20 febbraio, 2010

Vita dei campani. Sotto silenzio


In attesa di capire se davvero ci si può vedere da qualche parte – tra persone che ne hanno voglia - per parlare di cose possibili per migliorare la vita in Campania, vi prego di leggere cosa pensano i medici delle condizioni in cui viviamo. Ché riguarda proprio la nostra vita. Strictu sensu.

Di questo, delle fogne e delle discariche, dell’aspettativa di vita tra le più basse d’Italia e ancor più bassa tra il crescente numero dei poveri e di altre simili amenità – argomenti sconosciuti al circo politico – si può parlare?

09 febbraio, 2010

Incontrarsi da cittadini, almeno una volta

Purtroppo non riescono ad emergere, al momento, elementi di speranza intorno all’avvio della stagione elettorale campana. E’ certamente importante capire quali saranno gli uomini e gli schieramenti. Ma poi ci sono le priorità della vita sociale e civile. E queste sono già relegate in un limbo, altrove dal contendere politico. Così, purtroppo, “nun c’è bisogn’ a zinghera pe’ divinà” e tutto pare già andare nella direzione consueta…

Tra un po' inizierà la ridda dei mostri per un posto in una delle troppe liste, messe su per salvare la pancia e il sottopancia del ceto politico campano; mentre quelli che davvero hanno possibilità di entrare in consiglio regionale avvieranno le pratiche delle promesse, che poi dovranno saldare. Non è qualunquismo il mio. Sono amare constatazioni.
Perché, invece, sarebbe di vitale importanza poter ricominciare a credere nei processi democratici e anche nella possibilità di ridare senso alla rappresentanza. Ma – perché ciò possa avvenire – sarebbe semplicemente normale che le questioni della vita economica e sociale, dell'educazione e del funzionamento della macchina regionale, il nodo del mancato sviluppo e della crescente povertà, non siano cose relegate alle retoriche ma il centro del confronto.
E va pur ricordato – a noi stessi – che questo modo di decidere su chi ci governerà non ha luogo in un mondo che resta fermo. L'Italia è già candidata a restare ai margini delle nuove mappe che, a livello planetario, stanno emergendo da questi anni di impetuosa ridefinizione dello sviluppo, dei mercati, delle conoscenze e del potere. E la Campania - se resta governata con questi metodi e senza neanche la capacità di analizzare la propria reale situazione - è destinata a rendere stabile la sua condizione di periferia della periferia, il fanale di coda della parte debole dell'Italia drammaticamente divisa in due, una terra - ancora una volta - di saccheggio, speculazione senza sviluppo, sciatteria amministrativa, radicamento criminale, disoccupazione e povertà di massa, immigrazione miserabile e emigrazione che riprende, declino culturale.

Ma la gente seria che sa e sa fare e che non ha debiti da pagare con la politica né poltrone da difendere – e ce ne è - quale posizione o proponimento può assumere in questa campagna elettorale? Deve per forza ritirarsi? O deve per forza schierarsi entro questo gioco, così com’è?
E’, forse, ancora possibile almeno dare un segnale di testimonianza. Per esempio: chiamare a raccolta – un sabato mattina - chi intende analizzare “la condizione campana” e raccontare quel che, realisticamente, sarebbe bene o possibile fare e proporre. Con il contributo dei dati e degli argomenti seri e soppesati. Con al centro una domanda: cosa servirebbe oggi alla Campania, cosa servirebbe davvero?
Possiamo provare a proporre almeno un incontro che non serva al candidato ma ai cittadini? In una facoltà universitaria, in un bar, in una sala di municipalità, in una galleria d’arte, in una chiesa sconsacrata? Al centro o a Bagnoli o a Scampia? Insomma: un pubblico dire in un pubblico spazio. Che serva a mostrare l'agenda politica vera, quella che sarebbe urgente e che dovrebbe essere? A cui chiamare un giornalista interessato alla vita e non solo ai soliti inciuci. Magari non di Napoli. Magari una firma. E un’autorità della vita culturale nazionale: uno scrittore, un direttore d’orchestra, uno storico autorevole e pacato…
C’è chi vuol almeno provare a farlo?

La foto è dalla locandina di Concerto, dove si parla di politica, desideri e canagliate.

04 febbraio, 2010

Quale politica ci riguarda?

La vicenda della designazione del candidato contro la destra per le regionali della Campania riguarda molti nudi fatti propri della “sfera separata della politica”. Il fatto che il lungo regno bassoliniano viene colpito a morte e che il colpo che gli viene inferto da Vincenzo De Luca, il quale ha sempre condiviso i medesimi metodi, più "bravo” stavolta nel medesimo gioco. Il fatto che vincitore e sconfitto, fino a prova contraria, hanno sempre considerato la politica come “n’ata cosa”, separata dalla vita e dalla società e riservata agli iniziati e non ai cittadini. Il fatto che questo scacco subito dal vecchio regnante sta suscitando i furibondi e anche patetici colpi di coda da parte di Bassolino e di gran parte del suo notabilato. Il fatto che un’altra parte dello stesso notabilato subito corre sul carro del vincitore, nella migliore tradizione del trasformismo italico e meridionale. E così via. Di tutto ciò racconta, con vera sapienza descrittiva, d.l., che invito a leggere con cura.
Ma per chi vuole una effettiva rinascita della politica, resta il fatto che, nel deserto angosciante lasciatoci dal bassolinismo, bisogna trovare il modo di dare voce e affrontare le questioni vere della vita in Campania. E’ con questo pensiero in testa che ho scritto l’articolo che segue, pubblicato oggi su Repubblica – Napoli.

Così, dopo settimane di attesa per capire chi avrebbe sfidato il candidato del centrodestra Stefano Caldoro per il posto di governatore della Campania, nessuno – tranne il sindaco di Salerno, Vincenzo De Luca – si è presentato alle primarie del Partito democratico. Hanno voglia a lamentarsi i lamentosi. Da che mondo è mondo, quando una squadra non si presenta in campo entro l´ora stabilita, pattuita di comune accordo, perde a tavolino.
Ma la lamentela della squadra che non si è presentata in campo, capeggiata, in questo caso, dal governatore uscente Antonio Bassolino, nel lamentarsi, ha parlato di altri candidati, potenziali, «più unitari». Che, però, o non si sono fatti avanti o si sono ritirati. E, sempre nell'argomentare il proprio lamento, questa squadra ha adombrato che c'è stata un´altra storia da quella che si è vista alla luce del giorno, che c´erano altri giochi in gioco, propri della politica, che è “n'ata cosa”.
Ma i giochi della “politica che è n'ata cosa” vivono, appunto, in altri luoghi, fuori dal cono di luce della vita civile pubblica. E perciò sono giochi che si vincono o si perdono nell´ombra. Inutile, dunque, lamentarsene in pubblico. Può andare bene o può andare male. Molte volte è andata bene a Bassolino, che – va detto senza ironia – è stato un vero maestro della politica come “altra cosa”. Questa volta no.
Così, in questi giorni, accadono le cose che accadono quando perde chi ha sempre vinto, quando si vede la fine di un regno. Così, c´è chi fa notare che “chi di spada ferisce di spada perisce”.
Ci sono i damerini e le damigelle, spesso attempati, che furono vestiti e portati a corte dal vecchio re, che fuggono verso i nuovi lidi e, nel correre via in fretta, cantano a squarciagola le nuove canzoni. Ci sono i perdenti fedeli che fanno a gara a dir male del nuovo arrivato. Tutto già visto, risaputo.
Ma al cittadino che vuole che la cosa pubblica funzioni e che migliori la sua vita – a maggior ragione in un posto d´Europa dove la vita è troppo difficile per troppe persone – resta la domanda: ma la politica deve essere e restare per forza “n'ata cosa”?
In Campania questa è una domanda cruciale. Perché la litania sulla politica come cosa diversa da quello che appare ha accompagnato il “laboratorio campano” per quasi vent'anni. Ed è stata una brutta litania. Perché ha sparso, come il sale su Cartagine, due brutte convinzioni sulla nostra vita civile, togliendoci speranza, voglia di fare parte delle decisioni, capacità di ragionare sul futuro e sulle cose da fare.
La prima: che la politica è separata dalla vita, dalle condizioni e dalle aspirazioni quotidiane delle persone. La seconda: che è appannaggio solo degli “iniziati” e non di tutti i cittadini, i quali non hanno accesso ai luoghi dove si tesse veramente la tela delle decisioni.
Perciò: non basta la fine di un regno. Che pochi rimpiangeranno. C´è da arare un deserto, ricostruire un´idea possibile di politica. Che non può più essere “n´ata cosa”.
A maggior ragione in una regione in cui la povertà riguarda un terzo dei cittadini. In cui 4 ragazzi su 10 non finiscono la scuola e i giovani, ricchi o poveri, scappano via nella misura di 6 ogni mille l´anno. In cui è avvenuta una massiccia de-industrializzazione vent´anni fa e il Pil e il mercato del lavoro sono fermi da allora, senza che vi sia stata una credibile proposta di sviluppo locale. In cui sia stranieri che campani sono sfruttati e va fermata la guerra tra poveri. In cui c´è una potenzialità di innovazione in ogni campo: energia pulita, nuove produzioni, diffusione di saperi, fruizione sostenibile dei territori.
La politica non può più essere una vicenda separata. C´è da riparare le ferite e suscitare speranza. È una cosa che non riguarda uno solo né un ceto staccato e distinto, tenuto assieme sulla base della fedeltà, come è stato nella lunga storia del notabilato meridionale. Riguarda migliaia di cittadini. È questa la sfida.

25 gennaio, 2010

Proposte povere. Per i figli dei poveri

Ho scritto ieri queste cose per l'Unità, non so quando le pubblicherà. Intanto le metto qui.

La destra italiana mostra – in campo educativo – una grande competenza nel proporre soluzioni apparentemente chiare a problemi che si trascinano. Ma ogni volta le propone al ribasso. Povere. E soprattutto tali da consolidare, sempre in peggio, lo stato delle cose. Che, però, intanto, lungo i decenni, andavano sfilacciandosi. Mentre noi guardavamo altrove. Tanto che, forse va finalmente detto che vi è un nesso terribile tra la rimozione prolungata dei problemi educativi del Paese di cui molta parte della sinistra è stata co-responsabile e la mannaia semplificatoria della destra. Un esempio? Il tema del presidio del limite a scuola. Da decenni era del tutto evidente che crescevano comportamenti inaccettabili. Come mantenere le regole, come proporre una scuola sì accogliente ma anche capace di sanzionare quel che non va? Alcuni di noi da molti anni facevano proposte. Invece di mettere note sul registro perché non inventiamo dei cartellini gialli, delle ammonizioni? Con momentanea separazione. Come si fa coi giocatori di hockey. E accompagnate da azioni riparative: pulire, aggiustare oggetti. Simbolicamente forti. Coinvolgendo su ciò le famiglie insieme ai ragazzi, grazie a un patto sottoscritto. Ma spesso – oh quanto spesso – ci si è fatto notare che quella era una deriva autoritaria, che è l’accoglienza quella che conta. Quando è da sempre evidente che accoglienza e regola sono l’una funzione dell’altra. Passano gli anni. La situazione ristagna e peggiora. E arriva una proposta finta ma leggibile: il 5 in condotta di questo governo. Che non ha una dimensione educativa e non risolve certo la questione del come si fa a cambiare i comportamenti distruttivi di Antonio o Lina. Ma, appunto, sembra chiara a una vasta opinione pubblica. E poi è semplice. Non ci fa pensare.Beh, è accaduto di nuovo. Con la proposta di ridurre l’obbligo di andare a scuola e trasferirlo nell’apprendistato. A quindici anni. Proposta che, naturalmente, è rivolta alla fascia più debole della popolazione, quella che non riesce a stare a scuola. E che corrisponde esattamente ai figli dei più poveri. Come dimostrano tutti i dati: Ocse, Istat, Commissione povertà, studi Isfol. E anche seri studi della Banca d’Italia e della Confindustria. Chi le frequenta queste cose, le sa.
I quindicenni più esclusi. Ragazzini che vivono nelle periferie delle città del Nord. E, in numero maggiore, nel Mezzogiorno. Dove gli adolescenti sono abbandonati a se stessi… se non peggio.
E’ evidente che, al Nord, i ragazzini caduti già fuori dall’obbligo – perché si assentano, perché vengono bocciati – andranno prima a lavorare. E che si moltiplicheranno due situazioni. La prima è che entrano nel lavoro vivo – nelle fabbriche, in agricoltura, nell’edilizia - ragazzini che fan fatica a reggere emotivamente. I quindicenni di oggi non reggono la richiesta dura di ritmi, affidabilità, procedure, gerarchie. La seconda è che, se, invece, reggono, non si muovono più da lì, con quelle limitate mansioni e un salario misero. E a trentanni, poi, non riescono a riqualificarsi. E riproducono povertà per sé e i propri figli. Perché i minimi del sapere di cittadinanza non sono stati consolidati. Perché pure per usare i materiali per montare pezzi o verniciare bisogna sapere un pò di inglese. Perché il computer è ovunque ormai, tranne che nella soglia più bassa di tutte. Perché non è vero che le aziende costruiscono formazione per questa fascia di lavoratori. E perché il famoso life long learning è una chimera in questo Paese. Quali agenzie, pubbliche o private, in Italia, prendono uno che fa il manovale a ventisette anni e lo fa da oltre dieci, gli fanno un bilancio di competenza, gli propongono di riqualificarsi e magari – come, invece, avviene altrove in Europa – gli diminuiscono l’orario mantenendo il salario e gli pagano ore per ri-imparare?E al Sud – dove non funziona né la formazione professionale né l’apprendistato legale? Nella migliore delle ipotesi il quindicenne riceverà il viatico legale per fare quello che già fa. Cioè lavorare al nero – 80 euro a settimana – nelle fabbrichette con pochissimo know how, vendere per le case, pulire scale, fare solo gli sciampo presso i parrucchieri, smontare gomme o pezzi delle macchine senza saperli poi riparare, portare caffè per gli uffici senza neanche imparare a farli. Per non parlare del portare droga in giro, fare il palo, imparare a sparare…
Ma vogliamo dirla tutta? Queste fasce precocemente diseredate – sono ben più dei 126 mila – che, caduti fuori dalla scuola, ora sono candidati a queste prospettive, non li si è visti annaspare a scuola da decenni? Non avevano bisogno di tempo dedicato speciale e aggiuntivo, uno a uno, che superasse questa folle idea dell’uguaglianza, che non sa guardare in faccia la verità delle vite diverse? E le famiglie non potevano avere un premio in denaro se li sostenevano negli studi? Ecco: le proposte operative sulla dispersione scolastica alcuni di noi le facciamo da anni e anni. Ma si trattava di dare cose diverse a persone diverse, come predicava don Milani. E, invece, magari nel nome di don Milani, tanta parte della sinistra ha difeso la scuola com’è, lineare e uniforme, standardizzata. Che non riusciva, però, a conquistare e proteggere proprio chi ne aveva bisogno.
“Marco, perché fai venire a scuola prima e dai la colazione calda a quelli che non ci vogliono venire. Perché dai una paghetta di due euro simbolici al giorno a questi inadempienti all’obbligo? Bisogna dare le cose uguali a tutti”. Così arriva Sacconi: le cose stanno come stanno, è meglio mandarli a lavorare e dirlo chiaro. Semplice, senza pensarci troppo su.
Così. Now I have a very little dream. Ora ho un piccolissimo sogno. Mi piacerebbe parlare di quel che faremmo noi. Roba pratica. Operativa. E non a quanto sono cattivi loro. Non è forse sul merito delle cose che dovrebbe fondarsi l’alternativa di cui si parla? Proporre cose concrete, comprensibili ai cittadini. Che magari qualcuno di noi ha pure provato. Al Paese e magari a qualcuno tra gli avversari. Perché no? In alternativa, appunto, a quel che dice e fa questa destra. Ma temo che, in questo come in altri campi, il mio piccolo sogno rimarrà tale. E più facile parlare di “politica “ – si fa per dire - che di cose da fare per il bene comune.

Le immagini sono tratte dalle scene finali di "A scuola" di Leonardo di Costanzo.

17 gennaio, 2010

Atto d’ufficio

Poiché Aurelio Musi qualche giorno fa, su Repubblica Napoli, aveva parlato del valore politico di una discesa nell’agone elettorale, con finalità civiche, in un contesto, quello campano, che egli definisce post-democratico, ho ritenuto un semplce atto d’ufficio ricordare oggi, sempre su Repubblica Napoli, alcune cose dell’esperienza fatta proprio in tale direzione quattro anni fa.

Ecco qui:
Tornando dall´estero leggo la bella riflessione di Aurelio Musi su Repubblica Napoli dell´8 gennaio. «Mettiamo che un volenteroso cittadino decidesse…». Che dire? Il sottoscritto la sua pazzia la fece. Insieme a molti altri amici. Un ottimo programma. Costruito in modo davvero partecipato. Invito a rileggerlo col senno di poi. Ottimo nel suo slancio di speranza e anche nel suo realismo. Candidature di persone competenti e oneste. Che però portavano solo voti liberi. Cosa successe? Mille errori miei e nostri, certo. Peraltro parte della partita che scegliemmo: fare, appunto, politica con senso davvero civico. E pubblicamente analizzati. Ma davvero veniali, oggi lo si può dire. Poi c´è da dire, oggi, con sobrietà… che tra le elezioni politiche che anticiparono di un mese quelle comunali e le comunali stesse la coalizione di centrosinistra aumentò di molto la sua percentuale. Effetto nazionale? Forse. Ma è anche vero che la lista Mastella, in soli 34 giorni, avendo promesso l´indulto, passò da meno del 4 al quasi il 10 per cento in città. E favorì la vittoria della Iervolino al primo turno.
Non ho rimpianti. Ho molti difetti ma sono persona alquanto temperata e restia ai risentimenti. Penso di avere dato un piccolo segnale, serio. Contro la post-democrazia, appunto. Presi ventimila voti. Bei voti. Tra cui anche 4000 disgiunti con voto a me e a lista di centrodestra. Voti di gente libera. In una città blindata in senso post-democratico. Cittadini che non si fecero terrorizzare dalla chiamata alle armi, che fece rientrare nei ranghi, con vari metodi, i 4/5 della “società civile”. Di tali “rientri” mi sono ripromesso di raccontare taluni gustosi episodi… ma dopo il mio ottantesimo compleanno, se campo. In quei giorni, centinaia di persone schierate a sostegno della post-democrazia, dalla compagine di Mastella a Rifondazione, venivano istruite per dire in giro che io favorivo la destra. Faceva parte del gioco. Lo faceva un po´ meno che si aggiungeva che ero pagato dai padroni. Mia moglie ne ride ancora: «Magari», dice scherzando. Ho estinto sei mesi fa il mio debito personale di 7 mila euro. Vivo dello stipendio di insegnante e gli sfizi si pagano. E, in tutto, abbiamo speso – come lista civica “Decidiamo insieme” – 105 mila euro, tutti raccolti da centinaia di piccoli contributi, tutti rendicontati puntualmente a norma di legge.
Voti cercati uno a uno, confrontandosi con tutti a viso aperto, con lealtà e sulle cose da fare. Un volume, una rassegna stampa e i filmati lo testimoniano. Voti che erano chiesti sulla base della logica democratica del doppio turno, che rifiutava l´inciucio a monte della prova elettorale e insisteva sulla proposta di confronto di merito. Ingenuo? Forse. Ma, lo assicuro, consapevolmente. L´educazione alla democrazia ha bisogno di slanci autentici. È stato un sano e consapevole rischio, appunto. E sono contento di averlo fatto. Perché ci siamo divertiti. E perché abbiamo proposto un esercizio civile che è ancora all´ordine del giorno. E per questo ringrazio Aurelio Musi per la sua riflessione. E le persone, anche chi non mi ha votato, sanno, in fondo, il perché di quella lucida follia. Mi fermano per strada. Mi sorridono. E almeno cento cittadini mi hanno fermato solo per dirmi che avevano sospettato che ne avrei tratto qualche vantaggio e che riconoscevano che così non è stato. Possiamo finalmente dirlo? L´abbiamo fatto proprio «un po´ fuori moda, con l´idea di impegno etico-civile, liberato da qualsiasi condizionamento di interesse o di carriera personale…».
E dopo? Al netto di un certo numero, fastidioso, di prevedibili cattive azioni subite da me e altri della lista solo per avere osato la lesa maestà, abbiamo fatto, con soddisfazione, quel che fanno i cittadini onesti che si presentano e perdono le elezioni. Nessuna cooptazione offerta è stata accettata e siamo ritornati al nostro lavoro, continuando a commentare le vicende della città, da cittadini.

14 gennaio, 2010

La morte di Yussuf serva almeno a dire a noi stessi come stanno le cose

Yussuf Errahali, marocchino di 37 anni, è stato trovato morto a Napoli martedì mattina, il 12 gennaio, secondo testimoni un gruppo di persone lo ha buttato nell'acqua di una fontana.

Ecco l’intervista che ho rilasciato a Gimmo Cuomo, Corriere del Mezzogiorno del 14 gennaio, col titolo “Rossi Doria: Napoli ha perso i giovani migliori, ormai è intollerante come le altre città italiane”

Pur rattristato, indignato, il maestro di strada Marco Rossi Doria, ora a Trento per guidare il progetto «Campus» che promuove l’integrazione educativa dei ragazzi italiani e stranieri nella formazione professionale in quell’estremo lembo dell’Italia del Nord, prende atto con realismo di quella che gli appare come una realtà ineluttabile. La gravissima violenza subita nella sua città d’origine da Yussuf Errahali, vittima, se le indagini confermeranno le denunce, di un’atto di intolleranza, di xenofobia, di straordinaria gravità, rappresenterebbe quasi l’esito inevitabile «di una scommessa persa, di una promessa non mantenuta».
A quale promessa si riferisce, professore?

«Parlo della mancata costruzione nella città di una speranza collettiva, che avrebbe dovuto coinvolgere e rendere protagonisti i giovani. Per esser ancora più preciso, chiarisco che mi riferisco al fallimento della cosiddetta città dei bambini. Se le prime testimonianze sulla morte dell’immigrato marocchino trovassero conferma, direi che i protagonisti di quel crimine sono proprio i bambini destinatari di quella promessa, delle promessa della città dei bambini, che ha suscitato una grandissima speranza. Ma che poi, dall’inizio degli anni Novanta ad oggi è stata radicalmente smentita dai fatti, anzi dai fatti mancati».

E evidente che si riferisce a uno dei principali impegni elettorali di Antonio Bassolino, prima sindaco di Napoli e poi governatore della Campania. Quali sarebbero state le omissioni su questo fronte?

«Non ci sono politiche pubbliche, né di solidarietà tra pubblico e privati a sostegno dell’infanzia. Le poche iniziative in atto sono fortemente burocratizzate, lente e non sostenute sotto i profili economico e amministrativo. Non è mai stata costituita una camera di regia tra gli enti locali nonostante le migliaia di appelli in tal senso, un esercito di bravi operatori sociali, formatisi negli anni Novanta, è stato abbandonato al suo destino».

E il risultato?

«È che Napoli è diventata tale e quale al resto d’Italia. Si sono ormai persi il rispetto e la cognizione del limite. Ogni aspetto comunitario che, lungo i secoli, aveva caratterizzato la nostra città, sta rapidamente evaporando».

Prima che città c’era?

«Prima c’era una città dove insieme a tre persone propense ad attaccare briga, a tre teste calde per capirci, c’erano cinque che preferivano evitare, levare l’occasione come si dice volgarmente. Di fronte alla tentazione di infastidire quel poveretto ci sarebbe stato chi avrebbe detto di lasciarlo perdere».

Vuol dire che ora il rapporto tra, tanto per semplificare, buoni e cattivi si è invertito?

«No, peggio. I giovani migliori del centro come della periferia sono emigrati. Sono andati a lavorare a Verona, Reggio Emilia, Parma».

Non immagina alcuna possibilità di inversione di rotta?

«Occorrerebbe una grande politica di cui non si vede l’ombra, nemmeno all’orizzonte. Basta guardare al dibattito sulle prossime regionali e sulle primarie se mai si terranno: si parla di schieramenti, di alleanze, di nomi; mai dei problemi e delle possibili soluzioni per il bene della città e della regione. Ne vedremo delle belle, a ripetizione. In Campania abbiamo la nostra potenziale Rosarno nella valle del Sele. Nel Casertano potrebbe scoppiare un riot interetnico così come nelle nostre grandi periferie urbane. I giovani sono senza istruzione e senza lavoro, il controllo delle droghe non c’è. E chi si oppone a tutto questo?»

Appunto, chi si oppone?

«Le associazioni del privato sociale tengono il carro per la discesa, spesso senza essere pagate per mesi. Le scuole pubbliche fanno quel che possono e le parrocchie pure. In sintesi, la verità nuda e cruda è una sola: un dibattito pubblico sullo stato sociale nella città di Napoli e in Campania non trova spazio. Né a destra, né a sinistra».

Non è una visione troppo disperante la sua?

«Sarà anche disperante. Ma la realtà è proprio questa».

22 dicembre, 2009

White Christmas


Qualche settimana fa i deliranti capi leghisti istigavano ancora una volta, pericolosamente, all'odio razzista. Lo facevano contro tutti, arcivescovo di Milano compreso. Con una furia di chi si sente l'ago della bilancia della compagine di governo e può urlare tutto. E, scimmiottando antichi slogan del Ku Klux Klan degli anni trenta e quaranta del secolo scorso auspicavano per la padania un White Christmas, un Natale fatto solo per i bianchi, con tutti gli stranieri fuori.
White Christmas è una famosa canzone degli stessi anni dello slogan del Klan, cantata da Bing Crosby - il disco più venduto del secolo scorso - e le sue parole sono una struggente esaltazione della neve a Natale, che ricorda quella del paesello da bambino a chi ora è nella grande città: bianco natale in senso proprio, nulla di razzista.
Il gioco di parole ignobile dei leghisti, che capovolgeva in odio una canzone d'amore, deve, però, avere risvegliato, il Signore degli eserciti. Il quale - forte di poteri superiori - ha fatto cadere sulla padania un vero bianco Natale, Fatto di neve e di ghiaccio. Che ha bloccato tutto.
Così mentre attraversavo la bianca, di neve, padania sul treno regionale con ore di ritardo ho visto la bimba cinese che giocava con la nonna italiana di un'altra bimba, il ragazzo del Senegal che aiutava l'anziano signore a mettere a posto i bagagli, la giovane donna col capo coperto che si alzava per fare sedere l'uomo anziano che lo ringraziava, si sedeva e poi leggeva poi la Padania e lo studente orientale che giocava a scacchi con il collega italiano.
Il mondo è fortunatamente più sorprendente e ricco dei fanatismi.
Buon Natale.

18 dicembre, 2009

Bruttopaese


Sono sgomento per l’ulteriore attacco alle libertà… liberali. C’è da alzare la guardia a difesa della libera rete in libero stato. Consiglio di seguire il dibattito e di leggere Zambardino.

Segnalo poi l’uscita ufficiale del rapporto 2008-2009 della commissione povertà o commissione indagine sull’esclusione sociale (CIES) – della quale faccio parte. E’ lunga ma esorto davvero a leggerne almeno il riassunto iniziale, la relazione di sintesi. Insisto: è quasi un dovere civico farlo. Per capire come vengono colpiti sempre i più poveri, che lavorino a no, i giovani, il Mezzogiorno. E i bambini. Questo è un Paese dove cresce l’ingiustizia sociale e nessuno ci bada – o, meglio detto, badano a altro. E non si tratta di extracomunitari ma di italiani nati in Italia. Però poveri. In aumento e senza ombra di politiche pubbliche.

Il clima politico è mefitico. Ma la sua base sta nell’impossibilità di una decency in termini di coesione sociale che, a sua volta è dovuta al carattere macroscopico del duplice divario: tra ricchi e poveri e tra Nord e Sud. Il sintomo è la titanica lotta tra S.B. e i suoi avversari, come la punta di un iceberg si vede quella cosa lì. Ma la base, quel che sta sotto e minaccia è la divisione sostanziale e reale dell’Italia.

E’ l’impossibilità di duratura coesione sociale la questione vera, di fondo del Paese. Ma (sic!) il puntuale rapporto annuale viene ripreso oggi solo dall’Avvenire, quotidiano della conferenza episcopale. Tace la libera stampa, muto è il sindacato, tacciono, nell’ordine, Bersani, Di Pietro e pure “li comunisti”…

15 dicembre, 2009

Carla Melazzini

E’ morta ieri Carla Melazzini. Ho avuto la fortuna grande di aver lavorato con lei dal 1997 al 2007. Ho sempre imparato dalle sue parole e dai suoi silenzi.
In pochi giorni sono morte due donne, Monica e Carla, che ci hanno insegnato a vivere. E a considerare la morte parte del vivere, riuscendo quasi a darci forza per la loro fine.
Il Padrone dell’Universo le benedica.
Invito a leggere questo bellissimo ricordo di Carla, scritto dal suo compagno di sempre, Cesare Moreno. E la scrittura qui sotto, sulla nostra comune avventura a Chance.
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QUEI NOSTRI RAGAZZI
Di Carla Melazzini.
Da UNA CITTÀ n. 104 / Maggio 2002

La dura esperienza di Chance, maestri di strada napoletani, in quartieri che sono vere e proprie sabbie mobili che in ogni momento possono inghiottire il ragazzo che tenta di studiare e avere un’alternativa. Ci sono possibilità?

Pasqua 2002: a San Giovanni a Teduccio viene ucciso il diciannovenne Filippo. E’ fratello di un’alunna di Chance, parente di altre due, amico di altri.
All’origine della scrittura del progetto ci fu anche l’uccisione di un ragazzo nel parcheggio del supermercato davanti a scuola. I giornalisti chiesero come mai il quattordicenne stesse nel parcheggio e non a scuola (i bene informati dissero che il ragazzo non era solo una vittima trasversale, ma già omicida a sua volta).
L’estate scorsa, in una delle innumerevoli risse con le quali i ragazzi di San Giovanni e di Barra si sforzano di imitare la guerra degli adulti dei due quartieri è finito ammazzato il sedicenne Cesare, che passò per la selezione di Chance e fu scartato per dichiarata indisponibilità a imbarcarsi nell’avventura. Per dei ragazzi non è difficile morire, in questi paraggi. Da quattro anni viviamo in questo mondo, accogliendolo senza giudicarlo, quasi senza parlarne. Adesso, dice un’insegnante, “abbiamo il morto in casa”: per cui si sente il bisogno di dire qualcosa.

Rituali di lutto
Lo Stato ha deciso che il morto di camorra non deve avere il funerale in chiesa, come il suicida. Nel rione di Filippo viene organizzata una fiaccolata per chiedere l’ingresso in chiesa; il parroco strappa lo striscione e lo butta nella monnezza.
Neanche fare i preti è facile da queste parti: è una scelta continua tra essere conniventi o impietosi.
In queste circostanze l’organizzazione pubblica del lutto vuole essere anche un’esibizione di forza: in altri rioni furono devastate le bancarelle che si erano presentate sotto il palazzo del boss defunto, per il mercato consueto, o bastonata la signora che aveva osato accendere la radio. Il prete della parrocchia vicina quando c’è il coprifuoco da lutto accende sulla chiesa un faro che illumina a giorno la piazza.
Le nostre ragazze dicono che la fiaccolata era anche sincera: Filippo era “nu buono guaglione”. E’ stato portato direttamente dall’obitorio al cimitero.

Morte e vita
Quattro anni fa constatammo costernati che i nostri ragazzi e ragazze, uscendo insieme da scuola come fanno gli adolescenti, si dirigevano al cimitero.
La frequentazione con le anime defunte è connaturata all’arcaica religiosità popolare napoletana, così come le fantasie sulla morte sono compagne di strada di ogni adolescente, ma qui c’era molto di più: l’intimità con la morte concreta ha marchiato la vita di questi ragazzi, ed è architettonicamente incarnata nelle palazzine funebri che ospitano un’intera generazione di maschi giovani morti di morte violenta.
I rimanenti stanno in quel luogo dei morti viventi che è il carcere. Così che “‘o colloquio” è il centro focale della vita di centinaia di famiglie.
Questa esperienza può produrre un’invincibile paura della vita, di cui la paura e il rifiuto della scuola è solo una modesta appendice.
Tre ragazze cugine tra loro, che non siamo riusciti in nessun modo a trattenere con noi, hanno trovato una via d’uscita nella gravidanza. Trucco vistoso e atteggiamenti sguaiati potrebbero trarre in inganno circa la natura di queste gravidanze, se non fosse così facile scoprire sotto quelle facciate variopinte le bambine terrorizzate, e nelle madri altrettanto dipinte la stessa paura delle figlie. Non è strano che in famiglie decimate traumaticamente della componente maschile le donne -bambine quasi ancora- si aggrappino alla loro facoltà generatrice di vita.
In secondo luogo, la gravidanza precoce rappresenta il modo più definitivo di rientrare nei ranghi del proprio destino sociale, tagliandosi i ponti alle spalle. Solo lentamente ci siamo resi conto di quanto la nostra presenza e la nostra azione, proprio perché accogliente, potesse essere percepita come pericolosa, aprendo prospettive di relazioni e di vita sentite come inaccessibili.
E’ difficile figurarsi fino a quale profondità questi esseri umani si sentano dei reietti.

Burqa, morsi
Infine, la gravidanza precoce serve a sanzionare il controllo del maschio sulla femmina. Niente temiamo di più, per le nostre ragazze, del “fidanzamento in casa”: atto ufficiale con il quale la famiglia si solleva del problema di un’adolescente turbolenta dandola in consegna a un ragazzotto qualunque e alla di lui madre (la “gnora”). Da quel momento lui decide se la ragazza debba o meno partecipare alle gite con i compagni, scendere nella strada da sola, continuare ad andare a scuola. O rimanere incinta.
A Chance si impara una cosa nuova al giorno. Una che avremmo preferito non apprendere è che il fidanzato può mandare in giro la ragazza con la faccia piena di morsi, così da sottrarla allo sguardo degli altri maschi, sfigurata dal marchio del possesso. Se ci si guarda attorno con un po’ di attenzione, si può scoprire che la civiltà di cui andiamo fieri spesso finisce dietro l’angolo di casa.

Sabbie mobili
Dei 63 ragazzi passati per Chance nei primi tre anni, l’85% proviene da famiglie prive di reddito regolare (dei rimanenti non si hanno notizie precise). Più del 50% ha a che fare con il carcere; un gruppo ristretto (sotto la decina) “appartiene”, come si dice, cioè è interno a famiglie del Sistema camorristico (i dati sono riferiti alla zona orientale di Napoli).
Sono concentrati in rioni che sono un vero e proprio brodo di coltura. I due Bronx di San Giovanni e le “case gialle” di Barra sono frutto dei miliardi dilapidati dopo il terremoto dell’80 e di una dissennatezza urbanistica che non avrebbe potuto fare di meglio se si fosse posta come obiettivo dichiarato di fornire manodopera semigratuita e logisticamente controllabile al Sistema.
Le famiglie dei nostri ragazzi -come migliaia di altre- sopravvivono nel cerchio più ampio ed esterno di tale sistema, né avrebbero altre possibilità: piccoli spacciatori e contrabbandieri, trasportatori di pacchi, prestatori di opere varie (e di persone, compresi i mariti “venduti” alle donne dell’est per regolarizzarne il soggiorno). Nella maggior parte non usufruiscono nemmeno delle provvidenze garantite dal Sistema, sicché in caso di carcerazione sono abbandonati a se stessi, e agli avvocati d’ufficio.
Qui non esiste distinzione tra lavoro regolare e irregolare o illegale; la discriminante passa tra “chilli ‘e miez ‘a via”, cioè i quadri militanti del Sistema, e tutti gli altri. Il padre di un’alunna, agli arresti domiciliari, mi dichiarava scandalizzato che lui stava facendo un lavoro onesto, le bombole (di gas, di contrabbando).
La percezione di un lavoro regolato da leggi è assente, e difficilissima da introdurre.
Ciò che visibilmente colpisce nella vita di queste famiglie è la destrutturazione del tempo. Si va in visita al termine dell’orario scolastico -mezzogiorno, l’una- e stanno tutti in pigiama, da poco svegli o ancora a letto; pronta, la parte femminile, all’unica attività strutturata, che sono i servizi domestici.
Difficile introdurre la scansione temporale della scuola; nemmeno i periodi di lavoro, nero e servile, cui i ragazzi si sottopongono quando hanno bisogno di soldi per comprarsi i panni o il telefonino, sono sufficienti a dare una svolta: finito il lavoro, si torna al rapporto privilegiato con il letto, dal quale è così difficile staccarsi. Il letto e la televisione, che si può tenere accesa anche tutta la notte, perché la paura del silenzio è la prima forma della Paura. E le lunghe mattinate di sonno, verso un risveglio privo di ogni attrattiva, diventano le incubatrici della depressione.
La proposta di un progetto di vita che comprenda l’idea e la preparazione ad un lavoro regolare è così straniante che può essere accettata solo se ha la forma della presa per mano e dell’accompagnamento da parte di una persona di fiducia. Altrimenti è più accessibile la rottura traumatica dell’emigrazione al nord (quando vi sia come riferimento un gruppo di parenti o di vicini), perché solo cambiando drasticamente contesto si può sventare la tremenda forza di risucchio che il quartiere, come una palude di sabbie mobili, esercita su chiunque tenti di sottrarvisi.
Per il successo di Chance niente è più rischioso delle lunghe vacanze; a volte basta una settimana per perdere un ragazzo.

L’età critica
La fase di massimo pericolo, per un ragazzo, è fra i 13 e i 15 anni, l’età in cui in tutte le classi di tutte le scuole si combatte la lotta sorda per decidere chi è ‘o piccerillo e chi è ‘o gruosso: dappertutto il “piccolino” è colui che segue i professori e studia; soltanto qui il “grosso” si deve misurare con un modello sociale che è insieme odiato, temuto, riverito e ammirato. Sono i responsabili della paura in mezzo alla quale il ragazzo è cresciuto, degli incubi, della pipì a letto, e pertanto i depositari della forza. Si sa che hanno ottime probabilità di morire entro i trent’anni, ma intanto hanno i soldi, le moto (grosse), le auto (grosse), quindi le donne.
Più il ragazzo si sente piccolino, più il fascino del modello è irresistibile. Anche ad un’età inferiore si può rischiare; una delle maniere più subdole passa per l’amore degli animali, cani, ma sopratutto cavalli. Un bambino che gironzola con passione attorno alle stalle del Sistema è un bambino in pericolo.
Un mattino d’inverno passando davanti ai garage del Bronx fui stupefatta da una visione commovente e insieme ripugnante: da uno dei box, che contengono ogni tipo di cose, usciva una cavalla che trepidamente sosteneva il puledro, malfermo sugli zoccoli, tra pozzanghere ghiacciate e rifiuti, come una sorta di Bambi metropolitano. Una simile visione di grazia e tenerezza può ben scortare un bambino semi-abbandonato nel mondo delle corse clandestine.

Pietà l’è morta?
A Barra c’è una famiglia di malati di mente, abbandonata da Dio e dai servizi di salute mentale, che ha già prodotto tre vittime: una commessa polacca, una madre di famiglia, un giovane finanziere. L’omicidio di quest’ultimo diede luogo ad una spedizione punitiva da parte della Guardia di finanza contro l’intero quartiere tanto speculare, nella sua gratuita ferocia, ai rituali di lutto della camorra, quanto priva di conseguenze positive sia nei confronti della criminalità che della famiglia malata. Il cui ultimo esemplare, l’adolescente Bettino, vaga per il quartiere parlando da solo, sfottuto da tutti.
Una domenica di marzo, probabilmente, reagisce tirando una bottiglia in testa ad un ragazzo. Con questo malaugurato gesto catalizza su di sé la frustrazione e la rabbia pullulanti nell’animo della gente, che dà il via ad un tentativo di linciaggio. Vi assiste impotente e angosciato Ciro Naturale. Ecco il suo racconto.

“Verso le 22 di domenica una folla è appostata all’altezza del palazzo dei C.; mi trovo a passare con la vespa e sento che gli animi sono accesi. Dal palazzo di fronte esce un uomo con passo veloce e una mano dentro la giacca, in compagnia di altri due attraversa la strada; molti scappano perché tutto fa pensare ad una spedizione punitiva a domicilio; io rimango perché li conosco, non sono i bravi di don Rodrigo, ma onesti fiorai (Ciro è appassionato ammiratore dei Promessi sposi, nei quali trova la più esatta descrizione del tipo di potere vigente nel suo quartiere). L’uomo entra nella casa dei C., si sente rovesciare mobili e rompere vetri, dopo poco esce senza aver trovato quello che cercava; arriva un fratello che cerca di calmarlo, perché qualcuno gli ha sussurrato che forse è armato. Nel momento in cui si placa, si sente il grido: ‘oì ccà’ (eccolo!). Tutti si girano e vedono Bettino e sua madre che rincasano chiacchierando distrattamente. Volevo urlargli di scappare, ma già gli era arrivata una pietra in faccia da brevissima distanza. Sono dieci, venti, trenta, bloccano il ragazzo e la madre sotto l’impalcatura di un palazzo: in pochi secondi prendono più calci loro che il pallone del Napoli in un’intera partita. Bettino riesce a svincolarsi e a scappare, ma viene riacchiappato. Cinquanta metri più in là c’è una macchina della polizia con la sirena spenta. Gli assalitori aumentano di numero; sono impressionato dalla loro giovane età; ci sono anche alcuni adulti, parenti di don Rodrigo, che li incitano. Per liberarli un po’ dalla presa, urlo che stanno arrivando altre pattuglie; alcuni si fermano e si girano; uno di loro non vedendo le pattuglie mi guarda negli occhi, ma sta zitto perché mi conosce. I poliziotti chiamano rinforzi stando chiusi nella macchina: mi chiedo perché non accendono la sirena e non sparano in aria. Bettino riesce a scappare di nuovo, gli assalitori forse sono stanchi; la polizia può caricare Bettino e portarlo al commissariato per chiamare l’ambulanza. La gente felicemente inferocita grida: ‘amma fatto comm ‘o pallone! quando fanno ‘e guaje ‘e guardie nun correno’, come sentendosi legittimati dall’atteggiamento della polizia. Alla contentezza generale rispondo che il ragazzo poteva anche morire: meglio, pecché ‘a capa nun è bbona’, è il commento . Uno rivendica che è stata sua la prima pietra, e mostra un occhio pesto alla madre di Bettino che passa con il volto gonfio, viola, il mento insanguinato: ‘uarda accà, pe’ colpa ‘e figliete. Lei impassibile risponde: ‘ha fatto bbuono’. Il mio cuore ha sorriso a questa risposta; ma mi chiedo: che senso di giustizia hanno da queste parti? Perché anche la madre? Non sarebbe meglio curare e assistere questo ragazzo anziché aspettare che finisca in corte d’assise d’appello come suo fratello?”.
Nei giorni successivi Ciro continua la sua inchiesta nel quartiere: nessuno mostra pietà per Bettino e sua madre.

Zona franca: una Chance?
Come si vede, grande è la confusione da queste parti, molto difficile tirare linee nette di separazione: tra vittime e carnefici, ordine e disordine, giustizia e pietà. Che cosa rappresenta Chance in questa realtà?
Da subito, ha assunto i connotati della casa; lo dice il tipo di attaccamento che i ragazzi sviluppano: fedeltà e nostalgia per gli spazi, gli oggetti, i rituali, oltre che per le persone.
Poi, è molto spesso un teatro, dove i ragazzi vengono intenzionalmente a mettere in scena emozioni e drammi, e si ha l’impressione che lo facciano nel senso catartico del teatro delle origini. Non sempre è facile individuare la “messa in scena” al di sotto di comportamenti apparentemente solo perturbanti o distruttivi, ma se si riesce a farlo il significato nascosto si dispiega, con grande vantaggio di tutti. Il dramma rappresentato esige che i suoi destinatari collaborino ad una agnizione, altrimenti il groviglio rimane irrisolto.
Tutta la primavera scorsa fu turbata dalle attività di un gruppo di ragazze e ragazzi, interni a Chance ed esterni, che inscenavano i loro amori nei corridoi e nel cortile della scuola. Ho sempre avuto la sensazione che quella volta ci abbiano trovati inadeguati: probabilmente travolti dagli aspetti disturbanti, dal rifiuto violento di ogni attività scolastica, dagli occhi malevoli che osservavano e protestavano; o forse era troppo complicato. Tentammo un confronto aperto, che fu immediatamente interpretato come un processo: con la sensibilità esagerata che li distingue, subodorarono in noi, contro ogni nostra intenzione esplicita, il prevalere del giudice.
Quella furibonda rappresentazione metteva in scena significati molto importanti: amori che rompevano le barriere di odio fra i due quartieri; che portando le botte fin sotto il nostro naso paradossalmente mettevano in discussione il diritto dei maschi di picchiare le femmine; che, per il fatto stesso di svolgersi all’interno di un gruppo di coetanei, in una zona franca lontano dalle rispettive abitazioni, contestavano la coazione asfissiante del fidanzamento in casa.
La rappresentazione, priva degli sviluppi che portano all’agnizione, si è esaurita, consegnandosi alla realtà. Abbiamo perso tutto quel gruppo. Una ragazza è già felicemente madre, un’altra incinta.
Grazie ai connotati acquisiti, e ormai riconosciuti dalla popolazione, lo spazio Chance funziona anche come una sorta di camera di decompressione.
Il giorno dei funerali di Filippo ci piomba a scuola la signora N., palesemente in preda al terrore: nel quartiere ci sono rappresaglie, teme per il figlio.
Il marito è morto in carcere grazie ai suggerimenti dell’avvocato (sulla figura e il ruolo degli avvocati da queste parti ci sarebbe molto da scoprire, se qualcuno avesse voglia); la signora svolge la sua attività illegale all’ombra del cognome del marito, ma si sta battendo con furia per salvare i figli da quella strada. Il ragazzo che sta con noi da quattro anni, che stiamo avviando all’apprendistato, non è ancora fuori pericolo: la forza del risucchio continua a chiamarlo.
Nel giorno dell’emergenza e della paura, a chi si può rivolgere la signora? Non alla polizia, che oltretutto è assente; non al servizio sociale, vissuto troppo come controparte. Viene a Chance, sapendo bene che niente possiamo fare, se non ascoltarla e consolarla.
La signora F., sorella di un boss defunto, si lamenta che da lei nessuno va a prendere il caffè. A Chance non solo prende il caffè, ma dà consigli alle altre madri su come tirare fuori i figli dai letti per farli andare a scuola. Sono la tutor di sua figlia, come anche di un ragazzo che stava con noi all’inizio, che si è successivamente dedicato ad attività pericolose e oggi sta nascosto con tutta la famiglia dopo un pestaggio e minacce di morte provenienti, se non personalmente dalla signora, dal suo stretto entourage. Con lei parlo di sua figlia, del suo bisogno di un padre: che non è meno vero per il fatto che tale padre era un tossico, che picchiava e tradiva sua madre fino a che è stato ammazzato.
La camera di decompressione può ospitare contemporaneamente tante concomitanti e conflittuali infelicità. E’ l’unico spazio nel quartiere dove è pensabile elaborare i lutti al di fuori degli schemi rituali: pensare cioè al morto non come vittima di una infamità che reclama una infamità eguale e contraria, successivamente idealizzato, nel suo mausoleo marmoreo, per punire il sentimento che la sua morte conti molto di più della sua squallida vita. Ma come la persona reale che è stato, comunque depositaria di affetti; alla quale si possono scrivere delle lettere. E’ uno spazio in cui può diventare pensabile, proprio perché nessuno la chiede, una forma embrionale di dissociazione.
Uno spazio simile, in termini economici, non costa molto. Se ce ne fossero molti, in questi luoghi di guerra, sarebbe forse possibile iniziare ad allentare le maglie della paura e dell’odio.

11 dicembre, 2009

Monica Tavernini


Monica Tavernini è vissuta ed è morta come una Socrate dei nostri tempi. Una, al femminile. Perché, con pacata caparbietà, Monica ha sostenuto e sorvegliato - nella dimensione politica come nella vita di ogni giorno - la cura autentica e curiosa per le relazioni umane, l’acuta sensibilità verso le emozioni, i piccoli gesti e i silenzi di ciascuno, l’ascolto di se stessa e il rispetto per la finitezza di tutte le cose, compresa la sua stessa vita. Solo una grande sapienza al femminile può trattare le vicende pubbliche e private come Monica le ha sapute trattare. Fino all’ultimo, con quotidiana semplicità, temperanza, ironia. Staremo in tanti e per lunghi anni a pensare a quante cose ci ha insegnato e a chiederci se sapremo condurci così fino alla fine.
Monica amava la politica in senso proprio. L’appassionava lo spirito migliore delle città, il senso della cosa pubblica, il rispetto dell’interesse generale. Per questo, quando vi era una qualsiasi questione politica, lo sguardo interiore di Monica non andava solo a vagliare i rapporti di forza o le occasioni o gli spazi che l’agone politico sempre offre e non si fermava solo sulle possibilità di un’opzione o dell’altra – tutte cose che pur sapeva che contavano e che sapeva fare. Il suo sguardo andava a scrutare i fondamenti delle leggi che consentono la vita civile, quelli che salvaguardano le comuni ragionevolezze dalle tentazioni del potere e dai demoni che distruggono anziché costruire. “La mia misura di fronte alla ragion di stato e alla politica - che si fa ora - resta Antigone”. Lo diceva e ripeteva Monica, scherzando con benevolenza arguta sulle cose serie, come sapeva fare.
E’ anche per questa fedeltà alla politica in senso alto, contraria al “saper fare politica” odierno, che Monica ha voluto e saputo “lasciare un brillante avvenire politico dietro le spalle” – come lei stessa usava dire. Si era iscritta ventenne al PCI ma “non ero comunista, mi piaceva il socialismo, che, però, non c’entrava nulla con quella roba lì”. Quando parlava del secolo scorso, Monica pareva sospendere i pensieri, poi li diceva con convinzione: “Ma il muro di Berlino a me non è crollato addosso; perché io davvero mi sono scansata per tempo; a quel mondo lì non c’ho creduto mai. Ma quanta brutta ruggine di quel mondo è restata addosso a tanti, che non sono proprio voluti cambiare davvero”.
E’ con uno straordinario spirito libero che Monica è stata sindacalista e giovanissima segretario del PCI dell’Alfa Sud. E oggi mi piacerebbe che le ragazze che entrano la mattina nella fabbrica di Pomigliano, operaie di molte nazionalità, si potessero fermare a pensare almeno per un minuto a cosa poteva essere la vita quotidiana di una giovane bella donna femminista che guida, negli anni settanta, centinaia e centinaia di operai maschi nel “prospettare un futuro migliore”. Da allora Monica ha sempre conservato il suo impegno nel sindacato – la CGIL – per la quale nutriva un legame irrinunciabile e avvertiva l’urgenza di un sommovimento culturale, fondato sulla crescita della responsabilità individuale.
Dai partiti, invece, si era allontanata radicalmente. Il loro esprimersi, qui più che altrove, come interessi separati, la follia che permea i costanti giochi di potere interno, il culto servile dei capi, le verità taciute e i compiti disattesi erano altrettante prove della inaccettabile miseria a cui si erano purtroppo ridotti, che lasciava spazio alle carriere, agli opportunismi, al nulla.
Monica ha fatto con grande serietà e competenza il consigliere comunale e regionale. “Studiavo la notte le cose che non sapevo e per la frustrazione a volte mi veniva da piangere”. Ha fatto la politica di mestiere ma sempre come rigoroso servizio alla cosa pubblica, con un rispetto estremo per le istituzioni “che vengono prima di ogni parte politica”. Quando le è risultato evidente che questa prospettiva si era drammaticamente indebolita ha lasciato questo campo. Con l’elegante sobrietà che l’ha accompagnata sempre: “Da venti anni non faccio più quella vita. Sono troppo incuriosita per tutto il resto che mi accade, troppo sincera o forse distratta a tal punto da non saper dire bugie o forse anche troppo pigra per restare viva in quell’ambiente”.
Così Monica ha dedicato da anni molto proficuo tempo ad altro: le letture, la famiglia, l’amicizia. E, oltre al sindacato, ha fatto parte delle battaglie civili a strenua difesa della laicità dello stato e dei diritti individuali e all’impari impegno per pensare a un sensato modo di fare ripartire la nostra città.
Monica ha amato immensamente la letteratura. Per lei è diventata sempre di più il grande, sapiente specchio della sua vita. Così pochi giorni fa, guardando con un coraggio disarmante e immenso alla sua stessa fine, ha ricordato un passaggio delle Memorie di Adriano: “…come il viaggiatore che naviga tra le isole dell’Arcipelago vede levarsi a sera i vapori luminosi, e scopre a poco a poco la linea della costa, così io comincio a scorgere il profilo della mia morte”.
Monica davvero lascia un grande vuoto. Tanto che oggi si stenta a parlare. Quando saremo pronti, dovremo dedicare un giorno su una spiaggia davanti al mare che adorava - un tempo di convivio giocoso e di parole - per onorare Monica, cittadina superba della nostra città e delle nostre vite. In quel momento qualcuno leggerà il verso di Ossi di seppia di Montale che Monica, pochi giorni prima di sapere della sua malattia, con una di quelle stranezze che a volte accadono nella vita, aveva eletto come suo epitaffio:
…. Codesto è il mio ricordo; non saprei dire, o lontano,
se dal tuo volto si esprime libera un’anima ingenua,
o vero tu sei dei raminghi che il male del mondo estenua
e recano il loro soffrire con sé come un talismano…

Queste cose, che ho scritto con molta pena, usciranno domani su Repubblica-Napoli.

18 novembre, 2009

Campania burning

Una cosa che si può e si deve fare, nella difficoltà del fare politica in questo Paese e in questa regione, è portare testimonianza intelligente dei dati di realtà. E provare a parlare di cosa sia auspicabile e possibile fare. Per esempio…

Per esempio i recenti fatti di cronaca hanno riportato all’attenzione pubblica la storia del ghetto di San Nicola Varco, in provincia di Salerno: un ex mercato ortofrutticolo costruito negli anni '80 e mai collaudato, dove per anni hanno vissuto centinaia di immigrati senza tutela e senza diritti. Arrivati in Italia, gli immigrati (in maggior parte marocchini) credevano di essere provvisti di un contratto di lavoro regolare: ma il contratto si era rivelato una truffa, e nella loro nuova condizione di clandestini i lavoratori erano impegnati anche dieci ore al giorno, in nero.

La notizia è di oggi: da ventiquattro ore è ormai partito il rastrellamento. Nonostante la CGIL si batta da anni per sensibilizzare le autorità sulla situazione del ghetto di San Nicola, le forze dell’ordine intervengono solo ora per sgomberare l’area: lì dovrà sorgere un centro commerciale. La maggior parte dei clandestini è fuggita nella notte, alcuni di loro attendono l’espulsione, pochissimi i regolari ai quali verrà garantita una nuova abitazione…

Le storie di chi vive nel ghetto di S. Nicola sono state raccontate da Anselmo Botte in un bel libro, Mannaggia la miserìa, come con parole locali e accento straniero imprecano i braccianti stranieri. E su radio radicale c'è anche una sua intervista sulla condizione del lavoro nero degli immigrati. Siamo anche in attesa del documentario titolato Campania Burning diretto da Andrea D’Ambrosio e scritto con Peppe Ruggiero (Biutiful Cauntri). Il film è stato girato durante l'estate del 2009 nel ghetto di San Nicola Varco e narra una giornata degli abitanti di ghetto. Ha inizio con il ritorno dei braccianti dai campi, e la vita abitudinaria nel ghetto fino alla notte. Succede l’alba con la chiamata al lavoro dei caporali di giovani immigrati fantasmi che lavorano 10 ore al giorno al mercè di gente senza scrupoli, uno sguardo nel ghetto vuoto ed il lavoro nelle serre e nei campi. Il finale torna, come l’inizio, nel pomeriggio, riproponendo la vita nel ghetto.

Sarebbe ora di parlare delle cose e dei nessi tra governo del territorio – quello reale, effettivo, concreto e non quello degli slogan triti e ritriti e delle retoriche – e politica qui in Campania e governo della Campania. Ora che le elezioni regionali si avvicinano. Quale candidato, quale programma, quale metodo partiranno con il dire il vero, almeno? E sarebbe ora di creare un qualche spazio pubblico sul cosa fare: scuola e formazione, immigrati, nuova emigrazione nostra al Nord, droga, mancato lavoro e povertà. E camorra, che entra in ciascuna di queste cose. E sulla politica di chi governa e di chi si oppone, qui, che vive in e di queste cose anche essa. Quanto c’entra? Come? Perché? Parlarne davvero, senza faciloneria, coi dati, da posizioni diverse. Sarebbe ora.

La foto viene da questo reportage della università di Salerno.

16 novembre, 2009

Con quale bici pedalare?

Se ho capito bene questa bici del mio amico elettricista e ciclista si ispira a una bici che fu usata in pista da Antonio Maspes. E se ho ben compreso si tratta di bici che quasi non può frenare e che costringe a pedalare sempre, anche in discesa, perché non ha la ruota libera. Se la usi non in pista ma nel traffico urbano devi schivare e dunque stare attento a ogni ostacolo, prevedere in tempo reale ciascuna variazione reale o potenziale di intenti e traiettorie altrui, accettare i rischi dovuti al caso, che pure esiste; e perciò non perdere mai l’attenzione. E’ un esercizio che produce adrenalina e pathos e che sta nel vivo pulsante delle cose.

Ne parlo perché mi pare una grande metafora dei compiti politici, se si intende per politica l’arte del possibile per vivere insieme meglio in questo mondo, ora.
Da tempo non vi sono più certezze su cui adagiare l’attenzione. Ma ora è assolutamente chiaro che non ci si può distrarre. Mai. Ma proprio mai. E si deve fidare sulla destrezza costante, individuale o collettiva. Prendendone i ritmi e i rischi. Tutti.
C’è il partito che in fondo serve? Puttanate. Non è vero e se è vero non è certo o forse è comunque assai poco utile e in ogni caso non ci si può fidare. C’è il sindacato che comunque sorveglia ed è presente. Assolutamente opinabile, quasi sicuramente falso. C’è il o un capo di cui fidarsi per fare governo o opposizione. Cazzata… e se la pensi puoi cadere. Vi è una cosa che è dalla tua parte e un’altra, ben distinta, che ti è contro. Può essere. Ma vanno costantemente sorvegliate le traiettorie sia dell’una che dell’altra.

Ecco. Ma pedalare con una bici fissa insieme ad altri – per fare una politica che abbia senso in questo mondo e in questo Paese – è ancora possibile? E con quali procedure condivise, comunitarie? Con quali metodi decisionali-deliberativi? E secondo quali minime garanzie finalizzate a sopravvivere nel mezzo del tumultuoso tragitto e del rischioso procedere?
C’è chi (vedi il Pd e la sua assemblea cui ho accennato nel post precedente) questi quesiti – che costano rischio intellettuale ed umano e dunque fatica interiore e fatica nel mettersi d’accordo tra diversi in tempo reale e su cose da fare – non se li vuole porre o non se li sa prendere in carico. E così preferisce altre bici per tragitti saputi e da ripetere, in modo assai più certo e mansueto. Ma le altre bici, legate alle identità di uno o due secoli fa e alle loro rassicurazioni, sono davvero idonee alle nostre civitas? Servono a percorrere le strade per come esse sono in realtà e oggi?

15 novembre, 2009

Il seguito di North Country

E invece… Alla fine sono entrato nell’assemblea nazionale del Pd. Perché ho vinto il ricorso – grazie alla caparbia insistenza degli amici di Mantova. Che ringrazio ancora. Sono andato a Roma all’assemblea. Ho visto molte persone brave, capaci, competenti nei propri settori, ad un tempo indignate per l’Italia com’è e reattive, che stanno tentando un’ultima tenace prova di politica, che sia sì realistica ma che abbia anche un senso, progettuale, metodologico. Perché è pur vero che c’è comunque bisogno di azione comunitaria e di attivizzazione civica e dal basso ma anche di rappresentanza dignitosa, che ascolti, che rilanci, che invogli.

All’assemblea i leader si sono accordati secondo i rituali di sempre. Le mozioni sono state approvate con sciatto automatismo. Il dibattito e gli stessi modi di lavorare erano insomma vetusti e davvero poverissimi rispetto alle ferite del Paese, alle cure sociali e civili necessarie, alle aspettative. Ci vuole qualcosa di altro e di nuovo, che faccia i conti col mondo com’è. Non basta l’ennesima alchimia tra popolarismo e socialdemocrazia. E poi ho visto un apparato che ogni tanto vorrebbe ma che forse non è proprio in grado di raccogliere spinte, energie, proposte che pure ci sarebbero. Non ha, appunto, gli strumenti culturali e forse anche emotivi. Sono nati e cresciuti in quei pollai… Al di là dei leader è questo il problema. Sulla generale mancanza di una forma per la politica (ben oltre la specificità del Pd) e anche su questa evidente e dolorosa scissione – tra necessità e anche risorse da un lato e vecchie inamovibili abitudini dall’altro – proverò a fare una qualche riflessione un po’ più lunga tra qualche giorno. Lavoro permettendo.

12 novembre, 2009

Ricordo di Pina



E’ morta la mia amica Pina Coppola.
Dopo una lunga e terribile battaglia con la malattia.
Era una donna di grande umanità. Qui la ricordo come amica con le immagini riportate da un altro amico. Pina è stata sempre impegnata con sobria costanza sui temi dei diritti civili. Ha fatto anche parte della nostra avventura di Decidiamo insieme. Lascia un grandissimo vuoto in tante e tanti.

01 novembre, 2009

North Country 5

Paradosso sgradevole: alla fine però è andata male, anche se era andata davvero molto bene.
Pare il mondo alla rovescia. Infatti, nonostante la buona battaglia di merito fatta a Mantova nel corso di queste primarie, grazie alle straordinarie persone incontrate e nonostante i più che buoni esiti del voto, l’orrido marchingegno elettorale del Pd mi ha penalizzato.
Ecco come:
Mentre i seggi che vengono presi con quoziente pieno partono tutti dal raggiungimento del quoziente elettorale di collegio (es. metti che per 10 seggi sia mille voti ogni seggio: tu ne prendi tremila guadagni tre seggi), i resti, invece, non seguono la logica di chi si avvicina più a mille (e cioé quella meritocratica del resto più alto) ma si parte con una prima assegnazione dei seggi ai collegi con quattro seggi con i resti e poi via via con i collegi con un più alto numero di seggi. In Lombardia solo due seggi sono stati assegnati pieni mentre gli altri quindici tutti con i resti. La fregatura quindi l'abbiamo presa noi di Mantova e poi Cremona e Milano 3, ultima fascia di assegnazione con sette e sei delegati da assegnare e dunque con i resti (e quindi i voti in assoluto) più alti della Lombardia (!!). Si è fatto ricorso ma è il regolamento che è folle e anti-meritocratico. E senza neanche tutelare bene le minoranze. Infatti vengono dati seggi alle monoranze delle realtà meno significative e dunque meno capaci, potenzialmente, di tenere nel tempo. Ma tant’è.
Così, nonostante che, dopo i collegi di Milano, io sia il più votato (quinto posto su 28 collegi lombardi) sono fuori.

In compenso ieri il Napoli ha vinto, dopo 21 anni, sul campo della Juve. Con una rimonta immensa. Meno male che o’ ciuccio c’è!