Intanto la situazione sta peggiorando, come previsto. Da cittadino ne sono anche spaventato. Quando c’è il rischio di epidemie, quelle vere e i ratti aumentano e entrano nelle scuole non si può certo gioire del fallimento politico di un sistema di potere che ho criticato e contro il quale ho condotto una battaglia democratica un anno fa. Anche perché i suoi rappresentanti a tutto pensano fuorché a dimettersi, che sarebbe l’unico atto civile e sensato da fare.
Domani risponderò ai commenti.
E’ davvero tempo di un crudo bilancio politico.
La Campania, incapace di essere pattumiera di se stessa, è anche la pattumiera dei veleni d’Italia. Ne raccoglie il 43%, per lo più sotto il controllo delle eco-mafie. Ha a tal punto intossicato i terreni e le acque che le percentuali di probabilità di cancro per noi sono 400 per cento quelle della media nazionale, un danno irreparabile, che resterà per molti secoli. Al contempo la Campania, le sue province e i suoi comuni, con rare, encomiabili eccezioni, hanno permesso – ciascuno per le sue responsabilità - che si protraesse nel tempo un ciclo doloso dei rifiuti che non ha pari in Europa: la mancanza di impianti moderni corrisponde a una raccolta dei rifiuti che non consente di trattarli facilmente per creare energia e combustile e questo corrisponde a mancata raccolta differenziata, riciclaggio e rigenerazione che, a sua volta, corrisponde all’uso, fuori da qualsiasi misura accettabile, sia delle discariche che del trasporto con treni fuori dal territorio, due opzioni che drenano denaro pubblico per miliardi di euro a favore della speculazione nella compravendita dei suoli e negli appalti sui trasporti. A tale ciclo si è aggiunto il fatto che, per trattare – si fa per dire - i rifiuti campani sono stati assunti un numero di addetti per abitante almeno 7 volte la media delle altre regioni.
I legami, reali o potenziali, tra politica e camorra su ognuno di questi fronti è tale da far tremare i polsi.
Tutto questo è avvenuto contro la legge nazionale in materia ambientale, che è una buona legge perché funziona ovunque, tranne in Campania. E questa deroga alla legge ha prodotto un tale disastro che il governo nazionale è dovuto intervenire, per decreto, a sua volta in deroga alle leggi dello stato, un paradosso che non trova paragoni.
Così si perpetua l’emergenza, si delega all’ennesimo salvatore della patria il quale almeno assume responsabilità e agisce in extremis e di fronte al pericolo di epidemie. Ma al contempo le maniere a dir poco sbrigative avviliscono la responsabilità partecipativa e i diritti dei cittadini.
E’ su questa scena tragica che accade, grottescamente, quel che cento volte è avvenuto nel Mezzogiorno. Gli esponenti della classe dirigente locale, responsabili del disastro - proprio come raccontava Salvemini cento anni fa – si permettono di criticare l’operato del governo, assumendo il noto ruolo del notabilato sovversivo meridionale che critica in nome dell’antica arte: salvare i voti, la sedia e non assumere responsabilità. Il notabilato più sapiente non si arrischia su tale terreno ma o tace o dice poche cose, lascia ancora una volta passare tempo, tesse le relazioni con il centro, alza i soliti muri di gomma.
Quel che avviene per i rifiuti accade su ogni altro tema della vita comune. Non abbiamo un piano strategico di sviluppo? Non si danno deleghe e soldi promessi alle municipalità? Non si capisce che succede a Bagnoli o perché il comune ha elargito nuovo denaro per la STU di Scampia? Lo stadio di Scampia appare e sparisce come nel gioco delle tre carte? Aumenta la forbice tra ricchi e poveri e le politiche di inclusione non mordono mentre la povertà cresce? Notizia. Breve polemica locale dell’uno o dell’altro. Ogni tanto qualche timido o meno timido intervento del governo centrale a secondo della gravità del tema. Fuoco di fila o muro di gomma del notabilato locale.
Ma intanto muore la politica e la speranza civile. La politica, infatti, non si misura solo con i suoi fallimenti in termini di risultati concreti e di sperpero del nostro denaro. Si misura, in democrazia, anche con l’etica pubblica, legata ad una funzione educativa. Da tale punto di vista la nostra classe politica locale ha condotto una sistematica azione diseducativa verso i cittadini perché è stato insegnato che le cose non si possono risolvere, che non esiste una regola, che quel che si dichiara non ha alcuna corrispondenza con quello che si fa, che nessuno porta responsabilità e che illudersi di proporre nel nome del bene comune è mera ingenuità.
Durante la campagna elettorale, ieri a Napoli e oggi a Palermo, si racconta che si usano i telefonini a prova del voto per ottenere regalie, che si pagano prebende per mettere manifesti nei quartieri difficili e portare i fac-simili – i famosi santini – nelle scale dei palazzi, casa per casa. C’è chi lo fa e chi no. A destra e a sinistra. C’è chi lo denuncia nelle aule dei tribunali o sulla stampa e in tempo utile per ridare forza alla legge. E chi no.
Se accade questo è davvero tempo di ricostruire la politica nel nostro territorio. Su tutta la linea: rifiuti, gestione dei progetti per la città, politiche sociali ma anche modalità di costruzione del consenso.
Ma, per farlo – si tratta di un’opera quasi disperata - va respinta la retorica della volontà e dell’ottimismo. Ci vuole invece una analisi pessimista e intelligente di questi anni disastrosi. Una analisi pubblica. Una riflessione civile. Che implica un ampio, serrato giudizio politico su chi li ha condotti. E che deve evitare l’altalena tra richiami moralistici e salvaguardia della continuità. Non basta il cauto e ben manovrato avvicendamento generazionale qui da noi. Ci vuole, invece, una chiara rottura di continuità. E non solo se ne devono andare i vecchi. Se ne deve andare un modo di intendere la politica che troppo spesso hanno trasmesso, addirittura peggiorato, ai loro eredi.