Questa “festa della democrazia” del Pd è divenuta davvero l’ennesima brutta storia campana. A un giorno dall’inizio del voto c’è il pericolo di una lunga notte di conta basata sul sospetto, la contrapposizione dura, la rissa. Tanto è vero che è stato nominato un commissario nazionale, unico caso italiano. E già si è visto che la logica della guerra, imperante, ha prodotto alcune aberrazioni procedurali. La lista dei seggi, uscita in enorme ritardo, con le sezioni elettorali non sempre precisamente indicate e che sono spesso anche senza indirizzo, sfavorisce il voto libero e di opinione (ci va chi già sa). Vi è, in taluni casi, addirittura la sparizione di alcuni seggi perché in sedi non idonee o perché le associazioni titolari non sono mai state avvisate o non sono d’accordo ad assolvere tale funzione.
Non è disorganizzazione. E’ il risultato della spartizione territoriale selvaggia – “questo a me e questo a te” – in cui è implicito che il seggio non è luogo neutro e di “festa della democrazia” ma, invece, appartiene a una fazione in lotta ed è dunque potenziale luogo di controllo se non di possibile arbitrio. Ieri mattina un seggio del collegio dove sono capolista è risultato non essere mai stato disponibile: evidentemente qualche big di qualche lista aveva imposto una qualsiasi sede purché fosse in un territorio di presunta influenza a svantaggio della concorde e oculata indicazione di una sede possibile per tutti. Altre volte la mediazione su dove votare ha addirittura portato a indicare come luogo le scuole pubbliche, posto che dovrebbe tassativamente stare fuori da questa mischia, non trattandosi di un confronto per l’elezione di rappresentanti nelle istituzioni della Repubblica ma di una vicenda di partito.
C’è un’aria incattivita, piena di astio, risentimento. Ciò sporca la corsa a ogni passo, legittima tutti coloro che non sono interessate a costruire una casa comune ma che vogliono imporre una nuova influenza sulle vicende future in termini di posizioni, candidature, ambiti di controllo su apparati e pubbliche istituzioni.
Ieri sera sono stato a Torre Annunziata, da vecchi amici: il clima di presidio fazioso dei singoli seggi era impressionante. E il locale responsabile della associazione per il Pd era sull’allerta anche per altri inquinamenti perché è “peggio delle elezioni comunali o regionali”.
Si ripete, insomma, peggiorato, lo spettacolo già visto per l’ammissione delle liste. E di nuovo fanno eccezione le liste più lontane dai potentati e improntate al volontariato politico: Adinolfi, Bindi, Letta. Sono i vasi di coccio presi tra i vasi di ferro, coloro che hanno preso in parola la promessa del Pd e qui si sono trovati nel mezzo di ben altra guerra.
Alla fine c’è più che il rischio che il 14 ottobre – nella lunga cronaca di una stagione di declino politico della nostra regione e della nostra città – sarà ricordato per i cocci della partecipazione infranti e per il rumore dello scontro tra i vasi di ferro. Rumore tanto assordante quanto vuoto: perché non contiene né contenuti e programmi, né nuovo metodo, né nuovo stile né nuove persone.
E nello scrivere un giorno tale storia si dovranno constatare tre evidenze.
In primo luogo la faziosità è concentrata nella feroce contrapposizione tra le liste che vedono le truppe unite intorno alla diarchia De Mita-Bassolino in lotta con coloro - tutti ex servi o ineffabili alleati o dell’uno o dell’altro o di entrambi - che hanno scelto il 14 ottobre come data della battaglia per disarcionare questa diarchia.
In secondo luogo entrambi gli schieramenti contendenti, a loro volta assai compositi e confusi al loro interno, stanno combattendo non la battaglia per una nuova casa comune entro cui elaborare le risposte politiche alle esigenze di questa parte del Paese, bensì, appunto, quella per le future poltrone e la relativa gestione delle risorse pubbliche.
In terzo luogo tale lotta tra liste regionali ha luogo a sostegno del medesimo candidato nazionale, annunciato vincitore, Walter Veltroni. E, nello scrivere tale storia ci si domanderà: fu colpa di Walter? Certamente sì nella misura in cui egli non ha voluto indicare la urgenza di una sola lista o almeno di criteri e di una qualche forma di supervisione tale da placare o contenere tale battaglia all’ultimo sangue. Ma è soprattutto colpa locale. De Mita e Bassolino hanno usato e abusato di un metodo che hanno insegnato e imposto ovunque; hanno seminato vento per quindici anni; e raccolgono tempesta. Non c’è buona politica né da un lato né dall’altro. E tutto intorno suona di nuovo la solita triste musica del trasformismo meridionale, vecchio come il cucco, che vede i potentati posizionarsi sempre dietro ai forti ora a difesa dei propri territori di potere ora all’assalto di quelli altrui.
Le persone, come il sottoscritto e molti altri, che in queste settimane hanno deciso di misurarsi direttamente con i processi democratici annunciati, ben sapendo che non corrispondevano a quelli realmente in campo, mettendoci la faccia pubblicamente, hanno il dovere – oltre che il diritto – di indignarsi, proporre ostinatamente un altro metodo, richiamare ai contenuti, alle proposte. Alla buona politica. E all’antica battaglia democratica per la decenza pubblica nel Mezzogiorno d’Italia. Per quanto sia faticoso.