Ieri i giornali raccontano dei due ragazzi, una volta amici per la pelle, morti ammazzati a poche ore di distanza su fronti rivali al rione Berlinghieri e ad Arzano, numero 77 e 78 dall’inizio di quest’anno, quasi tutti tra i 20 e i 28 anni, carnefici e vittime della eterna guerra di camorra che si riaccende ora. Uno ha ucciso l’altro come prova di fedeltà al nuovo boss per essere a sua volta ucciso. Ai transfughi da clan a clan viene chiesto di uccidere i vecchi amici con cui avevano passato decine di serate in pizzeria o giocato a calcetto nella stessa squadra di quartiere…
Ho scritto l'articolo che segue per Repubblica Napoli del 25 settembre, dopo la ennesima sparatoria di strada nel mio quartiere.
L’altro ieri due persone hanno sparato con una 7.65 e una calibro 9 e ferito di striscio in pieno giorno Francesca, una ragazza del mio quartiere. All’altezza del bimbo che spesso porta per mano. Ma che per un caso non era con lei. Era già successo che sparassero di domenica così. Avevo sentito i colpi secchi dal mio balcone meno di un mese fa.
Riprende, pericolosa, la guerra tra bande al centro della nostra città. E entra nel nostro dì di festa. E tutto intorno a questa guerra, dichiarata e strisciante - che si è preparata nelle nuove spartizioni di camorra, che si è nutrita dei mercati delle droghe, del controllo su mille commerci, del voto di scambio – c’è un più largo, diffuso modo di fare, pronto alla violenza, che porta la nostra vita quotidiana ad accettare ciò che non dovrebbe.
La scena non l’ho vista. Ma chiunque abita nei quartieri la sa immaginare. Si torna dal passeggio in villa per la domenica ecologica. Magari con i bambini, i pattini, la bici, il pallone. Si sale verso casa. C’è il pranzo della domenica e c’è il Napoli in tv che finalmente sa giocare a calcio. Passano in motorino due ragazzi. Veloci. Non pensi neanche che stanno per sparare, magari solo per dare un segnale o per sfregio. Siamo abituati o, per meglio dire, assuefatti allo sfrecciare incosciente delle moto. Eppure dà sempre un po’ fastidio questo tagliare, oltraggioso, le curve dei vicoli con un veicolo usato come arma impropria. Perché è un luogo dove si vive in tanti, il mio quartiere, il tuo quartiere. E ci appartiene e noi vi apparteniamo: insegnanti, commercianti, operai, artigiani, gente che, in assoluta maggioranza, vive di onesto lavoro. Faticosamente. E perché corrono di domenica mattina, incuranti dell’anziana che fatica a salire per il vicolo, del venditore che sbaracca il banco dei frutti di mare o del pane fresco, del bimbo che attraversa, della signora che si è fermata distratta proprio sull’angolo dove svoltano. Ma siamo abituati, appunto. Neanche più gli gridiamo dietro. E non solo perché capita ogni giorno, molte volte. Ma perché potrebbero essere anche imbottiti di coca, arrabbiati per fatti loro, magari armati. Meglio lasciare correre… Una volta ho riconosciuto un ragazzo che correva così. Era una sera prima di Natale. Tanta gente per strada. E gli ho gridato. Mi si è avvicinato. Con uno sguardo disposto a tutto, che non ricordavo avesse mai avuto. Ma mi ha riconosciuto. Mi ha stretto con tutta la forza che aveva pur di arginare la voglia di aggredire. E se ne è andato. Sono ragazzi che cadono dentro a un giro perché è lì dinanzi e offre loro un’identità e un mondo. E se ci cadi, il giro è il giro. Cambi i tuoi modi. E prendi i ritmi, pronunci le parole, segui le regole e sei spinto ai comportamenti, alle reazioni, alle pattuizioni e agli impegni di quel giro. Ne fai parte. Ma moltissimi nel giro non cadono. Con un eroismo silente e non riconosciuto. I giornalisti amano narrare le perdite. Più raramente le piccole, difficili conquiste di chi resiste. E’ una via d’uscita fatta di cose normali: uno zio che ti prende a bottega, la fidanzata che ti contiene, una fabbrichetta o un bar al nero, un imbarco su una nave container trovato tramite amicizie, un impiego precario in una ditta di pulizie ottenuto dopo una campagna elettorale al servizio di tizio o caio, dei compagni da raggiungere a Verona o Reggio Emilia o Torino, tutti in una casa, tutti a co.co.co., finché dura, finché non vuoi tornare dalla ragazza, da mamma, ai tuoi luoghi; poi un nuovo lavoro in un ristorante, una stagione a Riccione o a Sorrento, un giro di prodotti per la casa da vendere porta a porta, le scale da lavare nei palazzi, il parcheggio abusivo.
Sì, è un eroismo incerto e non sempre lecito. Ma produttore di beni e servizi e non criminale. Che salva. La politica ne dovrebbe fare il centro delle sue attenzioni. E sostenerne lo sviluppo legale, l’intreccio con nuove opportunità formative, le implicite potenzialità di impresa sana. Con la repressione vera del malaffare. E la contestuale promozione di un esercito competente di agenti di sviluppo locale e civile. E, parrà strano: è un esercito che già c’è e che è in campo. Ma che è fiaccato. Basti pensare ai tanti lacci e impedimenti per supportare i nidi di mamme nei Quartieri o per dare un po’ di continuità ai percorsi formativi per adolescenti o sedi degne di questo nome a chi lì si danna ogni giorno o gli stipendi certi agli operatori. Le politiche non possono essere a misura dei ritmi e degli equilibri di palazzo o dei tempi degli uffici ma al ritmo di vita reale delle persone. Che, spesso giovanissime, conducono una vita dura e onesta mentre gli si spara attorno la domenica mattina.
2 commenti:
Caro Marco, hai presente la lotta tra Davide e Golia????Noi stiamo messi molto peggio!!!!!!!!!
Ormai non ci sono più speranze....
Fuimm, qui non si può più fare nulla
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