31 gennaio, 2007

Mary

Il welfare e i giovani, terza giovane.
Mary. 20 anni. Non ci siamo riusciti a farle affiancare un po’di santa istruzione alla qualifica professionale di estetista e parrucchiere. Corso triennale con bilancio di competenze, prove d’opera e qualifiche. Roba europea. Una fatica per riuscirci che non si può immaginare. Ma solo quelle materie lì, imparare a fare il mestiere bene e basta. L’anno dopo l’ultimo esame ha aperto un business benessere – così lo chiama - con due amiche chiedendo un prestito di quartiere a uno strozzino amico non troppo strozzino. Le banche non se la sono filata di pezza. Porte sbarrate anche per i prestiti d’onore. Imprenditoria femminile? Troppo difficile. Nessuno sportello che sia uno che aiuti. O lo sai fare già o conosci qualcuno. Ora non riesce a scrivere bene una lettera commerciale, ha bisogno dell’inglese per leggere le indicazioni dei nuovi prodotti e ha addirittura preso in prestito un manuale di economia aziendale per provare a fare bene.

30 gennaio, 2007

Carmine

Il welfare e i giovani, secondo giovane.
Un altro che incontro è Carmine. Ha 19 anni. Il padre è volato giù da un’impalcatura al nero quando ne aveva 16. Niente assicurazione e niente di niente. E la madre, rimasta sola, fa le pulizie nelle case delle signore – così le chiama. Carmine ha due fratellini e una sorellina più piccoli. Ha lasciato la scuola a tre mesi dal diploma superiore. Non perché c’era bisogno in famiglia perché vanno avanti con le pensioni dei due nonni materni grazie al banale fatto che la mamma è figlia unica. Ma perché, come dice lui, si era “scocciato di sentire i prof. che vengono in classe a spiegarmi il mondo e come si dovrebbe essere e vivere, in più frustrati, aggressivi e depressi. Andate a fare in culo”. E non andava affatto male. E’ andato via sui due piedi e nessuno lo ha cercato o chiamato indietro. Nessuno. Ha una passione per la tromba che suona in due diversi gruppi, uno rythm n’ blues e uno fusion. E’ autodidatta. Un mio amico musicista di valore dice che è molto dotato ma che avrebbe bisogno di lezioni. Lavora in un bar del centro. Sei giorni a 95 euro a settimana più mance. Ore otto – diciotto.

29 gennaio, 2007

Lella

Ho scritto alcune brevi note sul tema del welfare e dei giovani. Inizio da tre storie che pubblicherò una alla volta. Poi proverò a ragionare sul tipo di risposte che si possono dare ai giovani come quelli che ho conosciuto. Questa è la prima giovane.

In una sera di pioggia incontro Lella. E’ stata una mia alunna. A scuola andava uno schifo, era irrefrenabile e ostentava disinteresse per il sapere. Oggi, quando ha tempo, privilegia trasmissioni educational in tv. Incredibile. Ha 21 anni ora. Ha due figli. Vive in 28 metri quadri. Il marito lavora al nero in una fabbrica di cioccolata. Gli promettono di “regolarizzarlo”. Prende 870 euro al mese. Quando la nonna – non la madre di Lella, che è in carcere – tiene i bambini, Lella può andare a lavorare. Lava le scale. Ciò avviene in due palazzi il martedì e il giovedì. Euro 38 a palazzo a settimana, sette piani di scale. Lella e suo marito la sera fino a molto tardi, nell’androne del palazzo su cui affaccia il monocamera ben attrezzato dove vivono a piano terra, vendono cose al nero. Se le procurano fuori città in un grande outlet della distribuzione dove un cugino passa loro le cose al minuto a prezzo d’ingrosso: barre di cioccolata, biscotti, latte, zucchero, caffè, bibite gelate, caramelle, gomme. Ci puoi trovare anche dentifricio, pannolini, saponette, aspirine, siringhe sterili, preservativi, cotone, alcool, sapone da barba e per lavare a terra o per i piatti, lamette, strofinacci, spugnette ecc. Ci puoi trovare il fumo. Non hanno orario. E’ un servizio. E’ molto comodo se vivi lì vicino e hai dimenticato qualcosa o se ti viene fame di qualcosa di notte. E Lella dispensa anche consigli e sa moderare conflitti notturni di quartiere dagli esiti potenziali davvero terribili.

28 gennaio, 2007

Comunicazione di servizio

Se vedete bene, i post di questo blog hanno cambiato autore, c'è scritto e.r. E' vero io sono e.r., l'elettricista di Marco, ma questo non è un putsch. Sto solo pasticciando con Blogger, la piattaforma su cui sono scritte queste cose. Blogger costringe da oggi a passare alla nuova versione e per un po' figurerò io come autore. Sappiate che l'autore rimane Marco Rossi-Doria e che al più presto ci sarà un nuovo post sul tema dei giovani. Scusate il disturbo stiamo lavorando per lui.

22 gennaio, 2007

Stamattina al bar: Napoli, la politica, i giovani, il welfare

Seconda puntata del tg fatto in casa, anzi al bar.
Stavolta un'intervista un po' prona e vespesca su: le reazioni all'intervento di Marco; alcune considerazioni ulteriori sulla cooptazione come costume politico; sulla condizione dei giovani a Napoli; Decidiamo Insieme sta per avere una sede.

Un video di quattro minuti che potrà vedere solo chi ha l'adsl. Inoltre con un audio pessimo, ma è la città pulsante, bellezza. E poi cercheremo di fare meglio, come si dice in questi casi.
(e.r.)

18 gennaio, 2007

Partecipazione e politica: il testo del mio intervento

Riporto qui di seguito l’intervento da me svolto il 16 gennaio, su invito del segretario regionale DS della Campania, Enzo Amendola, nel corso della iniziativa nazionale dei Democratici di sinistra sul tema “Partecipazione e nuovo soggetto politico” che ha visto la presenza e le conclusioni di Piero Fassino e l’intervento di Antonio Bassolino, ripresi dalla stampa. Come spesso avviene, la stampa ha riportato il fatto che io interloquissi con i DS sul tema indicato come evidenza della mia adesione al partito democratico. Credo che il contenuto del mio intervento chiarisca bene il senso che ho voluto dare a un momento di confronto, che ringrazio i DS di avere favorito, sul rapporto tra partecipazione e politica oggi.

Vi ringrazio per il vostro invito e sono contento di essere qui e di potermi confrontare sul tema al quale mi atterrò. Con l’avvertenza che toccherò solo alcuni aspetti che riguardano la complessa relazione tra partecipazione e soggetti politici.
E permettetemi anche di cambiare un poco i toni e di iniziare in modo seriamente scherzoso o scherzosamente serio.
A me sta molto simpatico Piero Fassino, che incontro qui di persona per la prima volta. Per due ragioni: perché balla e so che sa ballare bene e perché ha giocato a pallone da giovane (ahimé nella Juventus che, per chi ha il Napoli nel cuore, è un problema….).
Su queste cose ritornerò.
Scrive Piero Fassino nel suo intervento agli organismi dirigenti del partito che il futuro soggetto deve sapere davvero unire politica e società. Tutti, però, diciamo e ripetiamo da vari anni che, con la globalizzazione, crescono anche i processi di individualizzazione. Insomma – poiché non lo prescrive la società di fare parte di un soggetto politico e non ce lo prescrive neanche il medico (a me come a ognuno) di aderire al partito democratico o a altri futuri partiti - allora il tema del fare politica si sposta dalla società ai singoli cittadini in quanto individui e non in quanto parte di categorie o di classi o di altri organismi collettivi. E, del resto, lo diciamo tutti che questo è un mondo in cui la politica non si esprime più attraverso l’adesione a grandi correnti collettive a carattere ideologico su cui si fondava l’attivizzazione di milioni di persone nel secolo scorso.
Dunque il tema della partecipazione a un nuovo soggetto politico – lo dico per il partito democratico come per ogni altro soggetto – a me interessa moltissimo. Ma sono personalmente interessato al fatto che nella politica vi sia spazio vero non già per la società generalmente intesa o per le sue categorie (il sindacato, l’associazionismo, il mondo del lavoro, gli imprenditori, ecc.) ma per gli individui. Le singole persone in quanto singoli e cittadini.
Prima di me ha parlato Mauro Calise – che è bene venga qui ascoltato molto più di me non solo per la lucidità con la quale spiega i meccanismi profondi del voto oggi ma perché io le elezioni le ho perse e lui, invece, le ha vinte. Ecco: Calise, nel suo intervento, si occupa degli individui ma focalizzando la questione sul loro ruolo nelle elezioni in quanto capi che gli elettori riconoscono con il voto. Questo, intendiamoci, è una cosa molto importante.
A me interessa, invece, parlare qui del ruolo dell’individuo come partecipante alla politica e non solo come elettore. E non credo di essere il solo ad avere questo interesse.
A questo proposito, leggo in una recente indagine post elettorale curata da Itanes (Italian National Election studies) alcuni dati quantitativi, credo sostanzialmente attendibili, che sono – penso – importanti per il tema di oggi:
o solo il 6% degli intervistati identificabili come elettori dell’Ulivo dice di essere iscritto a un partito,
o e, di questi, più della metà (il 54,5%) afferma di non avere mai partecipato, nei dodici mesi precedenti all’intervista, ad una qualche riunione di partito,
o meno del 3% degli elettori dell’Ulivo dichiara di avere frequentato almeno una volta, nello stesso periodo, una qualsiasi attività di partito,
o meno di 1 elettore dell’Ulivo su 100 (l’1 %!!) dichiara di avere fatto attività di partito spesso, essendo dunque riconducibile alla categoria del “militante”.
Ecco. A me non interessa tanto sapere cosa fa questo 1% .
A me interessa discutere e capire cosa fa l’altro 99%. Su questo mi interessa il confronto. Perché io non credo che gli individui che rappresentano, ognuno a suo modo, questo 99% siano apatici davanti alla politica, stiano tutti a rincoglionirsi dinanzi al TV color o a spingere la carrozzina della figlia nel parco e basta. Penso, invece, che non tutti ma molti di questo 99% occupano, invece, lo spazio pubblico in molti modi e che fanno politica. Perché l’Italia è fatta di tante singole persone che fanno cose, associati con altre persone ma sulla base di scelte individuali, spesso transitorie o momentanee o su tema ben individuabile e non sulla base di una appartenenza. Si tratta di cose semplici o complesse, qualche volta straordinarie, spesso fatte con inventiva e generosità, che hanno una valenza sì sociale ma anche politica, intesa in senso proprio: occuparsi della città o dei luoghi dove si vive più in generale. Personalmente io ho smesso di appartenere a entità o soggetti politici nell’anno 1976, trenta anni fa. E non sono certo solo in questo tipo di percorso. E non penso che in questi trenta anni io, come tanti e tante che hanno scelto forme di impegno non di partito, non abbiano fatto politica. Credo di avere fatto proprio politica e politica in senso proprio. Milioni di persone fanno questo “altro” genere di politica: partecipano a imprese democratiche di varia natura pur fuori dall’appartenenza di partito, nei modi più diversi, in ambiti molteplici o singoli, nel lavoro e fuori dal lavoro, con grande continuità e/o altrettanto grande discontinuità, lungo le storie delle vite individuali.
Una domanda da porsi, dunque, dal punto di vista delle ambizioni che sono al centro di questa giornata, è: il nuovo soggetto di cui qui si parla - il partito democratico - è appetibile o non è appetibile per gli individui che occupano spazio pubblico in questo modo altro dal “militante” di partito?
E qui va anche detto, amabilmente ma con schiettezza, che forse uno dei motivi perché siamo in tanti a fare politica in questo modo “altro” – e ci tengo a precisare che non sto certo parlando della piccola associazione di cui faccio parte ma molto più in generale - sta nella amara constatazione che, ovunque in Italia ma in modo marcato al Sud, i partiti si sono progressivamente ma implacabilmente trasformati da associazioni di cittadini in società di professionisti della politica. Con tutto quello che ne consegue – lo dico in modo fattuale e non giudicante o moralista, credetemi – e che qui non si ha il tempo di trattare a dovere.
E allora, per essere appetibili alla più larga partecipazione, per avere questa ambizione, un nuovo soggetto politico dovrebbe intanto scegliere di ribaltare quella che è la sua priority list, come la chiamano gli inglesi: l’ordine delle priorità. E faccio un esempio. Si è deciso che il decentramento amministrativo è una battaglia democratica? Beh allora ci si deve impegnare su questo. Voi sapete che ci stiamo battendo qui a Napoli perché le municipalità funzionino secondo buone procedure ed effettivo decentramento. Ma ci piacerebbe anche che i partiti si attivassero “facendo cose” con i cittadini: tenere aperto o allargare uno spazio verde del quartiere, promuovere un budget partecipativo, sostenere una azione di inclusione sociale per i giovani, ecc.
Invece l’impegno largamente prevalente oggi dei partiti, qui e altrove, non è principalmente volto a questo tipo di attività ma è concentrato sulla mediazione interna ai partiti e sulla gestione di relazioni atte al mantenimento di consensi e di controllo.
Penso che ribaltare questo ordine implichi cambiare metodo, abitudini, linguaggio. Una cosa molto faticosa, lunga, seria. Ma anche molto concreta. Credo, per esempio, che ribaltare la priority list di un partito significhi che, in concreto, per 8 ore di lavoro per la cittadinanza attiva vi possa essere massimo 1 ora di lavoro dedicato al partito e tra partiti. Non il contrario.
Ma c’è di più. E vengo al tema che qui è stato giustamente richiamato dalle donne intervenute, al quale sono sensibile per una lunga storia anche personale che fa sì che alla fine qualcosa forse ho imparato dall’impegno di mia mamma o delle mie sorelle o di mia moglie o di tante amiche. Il posto delle donne nella partecipazione alla politica – attenzione – non si può limitare alla pur decisiva questione, anche qui a ragione sollevata, di quanti interventi sono fatti da donne o di quante sono le donne elette. E – perdonatemi – ma non ci riesco a non ricordare, caro Piero, che fuori dal consiglio comunale di Napoli ci dovrebbe essere un drappo nero listato a lutto perché prima abbiamo sentito che a Nassyria (a Nassyria!) il 30 % del consiglio municipale appena eletto è composto di donne mentre noi qui siamo l’unica grande città d’Europa che non ha una sola eletta al consiglio, dicasi una sola! Una vergogna che vorrà pure dire qualcosa di più generale… Ma dicevo, l’impegno in politica delle donne va inteso anche nel senso che la politica possa avere un fiato collegiale, basato su maggiore reciproco ascolto, meno leaderistico. E anche con più spazio per le emozioni, il conflitto interno a ognuno, la pena, la speranza e anche – caro Segretario Fassino – per la danza e per il calcio.
Perché, nel 2007, non è appetibile l’appartenenza a un soggetto che chiede adesioni fuori da questo orizzonte ben più largo e più ricco.

17 gennaio, 2007

Non è vero che ho già preso la tessera del partito democratico

In attesa del prossimo e, come chiede Roberto, più vivace videoclip, vi annuncio che domani pubblicherò qui in forma integrale l’intervento che ho fatto ieri alla manifestazione nazionale dei DS, tenuta a Napoli sul tema “partecipazione e nuovo soggetto”.
Così sarà chiaro che mi sono attenuto al tema: "la partecipazione democratica" e non a quello della mia partecipazione al partito democratico. E poi sarà anche evidente la mia posizione su quest'ultima questione, che dalle cronache dei giornali non esce con la giusta chiarezza.
A domani.

14 gennaio, 2007

Stavolta è cosi'

Vi racconto alcune cose che stiamo facendo e altre che penso.
Stavolta così. Poi vediamo.
Dipende anche da cosa ne pensate.
Buon 2007.

Avvertenza: è necessario un collegamento adsl.
(non è proprio la Rai e la truccatrice aveva di meglio da fare, ma è un prodotto genuino)

27 dicembre, 2006

Auguri a tutti noi

Mi scuso per avere abbandonato il mio blog. Abbiamo lavorato a una giornata-assemblea di decidiamo insieme che è costato lavoro quasi per tutto il tempo non occupato dal lavoro normale. Sono a Roma, giorni di lavoro sul nuovo obbligo che è passato in finanziaria… ma c'è da dargli significati veri e possibili e non sarà semplice. Poi mi riposo. Intanto vi è stata, appunto, la giornata di Decidiamo Insieme il cui documento finale - v. il nostro sito che lo contiene insieme a altri elementi di dibattito che vanno emergendo - ci fornisce una traccia per riprendere a gennaio l'attività con maggiore chiarezza. Si può iniziare con i rifiuti?

04 dicembre, 2006

Basta timonieri, ricostruiamo la democrazia


Passata la cresta dell’onda dell’esposizione mediatica della crisi di Napoli, ora va scemando anche la ballata dei “faremo, siamo già in procinto di…, manca poco a…, stiamo per attuare…” che ha accompagnato e seguito la visita del Presidente della Repubblica.
Nei mesi a venire vedremo quanto ci avrà potuto donare questa visita al di là del fiume dei buoni proponimenti.
So che in giro vi è stata una polarizzazione interpretativa di questo passaggio della politica a Napoli o come un indispensabile lenitivo per le troppe ferite aperte e un avvio di un qualche nuovo inizio o come un dettagliato disegno di conservazione, benedetto dal ceto politico romano di centro-sinistra sulla base di un accordo con la classe politica locale, predisposto con diabolica cura e destinato a qualche strana forma di successo.
Non credo né all’una né all’altra cosa. Entrambe le interpretazioni sono il frutto di pensieri costruiti sui desideri. Sarebbe tutto sommato più rassicurante o vedere le cose che riprendono magicamente il verso giusto o credere che basti una macchinazione ben congeniata a conservare l’inconservabile.
Non amo queste opposte rassicurazioni perché non credo alle competenze taumaturgiche del nostro stantio ceto politico né penso che la cosmesi, per quanto ardimentosa, possa riuscire a fermare il declino.
Penso, invece, che si debba metodologicamente restare ancorati ai fatti - oggi e nei mesi a venire. Perché la catena dei fatti ci descrive una crisi di tale profonda gravità da farne un’anomalia rispetto a qualsiasi altra grande area urbana d’Europa. E’ qualcosa di perdurante e che ha bisogno di ben altro che degli squilli di tromba per le autorevoli visite o del gran gala delle buone intenzioni.
Rielenchiamoli questi fatti distintivi della nostra crisi:
  • la presenza di un potere economico, politico e militare moderno e pervasivo – la camorra – che impedisce l’esercizio del monopolio della forza da parte dello Stato democratico;
  • una crisi della sicurezza pubblica che non ha altri esempi in Europa e una mancanza di esercibilità dei diritti fondamentali, a partire da quelli alla libertà e sicurezza personali, alla formazione e al lavoro regolare;
  • i modelli stessi dello sviluppo, con l’allargamento terribile della forbice tra persone protette e persone escluse, con la povertà relativa che ha raggiunto il record italiano;
  • una riproduzione parassitaria, molto più grave che altrove, di tutti i mali della pubblica amministrazione con l’aggravante del una testardo rifiuto di ogni innovazione organizzativa e dell'introduzione di pur minimi criteri di efficacia riferibili al merito nell’uso delle risorse economiche e umane, con l’aggiunta della conservazione di estese pratiche personalistiche e di illegalità;
  • la esclusione da condizioni di dignità propri della cittadinanza e delle minime opportunità per intere fasce della popolazione non solo povere (anziani, bambini, adolescenti, diversamente abili, giovani ecc.);
  • un generale degrado ambientale e nelle condizioni di vivibilità urbana, soprattutto nelle periferie, di cui la crisi dei rifiuti è solo l’elemento di punta;
  • la ripetizione di modelli di offerta culturale che a poche iniziative di qualità sostenute dalle amministrazioni, fruibili da una piccola minoranza di cittadini, affianca l’abbandono di interi settori della cultura e delle arti, dei giovani talenti e di tutte le esperienze non asservite e, insieme, la costanza di uno sconvolgente provincialismo sui piani della proposta, del metodo, dei contenuti, dei linguaggi, della comunicazione;
  • le modalità dell’esercizio della democrazia politica che vede un'accentuazione della chiusura di spazi partecipativi e di effettivo decentramento, una esclusione marcata delle donne, un ormai stanco ripetersi di liturgie accentratrici da parte di un inamovibile blocco di potere che viene definito come un esempio estremo di nomenclatura di partiti che estende la sua cerchia a strati di cosiddetta società civile, che intende la coalizione di governo entro logiche spartitorie e gestionali assolutamente impermeabili alla società e al ricambio, che ha governato fin qui senza successo e incentra, tuttavia, ogni attività sulla caotica e litigiosa asserzione della propria autoreferenzialità.
Così stanno le cose. E mentre è doveroso continuare a suggerire soluzioni ai problemi presi uno per uno, in modo civicamente propositivo – come stiamo cercando di fare nei luoghi del dibattito pubblico o sulle pagine dei giornali – tuttavia penso che, al contempo, c’è bisogno di ripetere “l’analisi cruda della situazione concreta”. Perché è solo questa crudezza che mostra che le diverse varianti delle soluzioni di chirurgia plastica non sono capaci di rispondere all’enormità della crisi di Napoli, che un ciclo storico si è chiuso per sempre, che delle sue miserie ci sono i responsabili politici che conserveranno, nella storia, i loro nomi e cognomi, che i loro scudieri, per quanto fidi, non sono meglio dei padroni e che la strada della ripresa è lunga e faticosa ma soprattutto impone un radicale cambiamento negli indirizzi programmatici reali, nel metodo, nei toni, negli stili e nel personale della politica.
Un elemento decisivo di questo cambiamento radicale, a Napoli, può derivare dalla convinzione che non ci serve un altro santo o eroe o timoniere egregio. Dobbiamo, insomma, rigenerare la nostra politica senza più delegare la mente e le forze al capo per poi magari urlare al tradimento, presi dallo sconforto della disillusione ogni volta ripetuta dopo ciascuna illusione. Per sortire da questa crisi, dobbiamo tutti iniziare ad impegnarci a un lungo lavoro di riparazione e ricostruzione, fortemente collegiale e partecipativo e alla costruzione condivisa e faticosa di una cultura di governo finalmente moderna che non consenta più né re, né vice-re né similari. E’ un’impresa che riguarda tutti e ognuno, forze politiche e non. E che riguarda anche Decidiamo Insieme, che era nata anche per questo.

21 novembre, 2006

In viaggio per la scuola pubblica

Sono state due settimane da lunedì a venerdì con molti giri. Sono stato a Cagliari, Verona, Genova, Bologna, Milano. Giro scuole: professionali, medie. Ascolto e rifletto su come costruire insieme alle scuole il nuovo obbligo scolastico. Cosa fare con i ragazzi, cosa sono le competenze di base oggi, come si costruiscono insieme e dentro le diverse discipline? Quanto ci mettiamo per sostituire la lezione frontale con il laboratorio ben pensato e ben costruito dai gruppi docenti? Nelle scuole c’è una sorta di voglia lenta di riprendere il cammino. Ma c’è anche depressione, non ci si crede. E’ difficile riprendere la strada dopo la Moratti e anche dopo i fallimenti precedenti. Ma cos’altro c’è oltre la scuola pubblica? Bisogna trasformare bene le cose che ci sono. C’è tanta gente brava, competente che va sostenuta.

Gli episodi di disagio agiti, in modo così terribile nelle scuole…. Mozzano il fiato.
Mi riprometto di scriverne più a lungo. Chi sta a contatto con i ragazzi e i docenti sa che eravamo tutti in allarme da anni.

Poi a Napoli da venerdì sera a domenica. Vedo molte persone.
Ieri sera al Teatro Nuovo alla presentazione del libro su Chelsea e sulla partecipazione deliberativa vi era tanta gente e un ottimo momento di riflessione. Uno degli interrogativi, proposti da Daniela Lepore, era quale legame c’è tra tecnica delle esperienze partecipative - lì raccontate con grande dettaglio e cura e vissute da tanti presenti come una riprova che quella è la direzione da prendere anche a Napoli, in forme che dobbiamo contribuire a trovare - e la possibilità di fare politica in modo nuovo.

Quasi come in una metafora di questi interrogativi, in sala, in mezzo a un pubblico chiaramente parte del privato sociale critico verso gli attuali assetti politici campani e con molti iscritti a Decidiamo Insieme c’era anche il nuovo segretario regionale dei DS, Enzo Amendola, curioso e attento.
C’è curiosità in giro verso di lui. Si mischia però a una sfiducia verso l’apparato del suo partito. Mi sono incontrato con lui varie volte. Dice cose molto simili a quelle che in tanti abbiamo pensato, scritto e detto durante questo anno. E’ aperto. Sa ascoltare. Non pare temere novità, conflitto, aperture.
Vediamo. Come era scritto nel commento di qualche giorno fa che ho già citato:
“se vogliamo crescere abbiamo bisogno di altri”.

09 novembre, 2006

Tre frasi da cui partire

cito dai commenti:

“esposti al pubblico disprezzo
perchè l'emergenza criminalità copre tutto
e tutti possono restare ai loro posti”

“serve, anche, che si diano risposte politiche;
che si assumano le proprie responsabilità”

“se vogliamo crescere abbiamo bisogno di altri”


Il problema civile di Napoli gira intorno a questi tre punti. Come cittadini e come forza che vuole fare politica in città e per la città dobbiamo concentrarci sulle cose da fare e in modo partecipativo. Bisogna, insomma, rendere vive queste tre affermazioni. Non fermarsi all’emergenza e mobilitarsi perché non sia un alibi per lasciare tutto come è. Lavorare sulle cose da fare. Dire che il riscatto è possibile ma indicare anche su cosa, come, quando e ripeterlo, ovunque: alla radio, in TV, sui giornali. E, poi, confrontarsi con tutti sul merito e in modo propositivo. Decidiamo Insieme sta cercando di fare proprio questo, in questi giorni: ieri l’altro sulla sicurezza e il piano strategico, venerdì sulle municipalità da rendere vere e non finte. Insomma proviamo a lavorare con umiltà, a essere seri, fermi nell’opposizione a questo ceto politico ma, al contempo, a essere portatori di proposte, aperti a ogni confronto. E a proposito di confronto: sono d’accordo con chi dice che i progetti pilota in materia di istruzione e formazione – Chance o tanti altri - si mettano subito a lavorare con le scuole e senza spocchia perché c’è tanta fatica da fare insieme e tante cose da imparare gli uni dagli altri. Ma ricordiamoci anche che tutto è in salita e che si tratta di mettere le forze insieme e lavorare col fiato lungo e non corto.

02 novembre, 2006

Sono giorni difficili, una sola risposta non basta

Sono giorni difficili. I media sovraespongono quel che noi napoletani viviamo. Sono preoccupato per le semplificazioni banalizzanti: c’è chi invoca insensatamente l'esercito come la soluzione delle soluzioni e chi dice che basta la scuola per tutti che da sola salva ogni cosa.
Invece la situazione richiede varie risposte, una sola non basta. Ne scrivono molti, per esempio Enrico Pugliese, e ne ho scritto anche io ieri sulla Repubblica Napoli.
Sappiamo che presto spariranno i titoloni e dovremo riprendere il cammino paziente e duro che, però, come ha scritto Macry sul Corriere del Mezzogiorno, non può avere i co-responsabili del disastro che si fanno anche salvatori della patria. E tendo a dare ragione a "rif. ex" e ad altri commenti sul fatto che i cocci sono anche nostri.
Infatti noi dobbiamo costruire reazione, bisogna suscitare ovunque dibattito e aprire spazi. Alcuni di noi (io non so se potro’) saranno alla iniziativa di laboratoriopolitico per vedere di cosa si parla e dove si va. Ho anche incontrato i grillini per strada e ci siamo detti che comunque ci vuole un parlare fitto, diffuso che crei spazio per reagire.

30 ottobre, 2006

Chi governa è responsabile e i cocci sono suoi

La vicenda degli sprechi nelle neonate municipalità (vicenda antica ma esposta finalmente ai cittadini solo grazie all’azione del consigliere di municipalità di Decidiamo Insieme Norberto Gallo che ha sollevato il coperchio, unico tra i trecento consiglieri di ogni parte politica) e poi del costo pauroso delle società miste in Campania, spesso o inutili o dannose, ci ricordano il problema centrale della responsabilità della politica in ogni scandalo nella gestione della cosa pubblica. E’ questo il senso delle rinate puntuali campagne di stampa che troviamo sulle pagine locali, per un lungo periodo abituate alla lode o alla ossequiosa e garbata osservazione una tantum. Prendete una qualsiasi pagina napoletana di Repubblica di uno o due anni fa e quelle di oggi: sono due diversi mondi. Si annuncia una nuova stagione. E tale stagione implica la indicazione delle responsabilità politiche.
In altre parole è vero – qui come negli Stati Uniti o in Kenya o in Spagna o in Argentina ecc. ecc. - quel che diceva Pasolini: chi governa è responsabile in primis, che abbia o no responsabilità diretta in singoli episodi o vicende, che abbia o no ragionevoli attenuanti. Quando, ai suoi tempi, parlava di processare la DC non intendeva se non questo: al di là della vittoria elettorale, che va sempre riconosciuta, nelle vicende di cattiva gestione delle pubbliche risorse, si rende necessario anche un civile dito puntato contro chi, a furia di amministrare male, porta sciagura alla cosa pubblica. Uno studioso attento della funzione e della degenerazione della politica in Campania come Percy Allum dice – a tal proposito - sull’ultimo numero dell’Espresso che ancora oggi il modello di chi è al potere a Napoli e in Campania ha i tratti che egli aveva studiato nel periodo di Gava. Se, poi, allo sperpero delle risorse, colposo o colpevole che sia, si aggiungono i grandi temi della quotidianità che non rende possibile il vivere civile – non sapere gestire i nostri rifiuti in modo responsabile e razionale, non sapere contrastare il crimine che nega di fatto i diritti fondamentali alla sicurezza e alla libertà, non dare speranza ai giovani e a chi sta peggio – beh, allora, oltre alla difesa del denaro pubblico c’è il tema della funzione stessa della politica come leva per salvaguardare e migliorare la vita da una generazione all’altra. Insomma: nella crisi napoletana e campana che oggi torna prepotente su tutti i media nazionali, vi è comunque il segno sicuro che gli ultimi 15 anni di esperienza politica di centro-sinistra hanno portato a un vicolo cieco e tradito ogni promessa.
E questo è. Ben oltre le difficoltà obiettive che noi tutti riconosciamo e i compiti complessi.
E questo significa un’altra cosa. Da parte di questo gruppo dirigente di centro-sinistra la candidatura alla guida politica del risanamento e del riscatto è improponibile. Si sta aprendo, infatti, la stagione della constatazione dei danni a cui va affiancata la stagione delle alternative di metodi e di uomini e donne. Queste stagioni, in politica, sono interdette a chi i danni ha contribuito a farli.

24 ottobre, 2006

Povertà, democrazia, scuola

Ho riguardato con cura i dati sulla povertà relativa in Italia e nella nostra regione e città.
Mi occupo di povertà da anni perché un indicatore importante del fatto che la scuola pubblica assolva alla sua primaria funzione, in un qualsiasi paese del mondo – secondo tutti i documenti ONU e tutti gli studi - risiede nel fatto che vi sia mobilità sociale ossia che i figli di operai o disoccupati o contadini o impiegati abbiano la scelta di fare cose diverse dai propri genitori e guadagnare anche meglio, che abbiano, dunque, scelte disponibili e opportunità tendenzialmente sempre più uguali agli altri cittadini più fortunati. Si tratta della scuola nella sua funzione di leva per la “discriminazione positiva” che è quella cosa per la quale si dà di più a chi parte svantaggiato e si evita di perpetuare l’ineguaglianza dando cose standard e uguali a persone in condizioni di partenza non uguali. Per i giovani cittadini in crescita questa possibilità di emancipazione dalla condizione di partenza grazie alla scuola pubblica è internazionalmente considerato anche un indicatore di democraticità della società perché è acclarato che maggiore sapere facilita cittadinanza e possibilità partecipative che, a loro volta, nella società della conoscenza, favoriscono competenza deliberativa a livello locale e nazionale. Democrazia e mobilità sociale verticale sono tra loro legate e hanno origine in un buon sistema scolastico pubblico. E il primo passo in questa direzione sta nella possibilità che un figlio o figlia di poveri, grazie alla scuola, non riproduca la condizione di partenza ma, invece, esca dallo stato di povertà.
Chi è un povero oggi in Italia? Si considera povera una famiglia di due persone che vive con meno di 936,58 euro al mese. Si ottiene questa cifra moltiplicando la spesa media pro-capite nel Paese per un coefficiente che calcola le ottimizzazioni ed è al contempo legato al numero dei membri della famiglia. Così un single è povero se guadagna meno di 561,95 euro al mese mentre una famiglia di quattro persone lo è sotto i 1.526,63 euro al mese.
Ebbene. La povertà relativa riguarda l’11,1% della famiglie italiane, ben 7.577.000 persone che sono il 13,1% dell’intera nostra popolazione. La percentuale aumenta per le famiglie con 1 lavoratore dipendente, per quelle con più persone in cerca di occupazione, per le donne sole e per famiglie più numerose, tanto che la percentuale di poveri ragazzi e bambini è maggiore della media. Ma attenzione: quasi tutti questi fattori trovano i picchi al Sud e si tratta, negli ultimi 2 anni, del 24% - 25% della famiglie meridionali – 1 su 4 ! – che sono povere nel Mezzogiorno. Ciò a fronte del 6,0% - 7,3% delle famiglie del Centro dell’Italia e del 4,5% – 4,7% delle famiglie del Nord. Inoltre la percentuale è sostanzialmente ferma per il Centro, è in lieve diminuzione per il Nord ma aumenta, invece, di circa 3 punti percentuali al Sud e l’intensità di povertà – il quanto si è sotto quella soglia – è ben più elevata a Sud.
La situazione in assoluto più grave è quella della Campania dove il 27% delle famiglie è povera e in costante aumento. E, entro la Campania, i picchi della crisi sono le zone metropolitane della Provincia di Napoli e, in modo esponenziale, le periferie e i quartieri interni della città di Napoli in particolare. Se si incrociano questi dati con quelli relativi a disattesa scolastica e fallimento formativo vi è piena corrispondenza: nelle aree territoriali di massima povertà aumenta il fallimento scolastico.
Inoltre la mobilità sociale verticale in Italia è sostanzialmente ferma, in generale, da circa 15 anni ed è chiaramente peggiorata dal periodo 1960- 1980. Allora i figli di operai e braccianti avevano più possibilità di emanciparsi e migliorare di quanto non lo abbiano oggi i figli di operai, impiegati e poveri a lavoro precario. E’ una situazione estrema tra i paesi sviluppati. La mancata mobilità sociale verticale è, poi, letteralmente precipitata nel Sud, in Campania e nell’area di Napoli in modo ancor più grave che altrove. E ciò spiega largamente la ripresa dell’emigrazione interna dalle nostre zone verso il Centro- Nord. La scuola italiana è dunque tra quelle meno capaci di favorire emancipazione, è una scuola più “di classe” delle altre dei cosiddetti paesi sviluppati ed è più “di classe” oggi che ai tempi di Don Milani. Non promette molto ai soggetti più deboli in termini di conoscenze e possibilità di lavoro futuro, non favorisce i processi democratici nella società della conoscenza per chi ne è fuori alla nascita, immette pochi ragazzi più esclusi nei processi di orientamento e nel mercato del lavoro locale, intercetta poco la fascia in assoluto più debole della popolazione adolescenziale che è quella che non termina o termina a stento gli 8 anni di obbligo, consente pochissima formazione continua nelle diverse età della vita in generale e per chi non l’ha fatta prima. Tutti questi indicatori sono ancor più marcati in Campania e a Napoli.
Non tutto dipende dalla scuola e un miglioramento della scuola senza strategie di sviluppo equilibrato sarebbe una politica monca. Tuttavia la scuola deve cambiare. E solo se cambia conserva la sua ragione d’essere. Altrimenti serve per dare buona scuola pubblica quasi gratis a chi ne ha meno bisogno – come acutamente osservava Domenico Starnone qualche anno fa. Questa constatazione significa porsi il problema di cosa cambiare nel modo di fare scuola a favore dell’apprendimento, coinvolgimento e sostegno maggiore ai ragazzi. Qual è la direzione per ritrovare la missione primaria della scuola? Non è facile indicare gli indirizzi. Ma alcune cose sono evidenti. Se i cambiamenti implicano più soldi ai docenti ma anche una trasformazione radicale nel modo di essere docenti in termini di reale maggiore libertà e di maggiore diretta responsabilità sull’organizzazione scolastica e sui processi di apprendimento si va nella direzione giusta. Se si superano le logiche di brutale standardizzazione dei processi di apprendimento a scuola (stesse lezioni, stessi compiti, stessi assetti didattici a tutti) a favore di un sistema misto che salvaguardi cose comuni ma sappia anche differenziare per dare di più o diverso a chi ne ha bisogno si va nella direzione giusta. Se si applica il principio “uguale salario a uguale lavoro” (tanto per usare la formula classica che fu addirittura di Marx ed Engels) e si abbandona la pretesa di dare “uguale salario a tutti” si va nella direzione giusta. Se i soldi vanno a premiare chi sta con i ragazzi e promuove innovazione, al contempo, ma come gruppo di docenti e non come singolo si va nella direzione giusta. Se si smontano le burocrazie e il delirio aziendalista, per di più anacronistico anche nelle aziende, a favore di vera autonomia scolastica per la quale le scuole rispondono al territorio del loro lavoro e concordano le modalità entro le quali possa avvenire una valutazione partecipata e premiano il protagonismo dei gruppi docenti organizzati come comunità di pratiche d’accordo con i dirigenti si va nella direzione giusta. Se si accoglie l’emergenza campana e napoletana e di altre aree di grave crisi nel Mezzogiorno e si dà sostegno straordinario alle buone cose ordinarie che si fanno ogni giorno a scuola e alle azioni che combattono la dispersione scolastica di massa si va nella direzione giusta. Se si premiano le innovazioni che funzionano si va nella direzione giusta. E’ questo di cui si deve discutere. Si tratta di una battaglia difficile e lunga che è “di democrazia”.
Non mi pare che oggi dalle nostre parti si intenda la politica come discussione di merito su queste cose.