abbassamento dei loro stipendi al 10 per cento sotto la media europea;
8. una legge elettorale a doppio turno, con collegi uninominali e le primarie per legge;
9. e due diritti subito esigibili: i pat e una norma di fine vita decente.

25 ottobre, 2011

Povertà e politica


Dieci giorni fa la Caritas, nel suo annuale rapporto, ha documentato ancora una volta l’aumento costante della povertà in Italia.
Nel 2010, 8 milioni e 272 mila persone erano povere (13,8%), contro i 7,8 milioni del 2009 (13,1%). E’ l’11 % di tutti i nuclei famigliari. Ma le famiglie di 5 o più componenti che sono povere passano dal 24,9% al 29,9% e le famiglie monogenitoriali povere – le mamme sole! – dall’11,8 al 14,1%. Invece l’investimento per le politiche della famiglia si riduce e passerà da 185,3 milioni di euro nel 2010, 51,5 milioni nel 2011, 52,5 milioni nel 2012 e 31,4 milioni nel 2013.
Poiché le famiglie numerose sono concentrate nel Sud, il tasso di aumento della povertà in famiglia nelle nostre regioni è passato dal 36,7 al 47,3%! La povertà è poi aumentata lì dove le donne meno lavorano, sempre nel Sud: tra le famiglie di ritirati dal lavoro in cui almeno un componente non ha mai lavorato e non cerca lavoro sono passate dal 13,7 al 17,1%.
La povertà è sempre in rapporto diretto con il mercato del lavoro. In Italia, i cittadini tra i 15 e i 64 anni con un lavoro regolarmente retribuito sono 22 milioni e 900 mila, il 56,9% dei cittadini. La percentuale è tra le più basse dell’Occidente. E diminuisce.
Ovunque i più colpiti sono le donne e i giovani. Lavora solo il 47 percento delle donne e 1 ragazzo su 3 è senza lavoro. Ma nel Sud si scende sotto il 30 percento delle donne al lavoro e a 2 ragazzi su 3 a spasso (solo il 31,7 % degli under 34 lavora) - secondo il rapporto Svimez. Così, la Svimez profetizza che il Mezzogiorno perderà un giovane su cinque nei prossimi vent’anni. Un trend che è già cominciato, infatti negli ultimi dieci anni il numero di emigrati dal Sud verso il Nord è stato di 600mila persone.
Ma ovunque in Italia le prospettive dei giovani peggiorano. Per i giovani l’occupazione è crollata dell’8% nel 2009 e del 5,3% nel 2010. E i giovani che hanno iniziato a lavorare a metà degli anni Novanta matureranno verso il 2035 una pensione analoga a quella degli attuali pensionati con il minimo Inps, ossia di 500 euro. Sono i poveri relativi di oggi e i poveri assoluti di domani.
Di tutto ciò la politica non parla e non parlerà: non esiste una lobby dei poveri né una vocazione a difendere i deboli da parte delle forze sindacali e politiche.
Eppure se votassero farebbero la differenza, se li si riportasse a votare sarebbe un’altra storia…

24 ottobre, 2011

A Bologna parlando di scuola e di Sud

Sono andato a Bologna. Ho tenuto una delle relazioni al congresso di Legambiente scuola e formazione su: "I nuovi modi di apprendere dei ragazzi, dentro e fuori scuola".

Poi sono stato invitato a parlare di scuola e di Mezzogiorno all’evento “Il Nostro Tempo - Convention organizzata da Giuseppe Civati, Debora Serracchiani e Prossima Italia”, insieme anche ad altri.

E se avete pazienza, potete vedere/sentire il mio intervento nel pomeriggio su Radio Radicale. Vi ho incontrato anche il sindaco Luigi de Magistris e con lui ho brevemente parlato degli stessi temi.