24 maggio, 2010

Bene: le acque non sono più quelle di dieci giorni fa

Daniela aggiorna sul dibattito intorno alle primarie.
Dunque forse a una piccola cosa sensata abbiamo contribuito: si faranno in autunno. Ci sarà tempo per dire come e con chi. Bisogna parlare del cosa fare. Sì, prima del cosa. Poi c’è, certo, da vedere i candidati. Ed è ottimo il sommovimento fatto da Vendola. Muovere le cose, appunto. Poi la strada sarà in salita, si sa. Ma intanto non siamo più a dieci giorni fa. E nei prossimi giorni provo a dire di un’iniziativa entro giugno sui temi della città, nel merito: cosa fare, come, con quali denari, secondo quali urgenze.

18 maggio, 2010

Troppi suicidi al Liceo Umberto

Nella speranza che la ragazzina in questione si salvi, va purtroppo notato che nel liceo più “bene” della nostra città ci sono stati troppi suicidi e tentativi di suicidio. A meno che si pensi che sia colpa di quella scuola – e io non lo penso – o che sia un caso – che è riduttivo - c’è da fare un ragionamente pubblico sull’adolescenza in difficoltà nella città; ed è un compito ormai inderogabile, urgente.
Così oggi su la Repubblica Napoli ho fatto questa primissima riflessione, sperando che ci sia un confronto vero sull’educare oggi.


Una ragazza si è buttata da una finestra del Liceo Umberto. Preghiamo che si salvi e che, una volta affrontate le ferite del corpo, possa incontrare un aiuto che lenisca la difficoltà acuta di stare al mondo che l’ha spinta verso un gesto così estremo e che l’aiuti a stare meglio dentro se stessa. E stiamo vicino alla mamma e al papà, al loro smarrimento. Solidarietà e presenza sono l’aurora di ogni relazione umana, di ogni comunità. A volte bisogna ritornare all’aurora, ritrovare il senso primo. E fermarsi per poterlo fare.
Stiamo ora vicino ai ragazzini e alle ragazzine di questa scuola. Essi, infatti provano pena per la loro compagna e, al contempo, provano pena anche per se stessi. Perché – com’è normale – i gesti estremi rimescolano i propri più intimi pensieri, le angosce del proprio crescere. Perciò: va oggi dato loro uno spazio di ascolto e di riflessione. Pacato. Serio. Si sospendano le lezioni. Ci si metta in cerchio nelle aule. Si parli, ci si ascolti. I docenti ascoltino, dicano la loro con rispetto per le difficoltà del crescere oggi ma senza rinunciare all’essere sponda adulta. Si tratta di fare questo, semplicemente, così come tante volte tanti docenti già fanno, con competenza e sensibilità. Non è il primo episodio che accade in questo
liceo. C’è bisogno di dare parola alla pena. Di trovare un tempo dedicato.
Molti docenti, ovunque in Italia - d’accordo con i dirigenti e con le direzioni regionali della pubblica istruzione - stanno avviando modi per stare più vicino ai ragazzi. Senza, con questo, rinunciare alla propria funzione docente, al rigore che ogni apprendimento richiede, all’assetto di una scuola che sia tale. Si può fare. A dicembre un’alunna di una scuola del Nord si è uccisa gettandosi nel vuoto, subito dopo scuola. C’era di mezzo l’amore. Come spesso è in adolescenza. E l’abbandono. I ragazzi della sua scuola si sono fermati. Hanno potuto parlare di sé. Hanno raccontato. Hanno espresso ora il senso di colpa, ora la rabbia, ora l’incomprensione o l’avversione per il gesto della compagna, ora lo smarrimento intollerabile per la perdita. Hanno pianto e hanno cercato le parole perché il rischio del vivere che ciascuno sentiva potesse essere parte di qualcosa di comune. E’ stato un rito di passaggio. Infatti ci vogliono riti per poter contenere e elaborare l’impotenza di fronte al dispiacere, alla frustrazione, all’assenza di senso di molte umane vicende. Ci vogliono riti mentre si cresce. E sono i riti che ora mancano. Quella esperienza ha rimescolato il clima di quella scuola. Ha fatto emergere possibilità di rinascita e di progetto, ha ricreato una comunità fatta di parole, propositi e azioni comuni. Si sono organizzate gite, gruppi di studio, mostre. Si è ri-inventato anche l’apprendere. Perché, gradualmente, intorno all’apprendere si è rafforzata e meglio articolata la cornice di empatia, di solidarietà, di incontro tra generazioni e tra coetanei. I genitori hanno fatto parte di questo moto. Hanno portato i loro saperi a scuola, si sono offerti di aggiustare quel che c’era da aggiustare, hanno ri-pattuito insieme la alleanza tra adulti che sta a presidio delle regole, hanno scoperto che si può dare e non solo chiedere a una scuola.
Nessuno può togliere la pena dal mondo. Nessuno può eliminare la fatica e il rischio di crescere. Ed è insensato pensare che la scuola da sola possa assolvere a una funzione adulta generale che è sparita dai media, dalla politica, dal senso comune. La società intera deve ri-acquisire pulsioni, ambizioni e soprattutto competenze educative. E’ un processo che sarà lungo e faticoso. Che si deve nutrire di atti, di gesti significativi. I genitori vanno trattati da alleati permanenti ma anche chiamati a rispettare la scuola, per il bene di chi ci cresce dentro.
Va ripreso da noi tutti il tema dell’adolescenza, del suo profondo significato di passaggio verso la differenziazione e identificazione di ogni persona in crescita. Nelle scuole c’è da lavorare sulla dimensione gruppale degli adolescenti che risulta ancora poco osservata e curata. Il gruppo è un luogo di attribuzione di significati, di problematizzazione e di ricerca di senso. E’ uno spazio mentale e di immaginazione in cui la soggettività del singolo si alimenta costruttivamente. Dovrebbe e potrebbe costituire l’occasione per una presa di coscienza di sé come presa di coscienza del mondo, rappresentare un ponte tra l’interiorità e il collocarsi spazialmente e temporalmente nella comunità.
L’educare deve ridiventare un’ambiziosa sfida della nostra collettività. La città tutta intera deve trovare anch’essa uno spazio per ripensarsi come luogo nuovamente educante.

13 maggio, 2010

Napoli può riprendersi la parola!

Domani dovrebbe uscire su la Repubblica Napoli questo appello di Sergio D'angelo e mio. Chi vuole aderire, potrà firmarlo lì.

L’Italia non esce dalla crisi economica, sociale e istituzionale se solo una parte del Paese detta l’agenda per tutti. Non ne esce senza il Mezzogiorno e senza la città di Napoli. E Napoli può aspirare a rifondare il suo patto con il Paese. Per farlo deve rinnovare il patto con se stessa: chiamare i cittadini a raccolta intorno alle priorità della vita comune. Ripulire l’ambiente e curare i nostri rifiuti. Combattere la povertà e la disoccupazione. Rompere con gli sprechi. Ridare alla città servizi degni e produzioni industriali. Rifondare la macchina amministrativa e chiudere con ogni forma di clientelismo. Riportare i ragazzi alla scuola e alla formazione. Colpire la camorra e dare possibilità vere a chi vuole uscire dalla strada sbagliata.
Perciò: per ritrovare la voce e il senso della vita civile è tempo di smettere di piangersi addosso e di litigare tra vecchi e logori potentati. Le energie migliori della città, il recupero del suo orgoglio e della sue potenzialità hanno bisogno di un immediato cambio di passo, di voce e di proposta.

Il centro-sinistra utilizzi l’anno che ci separa dal voto per il sindaco di Napoli per ridare la parola ai napoletani in modo che l’appuntamento amministrativo divenga un concorso di idee e una mobilitazione per il riscatto civile. Si cominci col decidere ora che le elezioni primarie di tutte le forze di centro-sinistra siano una vera prova di democrazia, fondata sulle cose da fare e che si tengano entro l’autunno.

In questa direzione, allo scopo di combattere logiche lobbistiche e autoreferenziali, è assolutamente necessario che singoli cittadini e quella parte di società attiva, che da tempo si organizza in comitati, associazioni, cooperative, comunità resistenti, gruppi di altra economia, esperienze dal basso, la vasta galassia di uomini e donne che si stanno interrogando sul da farsi, trovino la forza e le modalità per riprendere voce e capacità di contare.
La storia non è già scritta e, soprattutto, non c’è alcuna ragione per lasciarla scrivere agli altri.

Napoli può riprendersi la parola!

Sergio D’Angelo
Marco Rossi-Doria

12 maggio, 2010

Meridionalismo. O dell’assumersi responsabilità


Mentre i leghisti vomitano ideologia, il signor Letta, quello junior, ci dice che siamo una zavorra e il presidente di Sudd, il signor Bassolino, si offende per tali affermazioni, si fa davvero grande fatica a partire dai dati di realtà – così come dovrebbe, invece, fare ogni politica degna di questo nome.
La responsabilità politica nasce dall’analisi fattuale. Per poi ricercare, sobriamente, le soluzioni possibili. Questo è stato il metodo del Meridionalismo. Assumersi responsabilità di analisi e di proposta realistica. Senza paroloni, polemiche strumentali di un tipo o dell’altro e infingimenti. Questa fu il modo e l’ispirazione che unì persone diverse: Fortunato, Sturzo, Salvemini, Nitti…Che si misero al crocevia dell’unità d’Italia dicendo la verità sul Mezzogiorno e proponendo soluzioni.Si stanno, in questi giorni, festeggiando i 150 anni dell’unità d’Italia. Per parteciparvi sarebbe bello attingere alle parole dure e savie di questi nostri grandi meridionalisti, per i quali, oggi più che mai, si sente un debito di riconoscimento e una grande nostalgia.
Domenica scorsa, per festeggiare in forma privata l’Unità, sono andato a Bezzecca e ho riportato queste foto.
E, per provare a iniziare a dire le cose vive su ciò che divide l’Italia unita, riporto qui di seguito solo alcuni passaggi dell’audizione che la Commissione indagine sull’esclusione sociale detta Commissione povertà ha fatto, il 22 aprile scorso, con Giancamillo Trani della Caritas Diocesana di Napoli.Perché non riprendere la via della responsabilità e dunque aprire un dibattito finalmente serio a partire da queste cose?

“Il 2008 è stato l’ennesimo “annus horribilis” per l’economia campana. Secondo l’annuale relazione della Banca d’Italia, nel corso dell’ anno il Pil è sceso, ulteriormente, del 2,8% per la Svimez e dell’1,6% per Prometeia.Il 22% dei nuclei familiari (quindi, quasi uno ogni quattro) vive al di sotto della soglia di povertà, il doppio della media nazionale. Sale vertiginosamente il debito delle amministrazioni locali della Campania, arrivando a toccare quota 12 miliardi di euro; fino al mese di marzo 2009, le ore di cassa integrazione sono state cinque volte superiori che nel 2008. Nei soli primi tre mesi del 2009, secondo il Rapporto Svimez, la Campania ha perso 32.000 occupati.
Nella regione risiedono 5 milioni ed 812 mila persone, con una maggiore concentrazione tra Napoli città e la sua provincia. Il numero di famiglie supera i 2 milioni di unità. Nonostante sia la regione più giovane d’Italia (è quella che annovera il maggior numero di ragazzi di età compresa tra 0 e 14 anni) si registra un aumento della disoccupazione del 13,4% (era il 10,9% nel 2007);
la Campania è anche la regione che registra il tasso migratorio più alto verso altre regioni italiane. Napoli e provincia segnano il record della crescita del debito delle famiglie, con un incremento del 116, 36% negli ultimi cinque anni.La crisi economica e sociale che sta investendo il territorio campano sta penalizzando, in particolar modo, le fasce più deboli della popolazione, che stanno vedendo progressivamente diminuire non solo le possibilità occupazionali, i redditi e la capacità di acquisto, ma anche i servizi sociali e tutte quelle misure di sostegno di cui le famiglie più disagiate hanno maggiormente bisogno.E non sarà poi un caso se, anche il “Rapporto sull’Economia” curato dalla Camera di Commercio di Napoli, segnali la Campania come la più povera tra le regioni d’Italia, con oltre 140mila social cards rilasciate nel 2008 (dati Inps), pari al 23% del totale nazionale.
Collegandosi alla più o meno recente ipotesi di alcune forze politiche circa l’introduzione delle cd. “gabbie salariali”, è utile precisare che i redditi del Sud saranno anche alti, se rapportati al costo della vita, ma di sicuro vanno divisi tra più persone rispetto a quanto accade al Nord. Il record spetta alla Campania, dove ogni euro da lavoro o da pensione deve soddisfare 2,3 persone (percettore compreso), mentre all’estremo opposto della classifica c’è l’Emilia Romagna con 1,5 persone. Scorrendo i dati Istat, come già richiamato in precedenza, la Campania è la regione italiana con il maggior numero di giovani (16,7% contro il 14% della media nazionale) e quella con il più basso tasso di occupati per la popolazione attiva (appena 40,7% delle persone in età da lavoro contro il 57,4% della media nazionale).
Questi fattori hanno, come conseguenza immediata, un bassissimo numero di percettori di reddito, appena 43,3 ogni cento persone. Meno della Calabria e della Sicilia, che raggiungono almeno quota 47% (le regioni del nord sono attestate su una media del 64-65%). E’ anche per questo che Campania, Calabria, Puglia e Sicilia sono le regioni che l’Unione Europea considera in grave ritardo di sviluppo, al punto da meritare i fondi dell’asse 2007-2013, a conferma che il dato sui percettori di reddito è un indicatore sintetico della situazione economica complessiva e dei differenziali tra le regioni…”

08 maggio, 2010

Difendere la scuola e chi la fa

Ieri hanno dovuto asportare la milza a una maestra Maria Marcello del 48° circolo, zona orientale di Napoli, un luogo della tenuta civile ed educativa in mezzo alla barbarie. Ma molti episodi del tutto simili avvengono ovunque in Italia, a Nord e a Sud. Per questo ho scritto l’articolo che segue, che appare su Repubblica Napoli di oggi.


Un bambino dà un calcio che spappola la milza a una maestra. La prima cosa che noi tutti dobbiamo fare è esprimere vera vicinanza, affetto e solidarietà alla maestra. Scriviamole delle lettere. Mandiamole delle cartoline. Al 48° circolo di Napoli. In tanti. Sosteniamone la pena in queste ore.
E facciamolo con uno spirito che vada oltre la solidarietà umana. E’, infatti, tempo di difendere la scuola e chi la rende possibile. Faccio parte di quella moltitudine di docenti che provano da anni a cambiare la scuola. Perché così com’è non va. Ma da altrettanto tempo penso che c’è da fare una scelta netta: difendere con forza la scuola comunque. E ben oltre questo come altri episodi terribili, che destano naturale sdegno e solidarietà.
Questa scelta a sostegno della scuola è inderogabile. Per noi tutti. Lo è perché oggi le scuole sono rimaste il solo luogo comunitario, presente ovunque in Italia, quotidiano, costante dove adulti e bambini o ragazzi condividono spazi, parole, affetto, difficoltà, fatiche, speranze, sogni, scherzi, frustrazioni, dispiaceri. E lo fanno senza tornaconto economico, lontano dall’idea di bambino o ragazzo come consumatore. E lo fanno in un contesto distinto dal particulare che ogni famiglia necessariamente rappresenta. Oggi la scuola va sostenuta perché è questo. E lo è in mezzo a una società in cui è saltato il patto tra adulti. Quel patto che fonda e rende possibile la trasmissione simbolica dei valori, delle regole, dei modi di porgere e porgersi che passano da una generazione all’altra. La rottura di questo patto ha molte cause. Contano enormemente i modelli veicolati dall’insieme della società e dai media. I valori dei genitori non si formano più entro comunità culturalmente omogenee bensì in modi molto differenziati e spesso distratti, poveri. E la società italiana sta conoscendo anche una crisi drammatica nel presidio delle procedure e del limite. Che sono alla base del poter educare. Così non esistono più i quartieri e i paesi dove tutti e ciascuno aiutano a fare crescere insieme i nostri figli, presidiono i limiti condivisi, danno santa ritualiità ai gesti, portano rispetto alle regole, credono nell’esempio, cercano con pazienza le parole per chi è nato dopo di noi. E la tv mostra ottocento volte il gesto di Totti e zero volte i mille gesti solidali che tengono in piedi il Paese.
Nel mezzo di questo deserto è rimasta la scuola. Sola. Con sul groppone un compito titanico, quasi impossibile. Il compito di difendere il senso della parola educare.
E, mentre tutto questo sta sotto i nostri occhi, l’Italia è piena di “soloni” che parlano male della scuola e degli insegnanti. Si annidano nei media e nei salotti bene, giocano a spiegarci come dovrebbe essere il mondo, pontificano con i paroloni. Una cosa li accomuna: non hanno mai passato più di due minuti in una classe di scuola d’infanzia o media o primaria o in una sezione del biennio di un istituto superiore. Non conoscono la fatica di dirimere una lite, di insegnare di nuovo a salutare o ad alzarsi in autobus o sul treno durante la gita scolastica per fare posto alla donna incinta, al signore anziano, al disabile. Non hanno idea di cosa sia calmare una mamma ansiosa e provare a pattuire con i genitori una vera condivisione su cosa fare con i ragazzi. Non immaginano nemmeno quanta fatica c’è nel ridare motivazione a chi ha quindici anni e ripete che non crede in nulla e non sa fare nulla. O nel placare un bimbo o un ragazzo che dà di matto. O dare calma e ritmo di lavoro, giorno dopo giorno, a intere schiere di bimbi e ragazzi che sempre più spesso non riescono più a domare il proprio agire, a governare la normale frustrazione, a rispettare i limiti, gli altri, le cose.
Questo episodio è successo a Napoli. In un quartiere difficilissimo. In una scuola che conosco per il suo impegno. Sì, è accaduto in mezzo a una città che è allo stremo, in un contesto per il quale la scuola rappresenta il presidio della Repubblica in un un posto che, nella migliore delle ipotesi, è “terra di nessuno” ma che è spesso la terra dei nemici della legge e della città.
Ma oggi, per una volta, l’episodio non va visto come l’ennesimo segno della Napoli in degrado, ferita, povera, abbandonata. Cose così stanno accadendo ovunque. Dalla Brianza ai paesoni della Padania, dai piccoli e medi centri della civilissima Italia centrale alle metropoli del Nord come del Sud.
E’ una grande questione nazionale. E’ tempo di rispondere alla crisi educativa generalizzata, diffusa ovunque. Una crisi di magnitudo paurosa. Che dovrebbe creare allarme anche maggiore di quello per la crisi economica. Perché investe le nostre ragioni prime, quelle che consentono di poter vivere insieme negli stessi posti. Perciò: la solidarietà alla maestra Maria la si deve a lei e la si deve all’impegno civile per riprendere a educare in Italia.

07 maggio, 2010

Muovere la situazione


“A salute è a primma cos’”. Allo sfascio del territorio, c’è chi prova a reagire, sia pure a fatica. Guardatevi cosa racconta Francesco in merito.

Più in generale… Fare cose, avanzare proposte con chiunque, muovere la situazione, anche se il filo che tiene su la speranza è davvero esile. E’ questo a cui ci chiama una situazione che appare chiusa. C’è da uscire dalla trappola.
Questo è anche un po’ il tema dell’intervista radiofonica che ho rilasciato a Norberto. Dove non nascondo pessimismo ma dico che dobbiamo provare a muovere l’acqua stagnante. Ho ripreso ancora l’idea di primarie ad ottobre. Spero che presto si possa fare un appello su questo. Da fuori delle nomenclature. E soprattutto per rimettere al centro del dibattito pubblico le priorità di Napoli e avanzare proposte realistiche. Napoli deve aspirare a rifondare il suo patto con il Paese e con se stessa. Per fare questo la prospettiva non può essere arrendersi ai nomi che girano per sindaco, a sinistra e a destra. Ma soprattutto non può essere arrendersi in partenza a questa miserabile assenza di respiro culturale e alla totale mancanza di proposte che spingano la città e i cittadini a aspirare a…
Bisogna inventare, smuovere… per quanto sia difficile.

21 aprile, 2010

L'insegnante bloccato in trincea


Oggi è uscito un mio pezzo sulla prima pagina de La Stampa. E' sulla questione sciagurata delle graduatorie regionali per gli insegnanti. Una questione che tocca i diritti costituzionali, ma anche l'organizzazione pratica della scuola e la vita degli insegnanti.
L'articolo ha avviato una discussione, per esempio stamattina durante la rassegna di RadioTre. Analoghe posizioni ho espresso in un’intervista per Il Mattino. Su Radio24 ho continuato a difendere queste posizioni – in un confronto con il senatore della Lega Nord che sta proponendo, con disegno di legge, la regionalizzazione del reclutamento dei docenti della scuola pubblica italiana di ogni ordine e grado.

L’idea del Ministro Mariastella Gelmini di rendere strettamente regionali le graduatorie degli insegnanti risulta contraria al parere del Consiglio di Stato che si è già espresso a favore del carattere nazionale della nostra comunità scolastica, sulla base degli articoli 3, 4, 16, 51 e 97 della Costituzione.
Ma, ben al di là del diritto costituzionale, l’idea di limitare gli insegnanti a svolgere il proprio compito solo entro la propria regione appare difficilmente praticabile. In primis per come è la vita reale delle persone e, poi, perché è in contrasto con i principi stessi sui quali si fonda l’Europa unita. Infatti, se questa proposta passasse, il giovane docente di matematica che insegna a Castelfranco Veneto e si sposa con la collega di Brescia o di Mantova o di Bari o di Catania, non può cambiare sede. E la docente di latino di Trento che ha il padre malato di Alzheimer che vive nella confinante provincia di Verona, non può chiedere l’avvicinamento. L’Unione Europea, poi, si fonda sulla libertà di andare e venire delle persone e delle cose. E così io, insegnante elementare con buone competenze di lingua inglese - se seguo le norme per l’immissione nelle scuole britanniche - posso andare a insegnare a Leeds o a Oxford. E il mio amico docente di genetica a Edimburgo ha deciso di venire a insegnare a Napoli, sua città d’adozione spirituale, con grande soddisfazione dei suoi studenti partenopei. E noi tutti mandiamo i figli a fare l’Erasmus - in giro per la casa comune europea – perché, insieme alle lingue, promuoviamo, nei nostri ragazzi, questa santa libertà di muoversi, fare esperienze nel mondo e di cambiare vita se lo si vuole. E’ un grande lascito del pensiero liberale. Una cosa meravigliosa, che apre gli orizzonti del sapere e le possibilità della vita.
Alcuni sostengono che le scuole del Sud e del Nord hanno problemi diversi e dunque che bisogna creare comparti distinti e separati. E’ in parte vero che hanno problemi diversi. Perché pesano sulle scuole del Mezzogiorno pubbliche amministrazioni meno capaci ma soprattutto incide la povertà, che è molto maggiore. E che è una povertà materiale e culturale insieme. Infatti nelle regioni meridionali risiedono il 65,3 percento delle famiglie povere. In termini assoluti le famiglie povere residenti nel Mezzogiorno sono 1.713.000, tre volte di più di quelle residenti nel Nord, che ammontano a 595.000. E i bambini e ragazzi poveri sono, in Italia, 1.809.000, il 17% del totale. Ma nel Sud risiede il 70% dei minori poveri: 1.245.000. Fare scuola a Sud è spesso più difficile. Che facciamo? Negli Stati Uniti, paese federale per eccellenza, gli squilibri nei tassi di esclusione precoce dovuti a maggiore povertà e a analfabetismo funzionale delle famiglie non spingono ad abbandonare le zone più difficili ma al contrario a occuparsi delle zone povere come parte del patto nazionale, unitario, perché la cultura è una, indivisibile. E sia Bush che Obama hanno promosso, con l’unanimità di Senato e Congresso, programmi tesi a fare spostare i docenti migliori, con forti incentivi, per sostenere lo sforzo comune. E’ una tradizione che, del resto, ci appartiene. Migliaia di docenti del Nord sono partiti per il Mezzogiorno subito dopo l’Unità d’Italia. E migliaia di docenti e dirigenti di origine meridionale hanno costituito l’ossatura delle scuole di tutta Italia prima, durante e dopo il fascismo.
Fa bene il Ministro a richiamare i temi della didattica e del merito. Ma faccia attenzione: sono grandi temi nazionali. Confonderli con la regionalizzazione dei docenti non aiuta ad affrontarli. Perché, ben oltre le differenze regionali e locali, la scuola, ovunque, si sta oggi misurando con almeno due radicali mutazioni che sono comuni a tutto lo scenario italiano. La prima mutazione è data dal fatto che è saltato il patto implicito tra scuola e famiglia. I professori di oggi non possono più dare per scontato l’accordo con i genitori dei propri alunni com’era un tempo. Questa rottura del patto tra adulti ha molte cause. Contano enormemente i modelli veicolati dall’insieme della società e dai media. I valori dei genitori non si formano più entro comunità culturalmente omogenee bensì in modi molto differenziati. E la società italiana sta conoscendo anche una crisi drammatica nel presidio delle procedure, delle regole e del limite che sono cose fondamentali per poter educare. Ci vuole un grande lavoro per rifondare tale patto. La seconda mutazione sta nel fatto che la scuola non è più il solo luogo dove si accede alle informazioni e ai modi di apprendere. Tutte le discipline sono, infatti, parte della rete e sono accessibili in mille forme, rapidamente. Con la possibilità ulteriore di essere manipolate, variate, confuse, confrontate. Lo stesso modo di imparare – il funzionamento del cervello umano – viene chiamato in causa: organizzazione della memoria, presenza simultanea di molti codici, compresenza di procedure analogiche e logiche, relazione immediata tra produzione costruita e fruita, ecc. Questa è la prima generazione di docenti che ha perso il monopolio delle conoscenze e dei mezzi per trasmetterle. E che deve insegnare a distinguere, scegliere, confrontare, in mezzo a un mare di informazioni complesse e contraddittorie, valutando il sapere e le competenze che i propri alunni hanno acquisito in moltissimi modi, anche lontano dalla scuola e diversi da come loro hanno imparato. Ci vuole una semplificazione della scuola e una contemporanea capacità di affrontare questa crescente complessità.
Così, si tratta sì di affrontare il tema del sostegno ai gruppi docenti – non basta promuovere i singoli - in termini meritocratici ma con gli occhi rivolti a cosa è insegnare e imparare oggi. Ma questa gigantesca sfida educativa – che ha un profondo senso culturale e politico per la modernizzazione del Paese - vale a Messina come a Napoli, ad Aosta come a Milano o Torino o Bologna o Venezia o Reggio Calabria. E, per vincerla, ci vuole un esercito civile unitario ben preparato e nuovamente motivato e non delle ridotte locali chiuse ciascuna nel proprio particolare.

15 aprile, 2010

La destra vincerà a Napoli a meno che…

La fine del cosidetto ciclo bassoliniano ha portato via dalle urna molte migliaia di elettori di centro-sinistra. La destra può oggi tranquillamente vincere a Napoli. E se il Pd & company fanno quel che stanno facendo, vincerà. Norberto su ciò fa una puntualissima analisi, che invito a leggere.
Dunque la destra sta per andare a Palazzo San Giacomo. A meno che ora, subito ci sia una rottura con il notabilato di centro-sinistra che ci ha portato fin qui - o con le primarie o in altro modo. A meno che si individuino 4 temi chiave – lotta alla camorra e sicurezza, salute (che comprende aria, acqua e rifiuti), macchina burocratica, sviluppo e misure locali per l’inclusione sociale – e si facciano poche proposte chiare che rispondano alla depressione dilagante ridando ambizione e voglia di fare alla città. Con una campagna elettorale dura con chi ha governato in questi anni, capace di far sognare, concreta e lunga. Che costringa anche gli apparati di partito a misurarsi con un moto che sia esterno alle sue logiche e ai suoi linguaggi. Solo se avviene questo, se nel farlo potranno e sapranno emergere uomini e donne credibili perché nuovi, che facciano squadra intorno a un candidato sindaco che dia speranza, si potrà, forse, riattivare chi si è allontanato dal voto e provare a invertire la tendenza.

13 aprile, 2010

Polveri sottili in aumento a Napoli



Pm10 - polveri sottili – in aumento in città. Si parla spesso della Milano della Moratti a tal proposito. E si fa bene.
Ma questo sobrio ragionare di Francesco mette ancora una volta il dito nella piaga di una mancata politica ambientale lungo il corso dei 20 anni di governo di centro-sinistra nella nostra città.
In una politica decente questo sarebbe il primo focus di una seria campagna elettorale per sindaco.
La salute nella città di Napoli: “a prima cosa è a salute” o no? Come si è arrivati a ciò? Cosa si può fare, rapidamente e con realismo?

12 aprile, 2010

Antiche minacce soffiano in forme nuove. Per arginarle ci vuole una nuova politica.

Questa crisi si sta prolungando in una lunga stagnazione. E sta producendo crescente esclusione sociale e perciò grandi frustrazioni nelle nuove generazione soprattutto delle tante periferie urbane e – come fu dopo il 1929 - anche mostri. Così, venti antichi, già visti eppure rinnovati soffiano da oriente, minacciosi. Di questo bisognerà pur riflettere anche quando si parla dei nostri risultati elettorali. In Polonia sono ore di lutto nazionale e cresce anche la voglia di votare a destra alle elezioni presidenziali perché questo tipo di consenso lì trae nuova linfa dal perdurare della crisi e, ora, dalla martirizzazione del presidente morto nell’incidente aereo, Lech Kaczynski, notoriamente omofobo e populista.Ma nella vicina Ungheria la deriva xenofoba e nazionalista è ancor più pericolosa. Lo Jobbik, il movimento dell’ultradestra di ispirazione fascista e antisemita, è entrato per la prima volta in Parlamento, ottenendo il 16,7 % di consensi. In parte neutralizzati dalla vittoria della destra moderata. Ma comunque un dato moltoinquietante, che risulta in ulteriore crescita rispetto al clamoroso 14,77 % ottenuto alle ultime Europee. Lo Jobbik attacca gli ebrei. Crea odio omofobo e aggredisce anche fisicamente gli omosessuali. Vuole cacciare subito i rom e intanto organizza concretamente la violenza contro di loro.
Nell’Ungheria questa tradizione apertamente fascista è forte. L’ammiraglio Horthy negli anni trenta condusse il paese all’alleanza con l’Asse. E durante la II guerra mondiale furono deportati oltre 600 mila ebrei e molte migliaia di rom e sinti che vivevano da secoli in Ungheria. A farlo, insieme ai nazisti, furono le croci frecciate magiare, unità paramilitari di ispirazione cristiana fanatica, spesso fatte da giovanissimi provenienti dalle classi popolari. E’ a questi criminali che si oppose, tra gli altri, Giorgio Perlasca.

Il movimento Jobbik, fortemente revisionista, si ispira anche alle croci frecciate. Le retoriche sono antiche, in modo impressionante. Ma le azioni sono nuove. Parlano di internet. Di identità di gruppo tra i giovani. Di attività radicate nelle periferie. Di rituali con un dna antico ma forme innovative. Nato nel 2002 come Associazione dei Giovani di Estrema Destra per iniziativa di alcuni studenti universitari cattolici e protestanti, lo Jobbik è diventato un partito nell’ottobre del 2003. Grazie ad un programma elettorale farcito di slogan che enfatizzano le radici cristiane del paese e demonizzano tutti coloro che “appartengono a razze inferiori o sono fuori dalla tradizione cristiana”, è riuscito in breve tempo a catalizzare un numero crescente di consensi. Merito anche del forte radicamento ancora una volta di una struttura paramilitare (la Magyar Garda) più volte sotto i riflettori per episodi di violenza e che esercita una fascinazione soprattutto nei giovanissimi e nelle aree dell’esclusione sociale. Così Gabon Vona, il capo di Jobbik, al termine degli scrutini ha annunciato con voce trionfante: "Entrerò in Parlamento con l'uniforme della Garda".
Un elemento che distingue ulteriormente lo Jobbik dagli altri movimenti politici ungheresi è lo stile comunicativo volgare e violentissimo. In testa alla classifica dei politici più volgari del nostro continente spicca la bionda avvocatessa Krisztina Morvai, deputata al Parlamento Europeo ed elemento di punta del partito. Subito dopo essere stata eletta confidò ai giornalisti quale fosse il suo grande sogno: "Sarei contenta se coloro che si definiscono fieri ebrei ungheresi se ne andassero a giocherellare con i loro piccoli peni circoncisi… la gente come loro è abituata a vedere la gente come noi mettersi sull’attenti ogni volta che loro danno sfogo alle loro flatulenze. Dovranno rendersi conto che tutto questo è finito. Abbiamo rialzato la testa e ci riprenderemo il nostro paese".

Frasi simili sono uscite in passato dalle voci di estremisti in questo nostro continente. E si disse che erano una minoranza. E’ stato così negli anni trenta e quaranta dello scorso secolo. E’ stato così anche dopo il disfacimento della Jugoslavia. E ogni volta le parole sono diventate fatti.
E’ ora di riprendere la via per arginare i mostri in agguato. ma per farlo non bastano davvero le retoriche antifasciste ormai stantie. E’ urgente un dibattito pubblico serio sul come rilanciare politiche di inclusione efficaci, lavoro educativo vero nei territori svantaggiati, promozione di inclusione culturale e sociale che siano libere dagli stereotipi inconcludenti che non convincono più soprattutto i giovani. Perché le questioni vere sono, ad un tempo, la legittima ricerca di appartenenze che diano senso alla quotidianità e che perciò siano identitarie-valoriali ma anche capaci di fare cose, trasformare i propri luoghi, richiedere risultati nella vita quotidiana e ottenerli, a partire da lavoro, reddito, riconoscimento e allargamento di saperi, abitazioni a prezzo possibile per chi è giovane, crediti veri per aprire imprese, ecc. Le diatribe dei notabilati delle compagini di centro-sinistra e di sinistra italiane sono distanti anni luce da tutto questo. E infatti hanno già regalato intere popolazioni alla lega. Ma può succedere anche di peggio. La vecchia politica è davvero diventata una pericolosa zavorra. Bisogna andare oltre. Ed è urgente farlo.

Nella foto: i corpi di pazienti e medici dell’ospedale ebraico di via Maros, trucidati dalle croci frecciate ungheresi, guidate dal monaco cattolico nazista Andreas Kun, Budapest 11/01/1945.

11 aprile, 2010

Almeno provare a muoversi

Oltre che di lavoro, di pranzi pasquali e di depressione per la tornata elettorale, mi sono occupato, in questi giorni, di numeri di votanti e voti a Napoli. Votanti in ulteriore calo e maggiore calo ancora che nel resto d’Italia. Votanti che vedono la sconfitta a Napoli città dove, però, il centro-sinistra continua nonostante la passima amministrazione a conservare consensi.
Credo che, prima della resa totale a una sconfitta ulteriore, annunciata e deprimentissima, si debba tentare qualcosa. Muoversi. Perciò – e con quel minimo di realistico buon senso politico che ci vuole, credo – ho scritto l’articolo che è su Repubblica Napoli di oggi e che riporto interamente qui sotto. Qualcuno risponderà? Mah…


Una lunga stagione politica sta finendo per usura e esaurimento. Come per una disidratazione, per lenta consunzione metabolica. E non è solo questione di Bassolino. L’esperienza amministrativa – il governare le cose per il bene dei cittadini - di un’intera generazione di politici locali si è conclusa con il bilancio in rosso. Infatti, dopo quindici anni di governo regionale, provinciale e della città, siamo più poveri, abbiamo speso poco e male gli ultimi fondi europei che avremo, la macchina amministrativa non è mai stata riformata, non si è visto alcun piano di riconversione post-industriale, i giovani non si formano e emigrano, la gestione del territorio – dai rifiuti agli assetti urbanistici – sono restati privi di un’idea che avesse gambe su cui marciare. Le cose nuove, i miglioramenti concreti si contano sulle dita di una sola mano. E ogni volta che lo facciamo davanti ai nostri figli, appariamo sempre più patetici. Un venticinquenne si guarda intorno e non può enumerare una sola cosa di valore che ha visto sorgere e consolidarsi in questi anni. E può rinfacciare a noi, suoi genitori, di avergli consegnato un luogo peggiore di quello da noi ricevuto. Sono dati di fatto. Crudi. Che non possono essere smentiti. E non va certo meglio sul piano della politica: la famosa “messa in sicurezza” del Pd e delle sue alleanze semplicemente non vi è stata e la rappresentanza è lontana anni luce dai cittadini.
Così, in un anno, il centro-sinistra ha perso la Provincia di Napoli e la regione Campania. La casa del partito democratico e anche il recinto delle potenziali alleanze sono in fiamme.
Ma la consapevolezza della situazione da parte del notabilato di centro-sinistra non c’è. E mentre si rischia di perdere anche il comune di Napoli, questi strani individui continuano ad aggirarsi ringhiando litigiosamente gli uni contro gli altri. E gli oggetti delle inconcludenti contese sono ora la segreteria provinciale del partito democratico ora gli assetti di questa o quella compagine della coalizione.
Nessuno ma proprio nessuno - che non faccia parte di quelle poche centinaia di persone che si nutrono solo di queste cose – può umanamente capire di cosa si stia parlando. E’ facile profetizzare che così facendo la casa e il recinto andranno in cenere. E, intorno alle rovine, piccoli cani smagriti staranno a leccare le ferite a lungo o forse continueranno ad abbaiarsi nel nome di antiche dimenticate fedeltà o infedeltà.
Si può fare qualcosa? Sì. Si può. Ma ci vuole un po’ di santo coraggio. E uno scatto di intelligente orgoglio e di buon senso. Si convochino subito le primarie per le elezioni comunali. E siano “di coalizione”, con l’accordo sul come farle da parte di tutte le sue componenti. Al contempo si favorisca una riflessione autentica – un bilancio delle cose fatte e non fatte. I candidati si cimentino con il compito di indicare soluzioni realistiche ai problemi della città. E, in questa contesa, mostrino le capacità di leadership nuova che la città merita e forse possiede, nonostante tutto. E – una volta scelto il candidato sindaco – vi sia una moratoria che eviti i litigi e si sostenga chi ha vinto.
Si faccia, poi, una campagna elettorale che dia il tempo di fare conoscere candidato e proposte – pochissime e chiare. Una campagna che sia fortemente partecipativa, come quella di Nichi Vendola in Puglia. Centrata sulle cose da fare. Insieme ai cittadini.
Se si fa così - e se lo si fa senza ingombranti quanto inutili padrini di questo o quel candidato, con Antonio Bassolino che si gode l’indispensabile tempo di riposo e Rosa Russo Ierevolino che esce dalla scena in punta di piedi – forse il centro-sinistra di Napoli può aspirare a governare la nostra città. In modo finalmente e davvero nuovo. Altrimenti no.

29 marzo, 2010

Una lettera a Levi Strauss, buon’anima, dalla povera italietta

Su Il Manifesto di domenica 28 è uscito questo articolo di Marco Aime che ho deciso di riportare integralmente:

Caro Professor Lévi-Strauss,

lo so, lei ci ha lasciati qualche mese or sono, ma le scrivo lo stesso, perché forse solo lei, dal suo meritato ritiro riuscirà a leggere lo sconforto. Noi quaggiù, che abbiamo studiato sui suoi libri e su quelli dei molti bravi antropologi culturali che hanno saputo costruire una disciplina in grado di leggere l'umanità con occhi diversi, ci siamo rimasti male. Male a vedere, che quasi un secolo di studi, di dibattiti per cercare di smontare, faticosamente, l'etnocentrismo, che ci accompagna tutti e far comprendere che non esistono culture superiori o inferiori, ma semplicemente diversi modi di organizzare la società e le relazioni umane, non è servito a nulla. O a ben poco se nel 2010, dopo una riforma dei licei definita con modestia dalla sua autrice Mariastella Gelmini «epocale», possiamo leggere nelle indicazioni nazionali dei licei delle Scienze Umane che «tra i temi da affrontare ci sono «le cosiddette culture primitive, il loro carattere prevalentemente magico-sacrale, e il passaggio alle cosiddette culture evolute».
Speravamo che l'aggettivo «primitive» fosse rimasto solo un rigurgito del passato, magari utilizzato in conversazioni al bar, ma non che finisse in un testo governativo. È vero, hanno aggiunto un «cosiddette» per addolcire un po', ma si potevano trovare ben altri modi o semplicemente si poteva parlare di culture e basta. Certo questo avrebbe posto sullo stesso piano noi e gli altri e forse a qualche leghista o filo-leghista zelante questo non sarebbe piaciuto. E poi come giustificare il «passaggio alle cosiddette culture evolute»? Nelle pagine successive, abbandonata la prospettiva antropologica, infatti di culture non si parla più, ma solo di civiltà. Ça va sans dire che non si parla più di Africa, Oceania, Asia, ma della luminosa Europa. Loro, i primitivi hanno la cultura, noi la civiltà.
 Le hanno anche fatto un torto, professore: tra le letture consigliate hanno indicato proprio un suo libro, Tristi Tropici, di cui sinceramente ricordo le minuziose descrizioni delle pitture facciali dei Caduveo, le raffinate analisi sul loro concetto di simmetria, l'attenzione per la complessità dei sistemi simbolici e dei meccanismi narrativi delle popolazioni da lei incontrate. Ricordo il suo, talvolta persino pedante, disgusto nei confronti del passaggio alle «culture evolute». 
Sono bazzeccole, forse, ma rivelano come minimo scarsa attenzione al linguaggio. Perché se non è semplice sciatteria, allora è grave. Significa che tutto lo sforzo compiuto per dimostrare che la maggior parte delle dicotomie basate sul binomio noi/loro, sono frutto di una nostra costruzione è stato vano. Inutile aver relegato le teorie evoluzioniste nei libri di storia del pensiero antropologiche, come reperti di archeologia di un pensiero che speravamo non potesse più essere condiviso. Inutile aver tentato di spiegare come quello del progresso e dello sviluppo siano dei miti occidentali, che stanno alla nostra società esattamente come i miti fondatori stanno a quelle società «cosiddette primitive». Ma noi non pensiamo siano miti, perché noi abbiamo la storia, noi abbiamo l'innovazione e loro la tradizione. Sono indietro nel tempo, nella corsa al progresso, per questo si parla di passaggio alle culture evolute. Passaggio inevitabile, sembrerebbe, nella mente degli estensori del testo, altrimenti ci avrebbero aggiunto almeno un «eventuale» o un «possibile». 
«Il barbaro è anzitutto l'uomo che crede nella barbarie». Sono parole sue, professore, che dire? Ci può consolare il fatto che ci sono migliaia di bravi insegnanti, che a dispetto di un trattamento economico da terzo mondo e delle continue angherie esercitate da certi ministri sulla scuola pubblica, sapranno andare ben oltre le intenzioni di Gelmini & Co., sapranno spiegare quanto sia complessa la cultura umana e come le sue differenti espressioni siano anche in qualche modo connesse tra di loro; come si trovino sistemi di pensiero quanto mai raffinati anche tra quelle società cosiddette primitive; che le culture sono cantieri sempre aperti, in continuo movimento, in cui si monta e si smonta, utilizzando anche pezzi che vengono da fuori. 
No professore, non ho scordato quella frase, quella relativa al «carattere prevalentemente magico-sacrale», è solo che mi ha dato non poco da pensare. Certo, parole come queste potrebbero far pensare a società sprofondate nelle nebbie di credenze e superstizioni irrazionali, a individui succubi della magia, che si muovono impauriti, temendo lo scatenarsi delle ire di maghi, streghe e divinità varie.
Eppure sono arrivato persino a prendere in considerazione che questo fosse un segno di riconoscimento delle culture altre. Le scrivo da un paese dove a pochi giorni dalle elezioni i più alti rappresentanti del sacro, intervengono per dire chi votare; dove il capo del governo, similmente ai re divini del passato, si definisce «unto del Signore» e si considera un taumaturgo (ha detto che sconfiggerà il cancro); dove la gente spende migliaia di euro in lotterie e gli oroscopi sono le pagine più lette dei giornali.
 No, no non abito in Burkina Faso, ma in un paese che fa parte del G8. Mi scusi se l'ho disturbata professore, ci perdoni.

28 marzo, 2010

Auspicio di buon passaggio nel giorno delle elezioni

Pesach significa passaggio. E siamo a un passaggio.

Prima della Pasqua ebraica si puliscono le case dalle cose lievitate. Si cercano ovunque - anche le briciole - e lo si fa con la candela. Secondo una consuetudine, la candela usata per la ricerca deve essere bruciata assieme alle sosanze lievitate trovate. Secondo alcuni maestri è probabile che il senso di tale usanza sia che colui che sente come dovere primario quello di trovare attorno a se soprattutto cose negative, alla fine sarà distrutto e consumato dal suo stesso odio.
Speriamo che sia così anche per quel signore di una certa età che ci governa, il quale – al di là di ogni considerazione politica – è una persona disturbata, divorata dalla ricerca dei nemici e dall’astio, incapace di propositività, che ha sparso risentimento e cattiveria come poche altre personalità nella storia d’Italia, contribuendo a farci diventare tutti più cattivi e meno solidali, meno capaci, meno intelligenti, meno curiosi e contribuendo non poco a rovinare questi anni di vita, a noi e ai nostri figli.

22 marzo, 2010

Political endorsement: Sergio e Marco

“Political endorsement is the action of publicly declaring one's personal or group's support of a candidate for elected office”.

Chiamasi endorsement politico l’atto di dichiarare pubblicamente il sostegno – personale o di gruppo – a un candidato per una carica elettiva.
Sarò breve e chiaro nel fare il mio piccolo endorsement per le elezioni regionali della Campania. E lo riferirò a persone. Perché sono testimone del fatto che quelle persone che qui indico sono individualmente capaci di non vendere l’anima a partiti e schieramenti.
Per chi - come me - si occupa di lavoro sociale ed educativo, di welfare partecipativo, sviluppo locale e sostegno alle fasce più deboli della nostra popolazione, molto estese, conviene avere in consiglio regionale una persona che viene da lunghi anni nel nostro mondo, che è corretta, che di queste cose se ne intende e che ragiona e opera sul da fare in modo onesto e non provinciale. Un candidato di questo tipo c’è. E’ Sergio D’Angelo.
Per chi pensa che si debba sapere emendare nel concreto la scandalosa incapacità di legiferare del nostro consiglio regionale, c’è qualcuno che l’ha già fatto emendando l’ultima finanziaria campana con proposte serie, che sono passate. Su acqua pubblica, no nucleare, tariffe RC auto che premiano i virtuosi, bonus sulle bollette per i poveri, incentivi alle imprese che assumono davvero. E’ Marco Esposito.
Avvertenza non secondaria. Per chi approva queste mie proposte di candidati ma, per le più diverse ragioni, non crede nel candidato presidente De Luca - che le loro liste indicano, si ricorda che la legge prevede anche il voto disgiunto.
Se, poi, ci sono persone che ritengono di non voler/poter proprio votare per candidati nelle liste IdV o Sel e che si debba votare PD, noto che, nelle nostre condizioni questo ragionamento è purtroppo debole. Perché la lista del Pd non è una bella lista, imbottita – com’è – di esponenti della nomenclatura bassoliniana che ci ha portato a questo disastro. Ma, come è noto, io frequento assai poco e con crescente disaffezione e fatica il PD e solo nella componente di Ignazio Marino. E soprattutto - per ragioni altrettanto note - lo faccio lontano da questi luoghi, “in esilio”, a Mantova. In ogni modo, se qualcuno voterà comunque PD, segnalo il candidato Nino Daniele, persona garbata, buon amministratore e non appartenente alle nomenclature bassoliniane che lo circondano in quella lista.

21 marzo, 2010

Politica campana e “società civile”

Oggi su Repubblica Napoli c’è questa mia riflessione sulla strutturale debolezza della società civile nella nostra regione.

Ancora una volta ci si domanda: come voterà la “società civile”? Si asterrà perché disgustata da questa politica? Oppure voterà per Ferrero o per la compagine di Grillo? Voterà per Caldoro perché l’alternanza è la risposta più naturale all’evidente fallimento del centro-sinistra? Voterà per De Luca perché gode di fama di uomo che intende affrontare i problemi e fare di testa sua? O lo sosterrà perché è percepito come il male minore? La risposta è ovvia: farà tutte queste cose, a ranghi separati.
Invece, molto meno ci si chiede dei temi che dovrebbero essere al centro della campagna elettorale. Perché riguardano la vita reale. Come sostenere quel 25,3 per cento di campani che vivono sotto la soglia di povertà, ben 1.340.000 persone? Come aumentare e rendere efficace la spesa sociale che oggi è del 29 percento inferiore alla media delle altre regioni? E quali stimoli sono possibili e in quali settori per fare ripartire il nostro PIL che è a meno 2,8 percento, la decrescita più marcata del Paese? E quale nuova idea di percorso professionale si può costruire per il 28 percento di ragazzi che non si forma? Cosa si può realisticamente proporre ai cittadini, sia ricchi che poveri, che fuggono via di qui al ritmo annuale di 6 ogni mille? Come mobilitare risorse per fare ritornare le donne campane nel mercato del lavoro dato che oggi lavorano solo 22 donne su 100? Su queste cose come si può invertire rapidamente la rotta nell’uso dei fondi europei dato che, dal 2007, abbiamo speso solo il 18 percento di quanto potremmo e che tra tre anni questo rubinetto sarà chiuso? Senza parlare di rifiuti, ambiente o dei 4000 morti per camorra negli ultimi lustri...
La verità è che la nostra “società civile” fa fatica a trovare una voce incisiva sui temi veri della Campania. Semplicemente perché è molto più debole che altrove. E, per capirlo, conviene riandare a una definizione un po’ classica e estensiva di “società civile”: Perciò: dicasi “società civile” l’aggregazione di cittadini intorno al perseguimento dei diritti politici e sociali, alla soluzione dei problemi comuni, alla difesa di quei diritti che Kant definì “i diritti innati”, a cominciare dal diritto alla libertà. E’ in spazi di libertà, dunque, che cresce questa aggregazione. Libertà innanzitutto dai condizionamenti del potere. Cosa rara da noi.
Invece la società civile cresce altrove. E, sia pure a fatica, argina i condizionamenti. I cittadini si attivano in tempi e con modi che sono indipendenti dalle scadenze elettorali e dagli schieramenti tradizionali. Si dedicano con costanza a studiare i problemi: risorse, energia, scelte nello sviluppo, sicurezza intesa anche come convivenza, ottimizzazione della spesa, controllo della qualità dei servizi, diritti comunitari e dei singoli, metodi di decisione... Vagliano opzioni e proposte. Esercitano forme di condivisione delle possibili soluzioni. E solo dopo si pongono la questione di come farsi valere anche con il voto.
E il dibattito sul voto non indebolisce, come avviene da noi, le reti di attivismo che si sono, intanto, costituite. Infatti tali reti hanno tessuto relazioni autonome, accumulato competenze. E soprattutto hanno imparato che ci si può far valere, che si può pesare sulle decisioni pubbliche quanto più non si è supini a chi governa e quanto meno si è solo protestatari. Nel tempo conta di più l’essere propositivi e ben centrati su obiettivi e compiti. Per questo crescono le reti civiche. Per questo possono conservare caratteri aperti, fluidi, anche creativi, divertenti, ricchi di posizioni diverse che pur si parlano. La politica esce, in questo modo, dall’ ossessione dell’appartenenza “identitaria”, dal sistema ideologico delle “coerenze interne”, dalle misere categorie della fedeltà e del tradimento. Crescono, invece, le aggregazioni per temi e per territori. Che rifiutano l’appartenenza ideologica, che si fondano su bisogni, diritti e aspirazioni; che scelgono il metodo della ricerca anzicché il criterio dell’adesione. Si tratta di un cambiamento culturale indispensabile per affrontare la complessità e che consente di stare insieme tra persone diverse, di cambiare anche posizione perché si deve apprendere per proporre soluzioni.
Quanto più radicato e costante è questo tipo di protagonismo, quanto più elabora risposte credibili e largamente condivise e tanto meno la politica tradizionale può pretendere di cooptarne le differenti componenti; tanto meno si permette di usarle l’una contro l’altra; tanto meno osa chiedere il sostegno incondizionato a un partito o, peggio, a un capo. E’, al contrario, la rete civile a dettare le condizioni: se vuoi il voto devi ascoltarci, misurarti con le opzioni elaborate anche fuori dai palazzi e favorire processi decisionali partecipativi. E’ sulla base di queste esperienze, molto diffuse, che l’Unione Europea ha sempre più largamente accolto - nei suoi ordinamenti - il valore dell’organizzazione diretta dei cittadini. Perché si estende l’esercizio di cittadinanza, crescono le competenze nel sapere analizzare cose complicate e fare proposte sensate, aumenta il capitale sociale. E non tutto viene ridotto al consenso attraverso il voto.
Ma nel Mezzogiorno e in Campania siamo ancora molto ai margini di tutto questo e la sudditanza dei cittadini resiste. Per molte ragioni. Perché manca lo sviluppo - e non da questa recessione, ma da decenni. Perché il sostegno ai più deboli non ha trovato dispositivi stabili, tanto che la porzione di società ridotta al bisogno, più facilmente ricattata, rappresenta da anni una porzione enorme della società. Perché l’impresa, le professioni e le arti indipendenti sono un’eroica eccezione. Perché la concorrenza è ancor meno presente che altrove. Perché – in buona sostanza – siamo una società con pochi ceti medi liberi e, soprattutto, con pochi veri occupati altrettanto liberi. Che, perciò, riproduce un deficit di libertà. Che fa comodo a una politica povera di vera cultura democratica, sia a destra che a sinistra.
Perciò la nostra “società civile” è condizionata dal prevalere di un uso clientelare della spesa pubblica in tutti gli ambiti dell’economia, della ricerca, della cultura, del welfare. E prevale il volere, spesso irrazionale e caoticamente espresso, di ceti politici - eredi del vecchio notabilato meridionale - buoni a ben poco ma capacissimi nel creare e conservare eserciti di mediatori e mestieranti che chiedono adesione e fedeltà in cambio di sovvenzioni, finanziamenti, consulenze, supporto, visibilità.
Così, da noi, se vuoi innovare la fabbrica di famiglia o proporre una ristrutturazione in un reparto ospedaliero, se vuoi rendere credibile il riciclaggio della plastica o rilanciare la formazione professionale tra i giovani più poveri, se hai buoni progetti di ricerca o vuoi aprire un ristorante o una scuola di danza non pensi ad aggregarti e diventare forte ma ad andare, a ranghi separati, con il cappello in mano, dal “capuzziello” di turno. Perché sai già – per dura esperienza - che non è il merito della questione che conta bensì il solito adagio: “devi intanto sostenermi alle elezioni e poi si vede....”.
Ma una società così non ha futuro. E perciò non vi è che una via da percorrere, quella della testarda azione per fare crescere la società civile. E quelle tante persone che amano la buona politica, che siano candidati o non lo siano, che oggi intendono votare in un modo o nell’altro o non votare, devono, comunque, sapere che non si scappa dall’urgenza di riprendere la via della libertà dai condizionamenti. Il futuro dei nostri figli dipende da quanto noi madri e padri siamo capaci di fare questo.
E sarà un vero leader il primo politico campano che, indipendentemente dalla sua storia passata, avrà il coraggio culturale e umano di dismettere davvero il vecchio adagio, di disarmare con intelligenza la baracca clientelare, di sostituire progressivamente il sistema delle fedeltà con quello delle reti di competenza e di leadership diffusa, fondata sulla crescita di una moderna cittadinanza.