11 agosto, 2008

Una bella lettura da Fabrizia prima di Ferragosto

Ho deciso di non commentare le vicende napoletane in questo mese: troppo inutile o dannosa appare la cosidetta politica (che tale non sa proprio essere) dinanzi alle cose vere della vita in città... e pure la vicenda italiana appare davvero deprimente.
E' ancora di più il tempo per tornare ai problemi veri, lontano dai famosi teatrini e a tal proposito segnalo un mio intervento sulla scuola che continua a perpetuare l'ingiustizia sociale (è sul denso e interessante sito della Fondazione Internazionale Don Luigi Di Liegro).

E ecco - come omaggio d'agosto in ricordo di altre estati - la bellissima ultima intervista a Fabrizia Ramondino:


"Questi vetruzzi finiti sulla spiaggia mi sembrano tante vite umane, chissà da dove vengono…"

A colloquio con Fabrizia Ramondino
a cura di Franco Sepe


Il titolo alla nostra intervista, che riprende testualmente la citazione messa in epigrafe al tuo libro di racconti intitolato Arcangelo, hai voluto sceglierlo tu. Perché?

Non sono parole mie. Circa trenta anni fa ogni estate o appena potevo andavo sulla Costa Amalfitana, nel Vallone di Laurito, lontano dal turismo di massa, dove assieme a una piccola comune di amici avevamo preso in affitto una casa contadina. Avevamo fatto amicizia con alcuni pescatori e contadini, fra i quali Mario, che una volta sulla spiaggia al suo ritorno dalla pesca, seduto sui ciottoli disse questa frase, soppesando in mano con pensosa gentilezza resti di antichi vetri, mattonelle, stoviglie, levigati dal mare. Ora non si trova più niente, solo frammenti di plastica, né conchiglie, stelle di mare, carcasse di ricci. Mario, che non si era mai mosso da Laurito, tranne che per un breve e infelice tentativo di emigrazione a New York, si chiedeva questo e altro. Una domanda che mi ha indotto a chiedermi che cosa mi interessasse in letteratura: la curiosità verso questi insignificanti frammenti del passato suscita il racconto e il bisogno di restituire i morti ai vivi. Un po' come è accaduto a Proust con la sua madeleine.

Ma anche per te, in quel ritrovamento, c'è qualcosa di perduto.

Sì, la perdita del mare vivo e non distrutto dall'inquinamento, come è nelle sorti del pianeta; oltre che dal turismo di massa, popolare o chic che sia. Siamo lontani dai bei documentari sulle vacanze pagate introdotte da Léon Blum nel '36 in Francia. Una volta erano possibili relazioni umane tra il ceto educativo, al quale appartenevo, e quello proletario. Non ti sentivi un turista. La diseguaglianza sociale non era così grande come ora.

Pensi che il tuo pessimismo ecologico sia in qualche modo in relazione con il tuo personale processo di invecchiamento?

Certo, ho più difficoltà a correre, nuotare, tuffarmi, camminare sugli scogli, scalare montagne, andare in bicicletta. Ma questo non c'entra con quanto vedo, osservo, sperimento in natura. Ti faccio solo un esempio: questa estate ho voluto fuggire il caldo nel bosco di Campello sul parco dei Monti Aurunci, in una tenda. Non lo avessi mai fatto! I giovani più poveri del paese, quelli che non possono permettersi le Maldive, hanno trasformato quei luoghi e quelle notti in una discoteca, mentre più giù divampavano gli incendi. E immondezza ovunque. Se si dispregia a tal punto il proprio luogo, se la luna è offuscata da luci artificiali, se all'ascolto del fruscio degli alberi e degli uccelli notturni si sostituisce musica violenta, allora il mondo è perduto. Ed è un piccolo esempio fra i grandi che devastano il mondo e di cui ci dicono gli economisti più consapevoli. Quanto più sento avvicinarsi la decadenza e la fine della mia vita personale, tanto più vorrei felice e piena di speranza quella dei giovani.

Pensi che tu, come rappresentante di una generazione più adulta, sei corresponsabile?

Certo. Non posso costruirmi un passato esemplare, né un presente esemplare. Tuttavia per formazione, per necessità e per scelta, non sono mai stata consumista, né nell'accumulare beni, anche futili, né nel deturpare la natura. Per esempio non ho mai avuto una macchina, né una lavastoviglie e le mie vacanze si svolgevano in luoghi appartati e non toccati dal turismo di massa che raggiungevo in autostop, bicicletta, treni, traghetti, alloggiando in povere case d'affitto, ostelli della gioventù, tende. E già negli anni '60 i miei amici e io avevamo l'abitudine di ripulire le spiagge non solo dei nostri rifiuti, ma anche di quelli degli altri. I grandi viaggi intercontinentali che ho fatto (Repubblica Popolare Cinese, Canada francese, Australia, Sahara) non sono mai stati turistici, all'insegna per esempio di Avventure nel Mondo, ma sempre con uno scopo politico o culturale. Piccoli gesti, che non sempre compi e che comunque non giustificano irresponsabilità maggiori.

Hai anche cercato di contrastare questo andazzo con il tuo lavoro sociale con i bambini e gli analfabeti dei vicoli di Napoli, con la tua collaborazione fin dagli inizi degli anni '60 all'AIED, dove, come mi hai raccontato una volta, insegnavate alle donne a usare il diaframma anche di nascosto dai mariti, con le tue iniziative sociali verso i Disoccupati Organizzati, negli anni '70, dopo il colera, con la tua testimonianza sull'esperienza basagliana di Trieste o con la tua solidarietà espressa verso il popolo sahrawi, in esilio dal '75.

Come donna, come persona, come napoletana sono stata sempre impegnata nella questione sociale, poco dal punto di vista ideologico molto a livello concreto. La sinistra ufficiale, soprattutto quella comunista, tranne eccezioni, ha spesso considerato le nostre iniziative come inutili – la classica goccia nel mare – o addirittura le ha contrastate. Per formazione politica appartengo al filone del socialismo libertario – la mia tesi di laurea su Proudhon fu pubblicata nel '65 sulla rivista anarchica VOLONTÀ, fondata da Giovanna Berneri, il cui marito Camillo fu ucciso durante la guerra di Spagna dagli stalinisti. Ovviamente ho salutato tutte le rivoluzioni sociali, da quella di Masaniello e di Cromwell alla rivoluzione francese alla Comune di Parigi a quella bolscevica. E naturalmente la lunga marcia di Mao. Ma il potere è una brutta bestia, logora e corrompe chi ce l'ha. Per me esercitare il potere significa che già mentre lo eserciti lo condividi e lo estendi a quanti più individui possibile.

E secondo te come si combatte il potere?

Tanto i grandi poteri, che provocano guerre fra popoli, opprimono le libertà individuali, ignorano il senso del limite, quanto quelli quotidiani, familiari o amicali, si combattono con l'immaginazione, la facoltà di immedesimarsi nell'altro, popolo o singolo che sia. E soprattutto con la diffusione dell'istruzione e della cultura – la vera cultura che non ha niente a che fare con l'indottrinamento ideologico o con l'uso che ne fanno sempre più i mezzi di comunicazione di massa. Se fossi un ministro della pubblica istruzione introdurrei già all'asilo l'insegnamento della musica classica antica e moderna, che con il suo metalinguaggio unisce invece di dividere. Kafka sosteneva che la cosa più difficile al mondo sono i quotidiani rapporti umani. Penso che se questi migliorassero, ci sarebbero meno guerre. La pace comincia in casa, nella comunità, nella polis.

Che cosa hanno significato nella tua storia le parole pace e guerra?

Da bambina ho sperimentato i bombardamenti tanto durante la guerra di Spagna che poi a Napoli nel '44. E ancora oggi non sopporto i botti di capodanno. Ora che vivo a Itri sono circondata da rovine che risalgono ai bombardamenti durante la battaglia di Montecassino. L'unica battaglia che mi piace è quella del nobile Hidalgo contro i mulini a vento.

Credi al male?

Certo, ma non in senso religioso, piuttosto in senso leopardiano. Ricordo una frase di Brecht: "La madre delle guerre è sempre incinta", che volgo in "La madre dei cretini è sempre incinta". Per me il male maggiore risiede nella stupidità umana. Anche nell'abuso della parola pace. Ricordo la lapide, nel cimitero di Poggioreale a Napoli, del padre di una mia vecchia amica, fondatore alla fine dell'Ottocento del Partito Socialista. "Non riposa in pace. Finché…". Ecco io non riposerò mai in pace, finché…

E quindi non credi in Dio?


Faccio mia la frase di Simone Weil: "Cercandomi, sedesti stanco". Penso che ciò che chiamiamo Dio sia presente in tutte le creature animate e inanimate e che ci renda consapevoli della nostra finitezza.

Come riconosci la tua finitezza?

La riconosco tanto nei limiti del mio corpo che della mia facoltà di comprendere. E più in generale nei limiti della conoscenza e del sentire umani. Mi riconosco nel bambino piccolo che chiede continuamente: perché perché?

Ti è mai stata mossa l'accusa di essere egoista?

Sì, ma credo ingiustamente. Se avessero detto egocentrica o egotista mi sarei riconosciuta.

Perché?

Perché credo che nell'accezione comune egoista significhi il contrario di altruista, qualcuno cioè che pensa solo meschinamente a se stesso o che pretende di rendere il mondo intorno a sé simile al proprio. Mi riconosco piuttosto nella definizione di egocentrica o stendhaliana di egotista: essere centrati su se stessi, tanto nel tentativo di "conoscere te stesso", quanto in quello di immaginarti diverso da te stesso. Questo non significa che non abbia peccato di egoismo. Come mi accade con il mio gatto, l'unico essere vivente con cui vivo stabilmente. O con le piante, quando sono troppo pigra per staccare le foglie secche. Ma se per egoismo la gente intende egocentrismo, m'inalbero prima, talora sono anche volgare nel linguaggio, ma poi tendo a ritirarmi sempre più.

A proposito del ritirarsi, a me sembra che, quando ti ho conosciuta circa una ventina di anni fa, tu ti ritiravi meno dal mondo, anche a Berlino.

E' vero. Ma se penso alla mia infanzia, adolescenza, età adulta il momento del ritiro in me stessa conviveva con un atteggiamento panico verso la natura soprattutto, ma anche verso gli altri esseri, animali o umani. In questo senso ero divisa, e lo sono ancora.

Non senti alcuna nostalgia verso il passato, non ti conforta il fatto di aver prodotto un'opera letteraria?


La nostalgia verso il passato è un inutile ingombro. Non può tornare e ne prendo atto. Trovo ridicolo o tragico voler prolungare giovinezza o vita, come è tanto di moda oggi. Per quanto riguarda l'opera scritta, è là. Io di norma non mi rileggo. Né sono in grado di giudicarne il valore o disvalore.

Quali sono le ragioni primarie che ti hanno indotto a scrivere?

Alcuni esempi familiari e la passione per la lettura. E la mancanza di educazione, di stimoli e di doti in altri ambiti culturali, come l'arte e la musica. Poi la curiosità per le parole, accresciuta dalle tante esperienze linguistiche dell'infanzia e della prima adolescenza: l'italiano, lo spagnolo, il catalano, il napoletano, il francese.

Per te la scrittura ha avuto anche una funzione terapeutica?

Certo, è un modo per elaborare il dolore, per abbandonarsi alla gioia panica, per disciplinare emozione e immaginazione attraverso un paziente esercizio artigianale.

C'è nella memoria della tua infanzia, e del tuo passato in generale, un nucleo che ancora resiste e si oppone alla trasposizione estetica?

Penso che ci sia, ma non so quale sia questo nucleo di resistenza. Conosco invece un'altra mia resistenza: quella di scrivere a comando o su ordinazione, non solo di altri, ma della mia propria volontà. Una domanda spesso rivoltami e che detesto è questa: che stai scrivendo, stai preparando un nuovo libro? Come se fossi un'impiegata della scrittura e non potessi mai andare in ferie o in pensione. Come se tutta la mia vita fosse ridotta all'esercizio di un mestiere.

C'è un nesso tra la tua reticenza a parlare nei tuoi libri del periodo trascorso in Savoia, e la morte di tuo padre?

Sono vissuta in Savoia dagli undici ai tredici anni, frequentando le scuole francesi, e poi vi sono tornata spesso. Qui è avvenuta la mia fondamentale formazione letteraria e sentimentale. Il francese è la mia seconda lingua e infatti l'ho insegnata per anni. Ma c'è stato un grande trauma: la morte nel '50 di mio padre davanti a mia madre e a me. A proposito della reticenza ti racconto questo episodio: quando Natalia Ginzburg, stimolata da Laura Gonsalez, Carlo Cirillo, Elsa Morante, leggeva il dattiloscritto del mio romanzo Althénopis, mi consigliò di ampliare le pagine dedicate a mio padre, pensai, ma non osai dirglielo, "non ti rendi conto che non si tratta di ampliare o migliorare la descrizione di un personaggio, ma che si tratta della rimozione di un trauma profondo!" Per molto tempo ho sentito che la morte di mio padre equivalesse all'avermi abbandonata. Solo dopo, con un grande sforzo psicologico, sono riuscita a non mettermi al centro del mondo rispetto a lui, ma a considerarlo indipendentemente da me e gli ho dedicato un racconto contenuto nella raccolta Storie di patio dal titolo "Il prefetto Luigi Ferdinando Baldaro". Anni dopo gli ho dedicato un capitolo nel libro In viaggio.

Fra i tuoi libri ve ne sono alcuni di marcato impegno sociale come: "I disoccupati organizzati. I protagonisti raccontano" (Feltrinelli, 1977), "Polisario. Un'atronave perduta nel deserto" (Gamberetti, 1997), "L'isola dei bambini" (Edizioni e/o, 1998), "Passaggio a Trieste" (Einaudi, 2000), mentre tutti gli altri, tematiche autobiografiche a parte, sono opere di immaginazione. Perché questa dicotomia?

Credo corrisponda al mio modo di essere nel mondo. D'altra parte una delle difficoltà che incontrano i lettori e i critici rispetto ai miei libri è quella di non riuscire a catalogarmi in un filone preciso: non è una scrittrice napoletana, non è un poeta, non è una drammaturga, non è una saggista, non è una romanziera. Ma perché si dovrebbe entrare in un solo cassetto? In quale cassetto chiuderesti ad esempio Pasolini?

Che cosa ti ha spinto a scrivere con Mario Martone le sceneggiature di Morte di un matematico napoletano e dell'episodio "La salita" nel film collettivo I vesuviani?

E' stata una fortuita e fortunata coincidenza. Mario mi chiese di collaborare alla sceneggiatura del "Matematico" e io all'inizio rifiutai. Poi accadde qualcosa in me: il matematico Renato Caccioppoli era stato grande amico di gioventù di mia madre e di alcuni zii e zie e rappresentava un mito giovanile per me perché era a Napoli un outsider come mi sentivo io stessa negli anni '50

E il teatro?

Ho scritto varie pièces teatrali di cui due soltanto rappresentate e pubblicate, le altre sono nel cassetto. Non so se un giorno avrò voglia di tirarle fuori.

Sembra quasi che in te il mestiere di scrittore sia nato sulle ceneri del tuo lavoro sociale e politico. O non trovi che sia così?

Non è così. Ho cominciato a scrivere racconti, romanzi e poesie fin dall'adolescenza e ho continuato anche durante gli anni più intensi del mio impegno sociale e politico. Ho solo pubblicato tardi.

Come è avvenuto l'impatto con la scrittura?

Dopo aver sperimentato la differenza tra parole e cose, che non corrispondevano, prima in Spagna e poi nella penisola sorrentina, durante gli ultimi bombardamenti tedeschi, è accaduto in Francia che, come per miracolo, parole e cose cominciassero a coincidere. Ero adolescente e la lingua francese è diventata la mia lingua. Verso i quattordici quindici anni ho scritto le mie poesie in francese. Solo a fatica e molto più tardi ho avuto dimestichezza con la lingua italiana. Nell'intrico di lingue nel quale ero vissuta, a cui bisogna aggiungere poi il tedesco, e nel disordine dei miei studi di base e poi universitari, la letteratura italiana mi era poco nota, anche a causa dei pessimi insegnanti. Tramite mio marito e i suoi amici, ma prima ancora nei viaggi in autostop con un mio cugino durante i quali leggevamo Montale Ungaretti e Campana, ho letto Ariosto Tasso Dante Leopardi. Ma tra i miei grandi momenti d'introduzione alla letteratura italiana c'era anche un prete spretato napoletano, che mi chiese di battere a macchina sotto dettatura un suo saggio su Dante e che, stimolato dalla mia ignoranza, generosamente rinunciava alla sua segretaria per leggermi la Commedia e spiegarmela. Era quello, verso la fine degli anni Cinquanta, un tempo felice in cui chi nel PCI chi nel PSI – litigando ovviamente – si leggevano i poeti, Lorca Neruda Prévert Majakovski, si mangiava insieme, si sbevacchiava poco: poesia e politica avevano il sopravvento su alcol e sigarette. Al circolo del cinema veniva Nazim Hikmet, che ci introduceva in altri mondi. E con l'immaginazione si andava oltre la nostra misera politica italiana e napoletana.

Quali sono stati gli scrittori più importanti per la tua formazione letteraria?

Tanti, nell'adolescenza soprattutto i russi e i francesi. Poi quelli che ho nominato. Infine a metà degli anni '60, durante il mio secondo soggiorno milanese, vi fu per me la scoperta di La cognizione del dolore di Gadda. A quell'epoca scrissi la terza parte di Althénopis, rimasta tanti anni nel cassetto e poi raggiunta dalla prima e dalla seconda parte.

Dunque, vi era stato già un periodo milanese.

Sì, il nostro piccolo gruppo amicale e/o coniugale alla fine del '59 si era trasferito a Milano in cerca di lavoro, come tanti napoletani. Nonostante fossimo tutti molto poveri, fu un periodo felice. Tonino venne assunto alla Motta, che lasciò dopo appena un mese: era seduto dietro un tavolino e doveva contare i panettoni che gli passavano davanti su un montacarichi, che spesso doveva rincorrere. Scherzava sulle scritte alla Mensa, volgendole in decalogo: Non nominare il nome di Motta invano, non desiderare la Motta altrui, non motteggiare… Era stato raccomandato dal futuro suocero per entrarvi e quando si licenziò il suo dirigente gli disse: Lei sputa sul pane. E lui replicò: No, sul panettone. Mario invece non fu assunto alla Pirelli perché comunista. Livio ora faceva il soffiatore di vetro in una fabbrica di bottiglie, ora faceva il correttore di bozze all'Avanti. Mio marito faceva il garzone di bell'aspetto presso mia zia, che aveva un magazzino di antiquariato in Via della Spiga. Trascorrevamo le serate alla trattoria dell'Angelo e al Bar Giamaica a Brera, che allora non erano chic come oggi, ma frequentati da operai e studenti poveri. A Piazza Duomo si discuteva fino all'alba con le persone più strane. Io, ho tradotto tre libri, uno al nero su Kokoschka, due con la mia firma, per Il Saggiatore e per Schwarz. Poi ho lavorato come segretaria presso una società che vendeva a ricchi tedeschi e milanesi appezzamenti di terreno nell'allora costruenda Brasilia. Ma risultò un imbroglio, vendevano pezzi di foresta vergine. Una mattina dinanzi all'ufficio trovai la polizia. Per fortuna, essendo un piccolo impiegato, non fui implicata. Devo anche dirti delle mie difficoltà per trovare un lavoro di segretaria con conoscenze di tre lingue, dattilografia e stenografia. Superati brillantemente colloqui e prove, misteriosamente non venivo accettata. Questo perché da poco era stata varata una legge che tutelava le donne durante la gravidanza e dopo. E siccome ero sposata, temevano una gravidanza e non assumevano. Insomma fatta la legge, creato l'inganno.

Insomma, mi sembra che Milano sia stata importante per te.

Quell'anno sì. Mentre nel 68-69 rincorrevo la città di dieci anni prima. Era già tutto cambiato. Ma tra le città italiane dove sono vissuta e che prediligo, ho amato Milano per la sua carica umanitaria, socialista, industriale, mentre ho sempre detestato Roma.

Perché?

Forse a causa della "romanità" fascista. Forse perché centro del potere pubblico, amministrativo, religioso. Forse perché avrei auspicato, come sosteneva Braudel, che la vera capitale d'Italia avrebbe dovuto essere Napoli, la porta dell'Occidente verso l'Oriente e dell'Oriente verso l'Occidente. Mi ha sempre colpito poi l'epigrafe di Savinio al suo saggio su Maupassant: "Maupassant era un romano". Che mi spiego con la differenza che traccia Gadda tra Eros e Priapo. A Roma sento Priapo, a Napoli Eros.

Ma prima del tuo periodo milanese c'è stato quello tedesco, dal '54 al '57.

Sì, con alcune interruzioni, viaggi in autostop attraverso l'Europa, brevi soggiorni romani. Quello che avevo da dire l'ho scritto nel Taccuino tedesco. La mia esperienza con la Germania non può essere chiusa dal momento che i miei due nipotini vivono con mia figlia a Berlino e sono bilingui. Ma da molti anni, quando vengo a Berlino, mi sento come una casalinga italiana o turca in visita ai parenti. Non sono più curiosa. Come detesto la vita cultural-mondana in Italia – anche per questo vivo a Itri – così la detesto in Germania. Anche se ogni paio d'anni vi presento i miei libri. Ma più per ragioni di mercato che per altro. Come sai, una certa critica mi apprezza, ma vendo poco. Berlino mi piace d'estate, quando si può andare ai laghi. Come il Sud Italia quando si può andare al mare in luoghi protetti dalla folla.

Ti capita qualche volta di soffrire la solitudine?

No. Soffro di troppa famiglia – se se ne estende il senso agli amici. Ai tanti compagni di strada conosciuti nel corso della mia vita disordinata e poco lineare negli amori, nelle attività sociali, politiche, culturali. Forse è stato tutto troppo, tante vite in una sola. Un'immensa folla di vivi e sempre più di morti, nella quale mi sono aggirata. A cui bisogna aggiungere i tanti scrittori letti, di cui riconosco i volti, come se fossero vivi. Perciò non sono sola. Ma vorrei esserlo di più. Me ne accorgo quando mi concentro. Anche su una sola parola. E questa parola scaccia i troppi fantasmi.

E quale parola sceglieresti in questo momento?

Non più il vetruzzo approdato sulla spiaggia, che reca le tracce di tante vite umane. Ma un piccolo semplice sasso in cui è inscritta la storia dell'universo, che mi è ignota.

Nota
Questo colloquio, che ne avrebbe dovuto includere numerosi altri per espandersi e dar luogo a un libro-intervista, come era nostra intenzione fin dal primo momento, è ciò che oggi rimane dopo l'improvvisa scomparsa di Fabrizia Ramondino, maestra di impegno e di scrittura, oltre che carissima e insostituibile amica, avvenuta nello scorso giugno.

01 luglio, 2008

Appello dei cittadini per un'ordinanza a favore della raccolta differenziata d'emergenza dei rifiuti a Napoli

Questo è il testo dell'appello promosso da Antonio Risi e da me e che è stato oggi pubblicato da Repubblica Napoli.
Chi volesse sottoscriverlo può aggiungere il suo nome nei commenti.


Napoli soffre da troppo tempo la "crisi dei rifiuti". Come cittadini riconosciamo e individuiamo le responsabilità in scelte sbagliate. Ma oggi è più importante rendere pubblica la volontà di tanti cittadini della città a sostenere soluzioni di buon senso.
Siamo, infatti, convinti che l'uscita dalla crisi è possibile se vi è l'immediata attivizzazione di noi cittadini per differenziare i nostri rifiuti. E pensiamo che sia un errore parlare di "discarica per rifiuti tal quali", categoria negata dalla normativa nazionale ed europea. Per essere coerenti con le direttive europee e gli obiettivi di Kyoto, infatti, i rifiuti possono essere conferiti in discarica solo dopo essere stati vagliati, pre-trattati e campionati e comunque la discarica deve prevedere un sistema di recupero del biogas o un impianto di stabilizzazione della frazione organica all'ingresso.
Tuttavia, nell'amministrazione della nostra città, si continua ad affermare l'idea che prima si risolve l'emergenza, in via ancora una volta straordinaria e in deroga alla norma vigente, mettendo tutto per ora "tal quale" nelle discariche per togliere i rifiuti dalla strada e solo dopo si può pensare a una diretta responsabilizzazione di noi cittadini.
Noi pensiamo, invece, che è possibile essere subito propositivi e attivarsi e, al contempo, andare finalmente nella direzione della legge e delle indicazioni europee. Pensiamo anche che i cittadini se lo attendono, che lo reclamano. E non in un solo quartiere in via sperimentale ma in tutta la città. Perché molti, nonostante tutto, continuano a differenziare. Perché, negli anni passati, in molti abbiamo mostrato di saperlo fare. Perché nelle nostre famiglie che vivono in comuni in cui si differenzia vediamo che funziona. Perché non vogliamo più rimandare l'apertura di un fronte civile. Perché la nostra volontà di reagire non può essere commissariata come tutto il resto. Perché siamo cittadini italiani ed europei come gli altri e sappiamo assumerci impegni e responsabilità in modo diretto e costruttivo.
Vogliamo differenziare subito. Contro l'idea di "rifiuti tal quali".
E' ora di dare risposta ai nostri sentimenti di esasperazione e frustrazione e a uno stato di minorità. Vogliamo partecipare a un segno collettivo di speranza e soluzione. E chiediamo, semplicemente, di essere messi alla prova e che sia perciò immediatamente emanata un'ordinanza che proibisce dal primo luglio - su tutto il territorio comunale - il conferimento di rifiuti indifferenziati ed imponga, come avviene in altri luoghi della Campania, che tutti i rifiuti siano conferiti separatamente e solo nei sacchi e nei contenitori forniti dal Comune stesso.
Non pensiamo, evidentemente, che in un mese a Napoli si possa ottenere la raccolta differenziata vera e propria. E sappiamo che organizzare il "porta a porta" richiede più tempo.
Intanto, però, a partire dal primo luglio - per rispondere all'emergenza estiva - tutti i cittadini possano essere chiamati con forza a conferire i loro rifiuti organizzandoli in diversi contenitori e sacchi forniti dal Comune:
- uno piccolo per i rifiuti pericolosi (pile, medicinali, acidi, solventi, vernici ecc.) che possono essere raccolti una volta a settimana,
- uno grande traslucido che contenga - uniti o, a loro volta già differenziati al suo interno - plastica, alluminio, vetro, carta e cartoni e che può essere raccolto due volte a settimana
- e soprattutto uno piccolo dove mettere ogni giorno il materiale organico, ovvero quello che puzza, marcisce e non si può tenere a lungo in casa, soprattutto d'estate.

Siamo convinti che il risultato potrebbe essere positivo in modo sorprendente e che, comunque, tali semplici misure darebbero un segno di speranza e civismo e che questo non entrerebbe in contrasto con tutte le iniziative volontarie attivate o da attivare (campane per il vetro e per le plastiche, raccolta di cartoni e imballaggi commerciali, raccolta porta a porta in quartieri pilota, isole ecologiche, convenzioni con le scuole o con le parrocchie, ecc.). Anzi, le esalterebbero.
Se si agisce così subito forse il sistema di raccolta e smaltimento non sarà ancora in grado di svuotare le strade dai sacchetti. Ma almeno vi saranno più sacchetti ben confezionati e meno monnezza "tal quale", un segnale di avvio di qualcosa, che i cittadini vedranno in TV, che i nostri figli potranno registrare.
Se si agisce così subito non vi sono contro-indicazioni di merito. L'avvio immediato della differenziazione, come provato dalla vicenda dei cartoni che ha subito dato risultati, riduce comunque la probabilità che il sistema di raccolta e smaltimento collassi. Separare i rifiuti pericolosi, quantitativamente limitati, comunque ne favorisce il corretto smaltimento. Spedire i sacchi non organici in Germania o anche in impianti più vicini comunque sarà più facile e più economico. E i sacchi dell'organico saranno trattati comunque con maggiore efficacia e senza produrre ecoballe dagli impianti ex CDR giustamente dedicati alla stabilizzazione della frazione organica.
Ma più importante ancora: si tratta di un'azione educativa, simbolica e di riscatto che non è più dilazionabile. E se Napoli compirà questo piccolo miracolo sarà forse più facile anche trovare un accordo con le altre località individuate per realizzare presto un sistema di discariche di standard europeo, localizzate con criteri razionali in aree a bassa densità abitativa e buone condizioni idrogeologiche.
Perciò noi chiediamo, noi speriamo che il Comune di Napoli accolga questo appello a un'ordinanza municipale per la "raccolta differenziata d'emergenza".
Forse ci saranno zone della città che rispetteranno poco l'ordinanza - o forse no - ma, se daremo già queste istruzioni semplici e comprensibili, la stragrande maggioranza dei cittadini napoletani sarà felice di partecipare ad una azione di riscatto civile. Perché non ne possiamo più della puzza e dei roghi, perché tutti temiamo l'estate e perché vorremmo in tanti potere avere la possibilità di un'attivizzazione concreta, fatta con strumenti semplici, operativi che, ad oggi, non abbiamo avuto.

Valentino Alaia, Franco Adamo Balestrieri, Luciano Brancaccio, Antonio Centomani, Sara Celentano, Pietro Cerrito,
Maria Laura Chiacchio, Giuliana Chiaiese, Lino Chimenti, Stefano Consiglio, Maurizio Conte, Flavia Columbro, Giulio Corbo, Edoardo Cosentino, Mara D'Avino, Raffaele De Luca Tamajo, Bruno De Felice, Donato Di Donato, Elvira Di Donato, Raffaella Di Lauro, Antonio Di Nitto, Maria Donisi, Anna Esposito, Sergio Fedele, Patrizia Ferrandes, Carla Franco, Norberto Gallo, Adriano Giannola, Gabriella Gribaudi, Francesco Iacotucci, Teresa Iarrobino, Desirèe Kuhne, Giulia Larizza, Carlo Lauro, Daniela Lepore, Maria Liccardo, Caterina Loffredo, Fabiana Martone, Giovanna Martorelli, Mario Martorelli, Mario Mastrocecco, Aldo Masullo, Annalisa Mignogna, Paolo Monorchio, S. Morra, Ida Napolitano, Carla Orilia, Rossella Paliotto, Sara Parlato, Roberto Pennacchio, Emilia Perriello Zampelli, Enrico Rebeggiani, Antonio Risi, Danilo Risi, Pina Romano, Marco Rossi-Doria, Nunzio Rovito, Sara Santorelli, Dario Scalella, Dario Scognamiglio, Raffaele Settembre, Serena Taglialatela, Anna Talotti, Roberto Vallefuoco, Susi Veneziano, Andrea Vitolo.

Tiemp bell ‘e na vota

Città di Napoli, ottavo anno del secolo, primo dì del mese di luglio. Faceva caldo. E puzzava davvero la monnezza sulle strade di molte periferie e anche del centro. Ormai da mesi e mesi. Tanto che erano sparite le foto sui cartelloni pubblicitari che mostravano la città linda e pinta in barba alla realtà. Neanche l’inventore di quella forma crudele di propaganda – uno scaltro assessore, esperto in un’arte di quel tempo, la “comunicazione” - osava più farli affiggere, tanto era stridente e dunque controproducente, ai fini della sua stessa arte, il rapporto tra quel che i cartelloni mostravano e le stimolazioni che la monnezza recava alla vista e all’olfatto dei cittadini da così tante settimane.
Monnezza era il termine – un nome comune collettivo, usato al singolare, come si fa ancor oggi per altre entità plurali quali gregge o squadra - che allora era d’uso per definire quel miscuglio malodorante fatto, appunto, di più cose: plastica, carte, cartone, rifiuti organici, vetro, acidi, copertoni, ferraglie, materassi e quant’altro. Perché allora in quel di Napoli si usava ancora mettere insieme cose così diverse che si erano consumate mentre in tanti luoghi di Ponente e di Levante già si trattavano in modo differente e secondo le nature diverse di ogni cosa. E in quel di Napoli si usava ancora allora, inoltre, gettare tale monnezza per le strade in buste. Sì, per le strade. Perché le discariche – luogo dove, in barba alla stessa legge di allora si accumulava questa stessa collettiva monnezza tal quale – erano stracolme da anni in quelle lande; ed era divenuto vieppiù difficile trovarne altri di luoghi adibiti a queste discariche senza che gli abitanti delle zone attigue si ribellassero per il gran tanfo che questa monnezza emanava.
Così le buste che contenevano tal monnezza stazionavano per lunghi giorni in mezzo alla città, nei pubblici spazi, in quel avvio di luglio napoletano. E si aprivano. E riversavano il loro multiforme contenuto per le strade, dove, appena pioveva la monnezza prendeva la via dei tombini, allagando le carreggiate regolarmente mentre quando v’era il solleone, come in quelle giornate, le buste e i suoi contenuti venivano bruciati da cosidetti vandali per coprire con la puzza della plastica accesa il tanfo che emanavano. Ma quella plastica bruciata diffondeva a sua volta nell’aere la diossina, una sostanza assai nociva, che invadeva i polmoni soprattutto di anziani e bimbi e contribuiva a favorire dolorose malattie mortali. Quando, invece, ristava per strada, la monnezza nutriva ratti e gabbiani che, ingurgitandola, divenivano giganteschi e ogni tipo di insetti, protozoi, batteri, pronti a colpire animali e umani con infezioni che recavano nomi arcaici: tifo, salmonella, scighella, colera, giardia.
Mentre tutto ciò accadeva, nella fresca brezza della Svizzera a oltre mille chilometri più a Nord, dove la monnezza veniva da tempo già trattata come si conviene, Sofia Loren, una talentuosa attrice e dama di gran portamento di quel tempo, dalla lunga e premiata carriera e ormai già avanti negli anni – che viveva in una villa di lusso a Ginevra e naturalmente possedeva ricche case in ogni dove – veniva a sapere, grazie a un foto inviatele non si sa da chi, che la sua casa d’infanzia in quel di Pozzuoli, mai frequentata negli ultimi settanta anni né di sua proprietà, era circondata, appunto, di monnezza, cosa che le doleva assai.
Povera ignara era, tuttavia, della bella novella. Nessuno, infatti, le aveva comunicato che in quegli stessi giorni la Signora sindaco della bella città di Napoli aveva già provveduto a tutto risolvere riguardo alla monnezza poiché aveva deciso di fare costruire un inceneritore di monnezza ad Agnano, antico luogo termale non distante da Pozzuoli. Sì un inceneritore, detto termovalorizzatore perché, se mai la monnezza non fosse stata umida, il suo bruciare, entro apparecchi in luoghi chiusi, poteva produrre energia. Termovalorizzatore, o, per gli amici, Termo, semplicemente. Così lo si chiamava. E l’eccitamento era stato tale – all’annuncio della Signora sindaco - che qualcuno tra i suoi consiglieri aveva gridato: ecco il Termo di Agnano, in luogo delle vetuste Terme di Agnano. E qualche altro, preso dal medesimo entusiasmo, aveva iniziato a disquisire, sui giornali locali, circa le forme che l’edificio del Termo stesso avrebbe potuto assumere: a guisa di guglie vistosamente colorate, secondo lo stile d’Oriente o dalle forme più lineari e sobrie secondo mode architettoniche più in uso in Occidente. Nel clima generale, sempre più entusiasta, la Signora sindaco della bella città di Napoli, indifferente all’olezzo che il bruciare del sole di quei giorni e i fumi della famigerata diossina spargevano per la città, aveva organizzato una visita guidata per assessori e membri del consiglio comunale, a un Termo molto lodato in quel tempo, sito in quel di Brescia, che pareva divorasse monnezza come un dragone. Le spese di andata e di ritorno erano a carico dei contribuenti perché si trattava evidentemente di un sopralluogo di pubblica utilità in vista della realizzazione del Termo di Agnano.
Ma di tutto questo fattivo ed entusiasta operare la signora Loren, nella sua magione elvetica, nulla poteva sapere e dunque – pare – non riuscisse a darsi pace per la sorte capitata alla sua casa natìa. Nè poteva gioire la signora Loren del fatto che il Termo di Agnano sarebbe stato eretto, con un decor o con un altro, nei tempi consueti e comunque entro il primo quarto del secolo con buona probabilità. Né poteva felicitarsi la signora Loren del fatto che, intanto, entro il tredicesimo anno del secolo e dunque con indispensabile ponderatezza, ogni parte della monnezza si sarebbe potuta dividere l’una dall’altra anche a Napoli - come riconosceva certo Signor Mola, un solerte assessore di allora - così come tanti già da tempo avevano appreso a fare nella stessa città, nonostante che la Signora sindaco e il signor Mola stesso, giustamente prudenti, ritenessero tale pratica certamente saggia ma del tutto prematura e nonostante che già si operasse in tal modo da mezzo secolo nelle città dell’Universo Mondo e ormai da tempo anche nei borghi vicini alla bella Napoli. Né poteva avere soddisfazione l’elegante signora Loren – nella sua lontana Ginevra – del fatto che, in attesa del tredicesimo anno del secolo, l’esercito, entro qualche mese, avrebbe aperto, manu militari e anche a rischio di qualche ferito o peggio, una vecchia cava, fortunatamente lontana dalla natìa e sempre amata Pozzuoli, ove la monnezza, intanto rimasta tale e quale e dunque ancora degna del suo esser nome collettivo, poteva ristagnare a lungo, così come avveniva, in altre cave o grandi scavi, da dieci lustri almeno in giro per quella Terra felice.

23 giugno, 2008

Fabrizia Ramondino


Stasera è morta sulla spiaggia vicino a Itri Fabrizia Ramondino.
Scrittrice, amica di tanti di noi per tanti anni.
Se ne va un pezzo di noi e siamo molto tristi.

Appuntamento: Per ricordare Fabrizia, a Itri domani giovedì 25. Prima in via San Martino alle 17,15, poi al castello.

Aggiornamento: ho scritto il pezzo che segue per Repubblica Napoli; Daniela ne sta raccogliendo molti altri dedicati a Fabrizia.

Il mondo è fatto strano. Capita di morire al contatto dei luoghi e tra i gesti a cui si è attaccati per piccolo piacere, mille volte ripetuto negli anni di ogni età trascorsa, per quella grazia della vita che è la consuetudine.
Fabrizia ha chiesto che le si facesse un caffè, da sorseggiare dopo il bagno a mare nel trascorrere del pomeriggio. Fabrizia adorava il caffè, l’attesa del caffè e il fatto che “quello uscisse”. Ma è morta sulla battigia prima del caffé, lei che amava fermarsi e stare sul bagnasciuga. Quante volte proprio tra mare e spiaggia con gli amici ha parlato, con le parole prese dai molti mondi che – come lei diceva – le avevano fatto da madre o da balia. Davanti al mare: quante cose adorabili e dolorose dei suoi libri rivelano l’anima del mare e la nostra con essa. Le piaceva il mare a Fabrizia. Nuotava e nuotava bene e a lungo, con quel crawl elegante, filiforme e tenace nonostante ogni cosa. Un po’ com’era lei e la sua scrittura: “lo stile della mia scrittura coincide con il mio corpo, contenitore fragile della dismisura”.
Fabrizia ci lascia e siamo addolorati. Perché le vogliamo bene. Perché con lei muore un pezzo di tante e tanti di noi; e di noi in questa città. Fabrizia Ramondino, infatti, è appartenuta a una schiera di persone che hanno dato a questa città un’asciutta testimonianza e un metodo di presenza civile. Per libera scelta disincantata. In faccia alla rudezza delle cose di Napoli ma “mischiata per mezzo” con esse. E oggi viene da ricordare le sue biografie dei disoccupati e le sue prese di posizione contro le mille esclusioni sociali che qui non hanno fine. E le sue giornate con i bambini della Torre a Quarto e della Pigna dove Fabrizia ha lavorato ogni giorno dalle 9 alle 16, per 6 anni, prendendo dalla vita gli argomenti per aprire con i ragazzi le vie del sapere andando con loro in giro, fermandosi poi in una stanza semivuota qualsiasi, tra campagna immiserita e periferia esclusa. E lavorando, poi, tutte le sere all’Aied quando educare alla contraccezione era un crimine in questo Paese, punito col codice penale e la galera. “Così - ricordava Fabrizia - ho celebrato il mio passaggio all’età adulta”. E’ stato un passaggio comune a tanti, ognuno nel suo campo e, poi, una presenza prolungata nel vivo delle relazioni sociali e civili della città. Persone di ogni ceto. E, sissignore, anche borghesi, “signori”. Perché, come una volta scrisse Fabrizia: “Se l’esempio non viene dai ‘signori’ essi non sono degni di essere tali”.
Con la morte di Fabrizia cade via ancora un pezzo di questa civile presenza. Generosa, fattiva, piena di errori, a volte profetica, certamente libera. E perciò radicalmente lontana dalle appartenenze ottuse, dalle convenienze e dalle servitù intellettuali che – come Fabrizia ben vedeva –hanno incupito la città.
Ma dobbiamo a Fabrizia altro ancora. “Straniera in patria” per storia di famiglia e vocazioni, Fabrizia ha saputo guardare a Napoli anche “di lontano”, aiutandoci a dire a noi stessi dove eravamo chiamati a vivere e ad agire. Ecco come lo spiegava - a se stessa e a noi - in un passaggio dei suoi Taccuni tedeschi: “Chi non è vissuto in una città balia ma solo in una città madre, difficilmente potrà comprendere come le ordinate costellazioni celesti a immagine dell’ordine terrestre – spirituale, sociale, politico – siano indifferenti al napoletano mentre nella via lattea egli ritrova quell’indistinto luminoso brulichìo, privo di forme e di nomi, quel caos chiaro e nutriente, specchio celeste della sua città”.
Ma soprattutto la dobbiamo ringraziare perché il “fare civile” disincantato nel mezzo del brulichìo di Napoli non ha distolto Fabrizia dal donarci i suoi romanzi e bellissimi racconti. Perché sapeva le vie che tengono unite eppure distanti le cose crude della vita e la tessitura della scrittura, che le trasfigura ogni volta. E anche per il suo ridere di cuore, all’improvviso, nel mezzo del suo non facile carattere e delle fatiche della vita. Per una frase, un ricordo, un episodio esilaranti.

Nonsolomonnezza

Per una volta telegrafico.
Consiglio l’articolo di Maugeri apparso sul Sole24ore. Parla dei fatti concreti che hanno connotato e connotano la cattiva amministrazione della nostra città. Come tante volte si è detto, qui e altrove: non è solo monnezza.
E non stavamo fuori di testa quando ci siamo opposti su tutta la linea.

18 giugno, 2008

Tempi bui davvero. E una poesia

Purtroppo il Berlusconi III non sarà il terzo tempo dello statista a cui chinarsi con il cappello in mano, come ha annunciato Bassolino.
Tutt’altro. La banda Berlusconi è quella cosa brutta – arroganza anti- liberale, distruttiva dei fondamenti della nostra fragile Repubblica, forza violenta con i deboli e debolezza con i forti, ignoranza greve e diffusa nella sua compagine per cui succederanno cose terribili…
Che iniziano a succedere, nel grande – come si vede innanzitutto dall’attacco ai più deboli, dall’idea dell’esercito per le strade e di continue e gravi leggi liberticide di emergenza (approvate dai nostri governanti campani), e poi dalle faccende che riguardano l’attacco alla magistratura per difendere i fattacci suoi, che fanno più scandalo ma non sono così gravi.
Ma anche nel piccolo. E nel piccolo (che piccolo non è) ecco una lettera ricevuta oggi che riguarda gli esami di maturità (in fondo io mi occupo prevalentemente di scuola), prova scritta di Italiano di stamattina:

Domani – e ce lo auguriamo – si scateneranno sui giornali le voci autorevoli dei critici di Montale per irridere l’analisi del testo offerta agli studenti nella prima prova dell’Esame di Stato. Ma varrà la pena anche di sottolineare la condizione in cui si sono trovati gli insegnanti di italiano che stamattina, nel rituale dell’apertura della buste, hanno visto spuntare l’ “osso” montaliano Ripenso il tuo sorriso. Una poesia molto bella, assente in genere dalle antologie scolastiche e, di conseguenza, presumibilmente non conosciuta dagli studenti. Anche a chi di noi quei versi non fossero immediatamente presenti nella memoria non potevano non apparire evidenti le incongruenze tra quel testo e le domande che guidavano l’analisi, imperniate per lo più sul ruolo salvifico della donna nella poesia di Montale. Ma chi ricordasse quella pagina degli Ossi di seppia, aperta per altro dalla dedica “a K”, inspiegabilmente omessa dal testo ministeriale, e la riconoscesse come una poesia dedicata al ballerino russo Boris Kniaseff, conosciuto dal poeta a casa dell’amico Francesco Messina, non sapeva davvero se, leopardianamente, far prevalere “il riso o la pietà”. E’ prevalso naturalmente il senso di responsabilità nei confronti degli studenti che non abbiamo voluto turbare con la notizia che quella che dovevano percorrere era una pista grottescamente falsa per l’analisi del testo. Ed abbiamo lasciato che impiegassero le loro menti giovani e fertili per rispondere a domande che chiedevano ragione delle immagini relative “al ruolo salvifico della donna” presenti nella prima strofa della poesia o di interpretare “la ‘pensata effigie’ della donna”. Per non dire del così detto “approfondimento”, in cui si chiedeva di sviluppare il tema del “ruolo salvifico e consolatorio della figura femminile” presente in altre opere di Montale o di altri scrittori. Quando gli studenti sapranno in quali condizioni sono stati messi stamattina, non potranno non riflettere sulla sfasatura tra l’attenzione e il rigore con cui, in generale, la scuola li abitua a leggere i testi letterari e la cialtroneria che presiede alla compilazione delle prove di un esame tanto ancora retorico e pomposo nella forma quanto becero nei contenuti culturali sigillati nelle buste ministeriali. E non potremo che rispondere che la filologia, nel suo senso più alto di accertamento del dato, di rigore metodologico, di cautela, non appartiene a chi ci governa. Bologna 18 giugno 2008

Gabriella Fenocchio, Barbara Rosiello, Maria Luisa Vezzali, Paolo Ferratini

L’unica cosa che lenisce, ma solo un po’, è rileggersi la poesia di Montale.

A K. Ripenso il tuo sorriso, ed è per me un’acqua limpida
Scorta per avventura tra le petraie d’un greto,

esiguo specchio in cui guardi un’ellera i suoi corimbi;

e su tutto l’abbraccio d’un bianco cielo quieto.


Codesto è il mio ricordo; non saprei dire, o lontano,

se dal tuo volto s’esprime libera un’anima ingenua,
o vero tu sei dei raminghi che il male del mondo estenua

e recono il loro soffrire con sé come un talismano.


Ma questo posso dirti, che la sua pensata effigie

sommerge i crucci estrosi in un’ondata di calma,
e che il tuo aspetto s’insinua nella mia memoria grigia
schietto come la cima d’una giovinetta palma…

15 giugno, 2008

Doppio compito?

Perdonatemi ma insisto. Si deve fare qualcosa.

Otto giorni fa, il giorno 6 giugno, dopo una seria riflessione, dati alla mano, ho fatto su Repubblica Napoli con Antonio Risi una proposta moderata, seria che metteva insieme le leggi normali e una proposta pratica di azione civica a favore di una prima differenziazione in questa città con il sostegno del Comune, che è a ciò preposto.
Questo approccio pragmatico ha avuto il sostegno di vari blog, di associazioni e singoli.

Ma poi: nessuno nell’amministrazione e nel consiglio comunale prende posizione ufficiale. Così si perpetua l’idea che la monnezza non differenziata per ora continui a finire “tal quale” nelle discariche, in barba a ogni legge vigente.
E l’assessore Mola? Ci si sarebbe aspettato che dicesse “buona idea”, “vediamo se si può fare, almeno in parte” “sosteniamo una prima mobilitazione su ciò”, “il Comune si farà supporter e dunque protagonista”.
Invece: in un’intervista risponde - sempre su Repubblica – che la questione della raccolta differenziata è già oggetto di piano…. Ed è previsto per il 2009 e oltre.
Tant’è. E il minimo che si può constatare è che ogni volta che nasce una proposta di pur timida attivizzazione, l’amministrazione anzicché caldeggiarla si concentra piuttosto sul fatto che si farà “ma dal palazzo e a tempo debito, nelle forme già individuate”. Alla faccia della partecipazione. E salvo spesso non riuscirci. Sostanzialmente non si crede che si possa contare sul civismo al quale, dunque, è inutile o pericoloso dare sponda operativa.
Qualcuno non crede che si tratti solo di una allergia alla partecipazione. Dietro vi sarebbe la convinzione che le discariche si stanno ormai aprendo e che importa se in esse di nuovo andrà la monnezza non differenziata “tal quale” …. Se si è in attesa di un poker di termovalorizzatori.
A me la dietrologia sta antipatica. Ma in questo caso è difficile respingere i cattivi pensieri.

E voila, nel bel mezzo di questa vicenda – attenzione! - dal governo in Roma vengono annunciati, invece, ben mille ”angeli della differenziata”. Mandati quasi a commissariare l’educazione dei cittadini proprio alla differenziata, che spetta, però, ai comuni. E allora l’assessore Mola s’arrabbia e grida, non senza formale ragione, che tocca a lui. Ma il suo tenue “ghe pensi mì” appare poco credibile di fronte alle trombe di palazzo Chigi. E ancor meno credibile dato che ha appena rimandato l’impegno dei cittadini per la differenziata al 2009 e oltre.

Un amico inglese che segue le cose di Napoli, di fronte a questi paradossi – farseschi se non ci fosse di mezzo la drammaticità delle cose – mi dice che quasi quasi sarebbe il caso di affiancare questi “angeli volontari” mandati dal governo (parte della protezione civile, pare) e di rivolgersi forse direttamente a Bertolaso per creare insieme - angeli mandati e angeli da attivare qui - una sinergia e così comunque avviare la battaglia contro la “monnezza in discarica tal quale” contrastando, al contempo, l’ennesima assurda dilazione di un po’ di sensata, normale differenziazione partecipata in questa città.

Ora lasciamo un attimo l’amico inglese. E riandiamo alle questioni costituzionali. Perché sono molto ma molto preoccupato a proposito dei recenti decreti sulla cosidetta sicurezza.
E cito Giuseppe D’Avanzo perché concordo con quanto egli dice:
“Berlusconi è intenzionato a dimostrare che - per governare la crisi italiana, come vuole che noi l'immaginiamo - è costretto per necessità a separare lo Stato dal diritto, la decisione dalla legge, l'ordine giuridico dalla vita. Come se il Paese attraversasse una terra di nessuno. Così critica, oscura e sinistra da rendere urgente e senza alternative un potere di regolamentazione così esteso da modificare e abrogare con decreti le leggi in vigore”.

Dunque, eccoci qui, nel mezzo di una situazione che è ben strana.
Il decisionismo emergenziale si fa pericoloso per lo stesso stato di diritto. Contemporaneamente, il nullismo dell’amministrazione locale (per non parlare del PD, vero fantasma e della sinistra, reclusa nel ghetto dell’antagonismo pur che sia) glissa, rimanda, di fatto nega sostegno a qualsiasi moto partecipativo sul tema dei rifiuti in questa città, manco fosse la peste il voler far qualcosa subito per differenziare.
Ma mentre il governo rende tutto emergenziale propone, al contempo, un impegno educativo e volontario sulla differenziazione, senza attendere il tempo che verrà come sostiene, invece, l’assessore Mola di Napoli.

E così - per i cittadini democratici e di buon senso – si pone un quesito: ci tocca il difficile doppio compito di avversare i pericoli della cultura dell’emergenza ma - una volta registrato l’ennesimo “niet” comunale - anche di non respingere le occasioni volontarie proposte dal governo per un’attivizzazione sulla differenziata se queste si mostreranno reali?

09 giugno, 2008

Non angustiare lo straniero

Da una persona amica di Milano:

“Oggi ho ricevuto una lettera da parte di un caro amico, Giorgio Bezzecchi.
Giorgio Bezzecchi è vice-presidente nazionale dell'Opera Nomadi e da anni lavora per la promozione sociale, politica e culturale dei rom a Milano. La sua famiglia vive in un campo a Milano, il padre è stato deportato in un campo di concentramento, a cui fortunatamente è sopravvissuto. Il nonno, deportato in un altro campo non è sopravvissuto. Domani tutta la sua famiglia sarà fotografata e schedata, conformemente alle attuali decisioni del prefetto che prevedono un rilevamento completo di tutti i rom residenti nel territorio milanese. E' stato deciso un rilevamento di identità da parte della polizia su base esclusivamente etnica.”

Non riesce a venirmi in mente che un solo commento:

“Non angustiare lo straniero: voi ben conoscete l’animo dello straniero, poiché stranieri siete stati nella terra d’Egitto”
Esodo, 23,9

06 giugno, 2008

Pizze al neon, talk show e la ricerca del senno

Non scrivo da oltre dieci giorni. Non giova certo il senso di stallo depressivo che s’incontra in città, in quest’atmosfera bassolin-berlusconiana. Pare di stare in una cattiva pizzeria: Tv color a palla, luci al neon intermittenti in modo fastidioso, decor volgare, cameriere particolarmente sgarbato, pizza cruda.

Sono stato la mattina in classe. Non è male tornare a scuola. Ho ripreso a girare per il mio quartiere, ad ascoltare le storie di qualche ragazzo perso di vista. Non ho guardato i talk show tv. E ho evitato pure di pensare più di tanto al dibattito sulla borghesia napoletana, trito e ritrito almeno dai tempi di don Giustino Fortunato. E’ come ricordarsi di avere per sbaglio ascoltato gli Intillimani una domenica mattina del 2001.

Comunque è davvero un brutto paesaggio - senza rappresentanza e men che mai partecipazione, come argomenta assai bene oggi Luciano Brancaccio.
La politica senza politica. Mala bestia. Per colpire chi l’ha così ridotta davvero ci vorrebbe il Dio degli eserciti.

Ma tant’è. E allora è forse una calma indignazione quella che serve. Essere testardamente ragionevoli. Trovarsi con chiunque pensi che altro è l’emergenza e altro e mettere a repentaglio i principi costituzionali sulla distinzione tra i poteri nello stato di diritto. Non fare di tutte le erbe un fascio e dunque saper distinguere – nelle grida di Chiaiano - i faticosi vagiti di preoccupata cittadinanza dal solito confuso urlare ideologico.

Ho sperato che almeno il dio delle piogge, ben meno potente di quello degli eserciti, ci lasciasse il sole di sabato e domenica per un po’ di mare ma che, negli altri giorni, spengesse, a furor di brevi scrosci, i fuochi alla diossina. Sono stato esaudito solo in parte. Va bene lo stesso.

Una calma indignazione ha bisogno di tempo, ancora una volta. E converrà attrezzarsi.
E anche di pragmatismo, quella speciale virtù filosofica anglosassone che non spinge verso “la Soluzione”, “la Lotta”, “la Grande scadenza” ma piuttosto preme, volta dopo volta, a cercare qualche idea sensata e possibile. Così mi sono banalmente concentrato su cosa fare ora – di sensato e di possibile – sul tema dei sacchetti che abbiamo in casa ogni giorno. E ho trovato soccorso in un amico che di queste cose si occupa, Antonio Risi. Ci siamo confrontati. Ecco l’articolo, uscito oggi, scritto insieme. Sulla difesa della legge e la possibilità di una differenziata di emergenza, che dia spinta civile.
N’copp o’ comun e’ Napule daranno un po’ di retta a una proposta fatta con sensata ragionevolezza?
Dubito. Ma è bene non demordere, stanare, provare.

26 maggio, 2008

Democrazia della forza o forza della democrazia

Vogliamo tutti che la monnezza se ne vada da sotto i nostri nasi. E tutti pensiamo che ci vogliono soluzioni anche drastiche perché questa storia è ben oltre ogni limite. Però… Ci sono dei però.

Il primo. Perché ci siano soluzioni drastiche serve la messa in discussione democratica dei responsabili politici locali. E non una loro messa in quarantena sulla base di un patto sotterraneo con il governo. Come la mette Giuseppe d’Avanzo (link a Repubblica di domenica): “Il governatore della regione Antonio Bassolino, giudicato ormai da queste parti alla stregua di un “dittatore africano” è preoccupato soltanto del suo destino politico in nome del quale si è felicemente abbarbicato al nuovo governo…”
Sì, qui si assiste a uno spettacolo paradossale e anche un tantino privo di decoro: il “bassolinismo” tutto intero, con accompagnatori a piedi e a cavallo - e non solo il suo inventore – dopo aver fatto uso del pericolo della destra, come spauracchio, volta dopo volta negli anni, per difendere i suoi equilibri interni e evitare o rallentare a dismisura ogni rigenerazione del centro-sinistra, oggi non solo rischia ma quasi saluta il ritorno di quella destra che da co-partecipe al medesimo sistema di potere in posizione seconda ne può presto diventare principale erede. Dopo aver arrestato ogni anelito di cambiamento nel nome del “nemico alle porte”, ci “porta”, insomma, in casa proprio la peggiore destra con l’aggravante di farlo in modo giulivo e servile. Questo gioco di malsana continuità va pur rotto. Per questo l’ho detto pubblicamente e più volte in tempo utile e lo ripeto anche se è tardi: se ne devono andare. Perché nella vita ogni cosa è credibile o meno anche in misura di chi la propone. Perché in democrazia è accettata l’idea che chi è politicamente responsabile per un grande disastro nella gestione della cosa pubblica deve lasciare; e non può pretendere di giocare i tempi supplementari avendo però perso quelli regolari 6 a zero.
Anche se questo costa il rischio del passaggio di comune, regione e provincia da sinistra a destra? – mi chiede un amico. Ahinoi sì. Perché il rischio c’è comunque, anzi ve ne è la quasi certezza, proprio grazie a costoro. E perché è anche l’unico modo sia di resistere a questa evenienza sia di ricostruire una qualche credibile prospettiva futura.

Il secondo. Si prospetta, intanto, un vero aggravamento delle condizioni di diritto entro le quali hanno luogo, in generale, soluzioni ai problemi civili dei cittadini italiani. Invito a leggere con attenzione vera il decreto del governo sui rifiuti campani, prontamente firmato dal Presidente della Repubblica e in via di attuazione intanto a Chiaiano. Che rappresenta non solo un fatto ma un precedente. In esso sia l’idea di classe politica locale che le sue prerogative che le procedure normali della democrazia sono cose gettate alle ortiche. A me non piace tutto ciò. Credo che si tratti della cosa più distante possibile dal decidere insieme. E dagli esempi virtuosi dei nessi tra partecipazione ed efficacia delle misure di cui, anche in materia di rifiuti, abbiamo molti esempi nel mondo: da San Francisco, California a Vico Equense, prov. Di Napoli. Ma riconosco come amaramente vero quel che dice Macry sul Cormez di domenica: non si potrà stare a lungo in un limbo del tipo “né con il decreto di Berlusconi né con la protesta di Chiaiano”. E so bene che tutta questa messa in discussione delle procedure democratiche deriva da un tremendo vuoto, sia decisionale che partecipativo, che il centro-sinistra campano ha cullato per anni. Mariano Maugeri la dice così: “l’autoritarismo è figlio solo dell’inerzia di una classe dirigente” dai “comportamenti così intimamente ambigui e manifestamente errati” che “gli psicoanalisti direbbero che si è vaporizzato il principio di autorità fondante dei consorzi umani”.

Nella speranza che intanto non avvengano cose davvero gravissime, forse ci si deve vedere a breve, come propone Daniela. E parlarne almeno. Un momento di pausa a Chiaiano come e per arrivare a cosa? La ripresa del dibattito sul differenziare sul serio a Napoli come e dove? il non arrendersi alla logica dell’emergenza o a quella del velleitarismo senza proposta, con chi? Insomma un piccolo forum delle vie ragionevoli. Se non il 2 giugno, festa della Repubblica ma anche santo ponte da spiaggia, il 3 o il 4 ci si potrebbe incontrare, anche in pochi, su ciò?

Poi, forse sarebbe anche ora di far peccato e dunque pensar male. Mi piacerebbe che, con calma e grazia – al netto di salamelecchi e chapeau- ci si interrogasse, per esempio, sul come mai nel decreto di governo venga lasciato in vita l’intero castello fallimentare della gestione dei rifiuti senza ledere consorzi né società miste che ci hanno pur accompagnati sul ciglio di questo baratro. O ci si domandasse se, sull’orizzonte di queste vicende, a destra e a sinistra, vi sia o meno un suono che si ode e non si ode, come il richiamo delle sirene, e che ogni tanto, a tratti, di lontano pare soavemente ripetere la strana parola “impregilo”.

16 maggio, 2008

Su quello che accade nei campi rom a Ponticelli.

Non sarò breve.

1. C’è uno scenario di anni che sta a monte delle “giornate di Ponticelli”. E in assenza di un qualsivoglia segnale da parte del sindaco sarebbe atto dovuto che almeno il presidente del consiglio comunale di Napoli riunisse subito il consiglio, per un dibattito pubblico dove ricostruire con attenzione le premesse di questa crisi di inaudita violenza, che vanno reperite, almeno a partire dal dicembre del 2003, data in cui il comune di Napoli fece una delibera a favore dell’accoglienza di rom in una struttura di Via Botteghelle.
Quali sono stati i passi fatti per integrare i rom nel quartiere, le proposte disattese, i passaggi partecipativi effettuati o meno, i fattori di accumulo delle tensioni, le differenti opzioni scelte o scartate? In democrazia non è mai inutile, quando scoppia una crisi, rivederne le cause con cura davanti alla cittadinanza. Si farà? Oggi io sono pessimista. Non si farà. Perché non ci sono più sensibilità politica in senso proprio né la santa abitudine alle procedure minime. Non c’è più tenuta alcuna.

2. Così oggi accade a Napoli che ci si debba misurare emotivamente con i nudi fatti, per come scuotono ciascuno di noi.
Ne elenco una sequenza, senza ordine ma così come mi riviene alla mente. Mentre la prefettura aveva annunciato agli uffici comunali l’intenzione di ricorrere a uno sgombero legale dei campi, per ragioni igienico-sanitarie, avviene, dinanzi alle telecamere della Rai, che bande di giovani e meno giovani, spesso con precedenti di mala, assaltano le baracche rom e le bruciano lanciando molotov dai motorini, mirando non solo ai luoghi ma alle persone. Nelle strade vicine si dice, a loro convinto sostegno, che lo fanno per “vendicare i furti di bambini”.
Sarebbe, insomma, questa la risposta all’episodio di intrusione in una casa del quartiere da parte di una minorenne, subito assicurata alla giustizia e sulle cui circostanze e responsabilità la magistratura stava già indagando. Ma, interrogati dai molti giornalisti presenti sui luoghi, i giovani, divisi in piccoli gruppi di incursori, ammettono altro: che le attività illegali dei rom fanno aumentare la presenza, per loro fastidiosa, della polizia nel quartiere e che i rom sono loro diretti concorrenti nell’accumulazione di ferro, alluminio e rame, rubato e non, da rivendere. Tanto è vero che, bruciato un campo, i poliziotti sono costretti ad allontanare le bande di predatori che intendono “riprendersi rame e ferro”. “Non è ora il momento” – dicono. I vigili del fuoco intervengono per spegnere i roghi. E vengono scherniti in modi indicibili mentre si assicura loro che, in ogni caso, si tornerà all’assalto con nuove molotov le quali, nel nostro codice penale, sono classificate armi da guerra. Ma la polizia non interviene. Donne del quartiere, davanti alle tv nazionali e locali, ballano e urlano come nelle feste delle orde; e esaltano la vendetta contro un’intera comunità nomade, rea di essere tutta intera “ladra di bambini”.
Viene fatto un ultimatum di sgombero campo dopo campo. Ma non dallo stato come è avvenuto a Bologna o a Roma. No. Qui lo stato ha da tempo perso ogni monopolio della forza. E’ un diktat recapitato non si sa come e da chi ai rom assediati. E’ avvalorato da pezzi sparsi di camorra di quartiere o così si dice e si ripete ai giornalisti. Come dire: siamo noi del “sistema” a proteggere la popolazione del quartiere dagli zingari cattivi, a fare non già da ronde ma da incursori incendiari.
E così resta il fatto che roghi e minacce producono una fuga notturna di circa 500 persone, protette da sparuti gruppi di poliziotti e dai volontari della Caritas che, circondati da una folla pronta e attrezzata al linciaggio, quello vero, ha trovato i furgoni e ha portato, viaggio dopo viaggio, decine di persone fuori dal pericolo sistemandoli per la notta in decine di abitazioni di cittadini civili di questa città. Un esodo dal sapore terribile, avvenuto nel terrore di vecchi, donne, bambini inermi. Che mette per sempre a tacere tutti i tentativi di integrazione di questi anni. Nelle aule del 88° circolo didattico dove tra pochi giorni avrebbe dovuto concludersi un progetto tra bambini rom riconquistati alla scuola pubblica e altri bimbi del quartiere – un lavoro basato sulla narrazione di fiabe rom, che uniscono – i bambini di Ponticelli coinvolti piangono: “Abbiamo visto i nostri compagni fuggire piangendo tra la folla inferocita”. Alla fine del saccheggio successivo ai roghi bande di squadristi rovistano tra le povere cose lasciate.

3. Questi eventi inauditi hanno luogo in un clima cittadino di ignomignoso vuoto istituzionale e politico. Più che irresponsabile, delirante. Nessuno che abbia una funzione di rappresentanza politica è lì sul posto insieme alle forze dell’ordine che difendono almeno l’incolumità fisica delle famiglie sotto minaccia fisica. Né un parlamentare né un solo rappresentante di comune o provincia o regione. Tacciono sindaco, governatore e presidente della provincia. E nessuno è in grado di parlare con le due parti. Mentre vengono lanciate le molotov i partiti di destra e il PD all’unisono chiedono lo sgombero e l’immediato smantellamento dei campi. Senza commentare gli eventi fuori da ogni legalità repubblicana.
Il manifesto del PD resterà nel tempo una vergogna: confonde crisi dei rifiuti e campi nomadi e, nel mezzo del linciaggio, chiede che sia restituita sicurezza ai cittadini di Ponticelli minacciati. Fa molto meglio la mamma della piccola Camilla: “non volevo questo”. Ma c’è anche di peggio: la prefettura e il comune, intanto, si permettono di litigare pubblicamente su dove spostare le famiglie già in fuga e avviene addirittura la disdetta del tavolo di concertazione tra le istituzioni sulla gestione della crisi. E’ un atto di una gravità mai vista prima in Italia nel mezzo di una tale emergenza. Intanto, imperterrito, un assessore regionale (non mi viene manco più voglia di scrivere il nome) dall’innocentissimo pulpito del palazzo della Regione Campania - decide che è proprio questo il buon momento per scagliare finalmente la prima pietra contro il sindaco e gli amministratori comunali che, a loro volta, sotto la pressione della piazza organizzata dai rappresentanti zonali della loro stessa maggioranza – che è la stessa della regione – avevano pensato bene di dedicarsi a contestare tardivamente quanto deciso dal commissario straordinario in materia di siti per i rifiuti.

4. Comunque molte persone si chiedono: la ragazzina rom voleva davvero prendersi una bimba secondo quanto è nella paura più profonda, atavica, radicata? I giudici stanno indagando. Vedremo. Ma, intanto, va ricordato qualcosa che si ripete nel tempo nella storia umana. Da sempre - nei confronti delle popolazioni con forte identità autonoma ma in posizione di minoranza e marginalizzate - si ripete, di generazione in generazione, tra le molte accuse ricorrenti, quella di furto dei bambini. Ciò avviene da parte di maggioranze non necessariamente coese, anzi. La maggioranza, attraversata da reali e profonde differenze sociali e culturali, conserva tuttavia pretese di omogeneità; e, proprio perché divisa al suo interno, indica nelle popolazioni di minoranza le alterità, a conferma della propria identità unitaria. Così l’accusa di furto di bambini è stato gettata addosso a ebrei e nomadi in Europa, alle popolazioni di origine africana o ai nativi nelle Americhe colonizzate, alle minoranze tribali entro le differenti zone di altra maggioranza tribale in molte parti dell’Africa, agli armeni in Turchia, ai kurdi in Siria o in Iraq, alle popolazioni autoctone nella Siberia colonizzata, ai nomadi non arabi nel Magreb, ai turcomanni in Cina ecc.
E’ un pericolo, un’evenienza minacciosa che sta lì, ripetuta dalle narrazioni diffuse, che si nutre di leggenda. In questo, la funzione degli stereotipi, che vengono diffusi e ripetuti spontaneamente, è di avallare o indurre o diffondere conformismi di massa o di gruppo, confermando il già noto o più esattamente il presunto noto, facendolo apparire come qualcosa di ovvio e di scontato.
Gli stereotipi si possono identificare con il senso comune o sapere di tutti. Non si tratta di una verità ma di una convinzione. Che è riproduttrice di una disinformazione che serve alla coesione interna di una società che coesa non è. E che permette di rassicurare e di avallare i conformismi sedimentati nel tempo e di demotivare la ricerca, il dubbio, il pensiero divergente. E’ qualcosa di sordido e ripetuto, che oggi gode di un grande megafono nei media. E che si nutre delle categorie del nemico, del minaccioso. Da sempre accadono episodi grandi o piccoli a conferma degli stereotipi. E tali episodi avvengono spesso nei passaggi della storia nei quali le maggioranze sono attanagliate da una condizione o da una sensazione di crescente insicurezza intorno al proprio status economico o alle aspettative di futuro o ai valori dichiarati che non corrispondono più a quel che viene percepita come la situazione effettiva. Come accade oggi nel nostro paese e non solo. E quando le divisioni sociali aumentano senza che siano pienamente rappresentate entro un conflitto codificato e regolato.
E’ in questo tipo di atmosfere generali che, nella storia, accade che qualcuno della minoranza accusata, quasi sempre un singolo “in rappresentanza di tutti”, spesso più fragile, si venga a trovare - nella accusa diffusa da gruppi della maggioranza o anche effettivamente - in una posizione tale da confermare gli stereotipi che sono costruiti addosso alla sua identità di appartenenza. E nella storia ciò accade sovente in territori di confine, lì dove le parti più fragili delle maggioranze si trovano nelle vicinanze o in prossimità o a contatto delle minoranze altre. Come nel caso di Ponticelli, esattamente. E’ in questi contesti particolari e speciali che, poi, prendono forma episodi inventati o anche reali. La ragazzina rom era lì? Ma cosa stava facendo e come viene rappresentato quel che faceva da quel gruppo in quel momento nell’atmosfera generale e di confine?
Spesso accusati e accusatori sono entrambi in una situazione complicata, strana, intermedia, ambivalente e di reciproca paura. La conferma dello stereotipo si trova ad essere suggerito anche da un agito dell’accusato? Viene confermato dalla convinzione radicata di chi accusa? Insomma se sei considerato ladro di bambini da una enorme maggioranza di persone nel cui mare tu ti muovi come “diverso” da generazioni vi è la possibilità che tu ti trovi, per spinta inconscia o altro, in una situazione intermedia e di confine, ambigua, pericolosa, nella quale fai gesti, esprimi intenzioni, sei presente in luoghi, dici cose che vengono presi, ampliati, ridefiniti e ricostruiti a posteriori – da parte di chi crede in tali stereotipi ed è attanagliato da paure profonde - in modo che tu possa risultare effettivamente “ladro di bambini”. Sì, accade che persone vittime di stereotipi si trovino a vivere una posizione che può confermarli nello stereotipo. Ma tutto ciò, però, può avere luogo solo quando alla crisi culturale e sociale di intere comunità corrisponde la pochezza dei pubblici poteri, privi di quella autorevolezza minima che consente la basilare funzione di dare parola e atto alla legge, a salvaguardia della convivenza civile.

Le foto sono di Philippe Leroyer e sono state scattate a Parigi in occasione di una manifestazione di rom nel dicembre 2007.

04 maggio, 2008

Scrutare nuovi paesaggi

Siamo in un paesaggio politico altro. Come quando si attraversa una frontiera. Immersi in un clima di destra, profondamente fondato - come ho scritto su Repubblica Napoli.

Non fa piacere doverlo pensare ma è un’atmosfera che non è più legata solo a Berlusconi ma all’idea del capo. E che non durerà poco.
Non è il conservatorismo britannico, ora all’assalto, né quello francese. Non ne condivide i liberalismi; anzi è statalista e protezionista. E non ha affezione per il rigore dei conti pubblici: “se ne frega”, come la maggioranza del popolo italiano, del rientro nei parametri di bilancio. E denigra il senso dello stato. Perché ripete la tradizione della destra italiana che è, invece, quella del “sovversivismo delle classi medie”. Con il linguaggio che parla di fucili, discese a Roma e saluti romani. Con il fastidio per le procedure, i ruoli, le regole. E con la predilezione per l’urlo risentito.

Tolta la sinistra che deve affrontare un lutto epocale e tolto il grillismo che è vitale e, infatti, condivide con la destra sia l’urlo risentito che la predilezione del rapporto diretto tra folla e capo, molto del PD, unica opposizione di massa alla destra, appare un arnese preistorico. Quasi inutilizzabile così com’è. Eppure è, appunto, l’unica risorsa collettiva disponibile. Un bel paradosso.
Quando è serio - come nel caso di Prodi che rivendica con puntiglio i risultati buoni e veri – è perché è morto, privo di ogni elemento vitale. Ci si inchina al funerale. Quando è “vorrei ma è andata male” – come nel caso di Veltroni – è fragile. Perché esprime il desiderio di quel che sarebbe potuto forse essere, che non basta mai e che verrà attaccato ferocemente dai vecchi modi delle stantie certezze, come già sta accadendo e dalle nomenclature che questo sanno fare, e bene; e perché è davvero “andata male”. Quando è come è stato in Campania – l’arroganza e l’immobilismo di un potere fallimentare per tutte le istanze di speranza - è un vero peso morto. Che tira verso il fondo chiunque si avvicini, come l’uomo che non sa nuotare e verso il quale c’è una sola opzione: o dargli un cazzotto in testa, farlo svenire e trascinarlo a riva (ma bisogna essere certi di saperlo fare) o lasciarlo al suo destino. Perché, altrimenti, ti tira giù con sé.

Faticano quelli che hanno vissuto dentro le logiche di partito a scrutare questo paesaggio. Anche i migliori. Perché lo vedono di destra. Ma non vedono quanto è nutrito di istanze profonde, deflagranti perché disattese da decenni. Si soffermano, infatti, sugli errori di conduzione della campagna elettorale o di comunicazione o di tecnica della politica, che pure ci sono stati. O quasi solo sulla questione sicurezza. O sul radicamento territoriale, ma come questione organizzativa.
Non colgono i dinamismi e le vitalità che hanno dato corpo alla vittoria di destra: le aspirazioni e le pretese di milioni di persone, l’elemento di individualismo, di ricerca disinibita delle proprie libertà e opportunità, la voglia di farcela da soli, di provare a fare comunque e di gettare alle ortiche le regole e le complessità pubbliche e civili.
E non colgono la prepotente voglia di sentire parlare di soluzioni concrete. Né la questione dei tempi, delle relazioni autentiche tra persone, della domanda di identità, degli stili, del metodo politico, tutte questioni ricche, che questo paesaggio di destra pone. Anche a chi – di sinistra e centro-sinistra - vuole rilanciare un modello solidale e condiviso.

E diciamolo: tutto questo si vedeva venire avanti. Tra molti amici ci ponevamo le domande di merito. Abbiamo pure provato a fare altrimenti, nel nostro piccolo.

Eravamo più avvertiti o intuitivi o semplicemente meno disposti a bearsi in illusioni? Ci piaceva fare le Cassandre? Eravamo più solerti a vedere le cose in arrivo per abitudine ai viaggi della mente o per le letture o per lo sguardo su luoghi nello spazio e nel tempo altri da questo o per una po’ di libertà interiore in più, che ci tratteneva dal recintarci nello schema amico/nemico o dal accontentarci di analisi fondate sulla mera tecnicalità o miope “cazzimma” politica che dir si voglia? O forse non avevamo territori, carriere, convenienze e abitudini da difendere più di tanto?

Mah? Tanto, dirsi che, almeno un po’, avevamo capito prima, pur con le ingenuità e gli errori, non è di consolazione.
Ora viviamo in questo paesaggio. Che ci è dato esplorare con umiltà. E a cui risponderemo nel tempo. Ognuno per quel che sa e può.

Eppure c’è – è nelle cose stesse – una fatica ulteriore. Bisognerà, infatti, domandarsi, seriamente, se e come confrontarsi e scontrarsi con chi – PD da smontare e rimontare?, sinistra da ricostruire? - ha fatto politica così come l’ha fatta o se rischiare di restare fuori, ancora una volta più coscienti ma comunque disarmati.
Questa opzione, faticosa davvero, può essere ignorata sul piano personale, individuale. Ci si occupa d’altro nella vita. Va bene.
Sul piano politico, in senso proprio, pretende, invece, una risposta.
E non nascondo che sia sul piano personale che su quello politico vivo un momento di esitazione.

Una cosa è certa: è finalmente chiusa l’epoca del ricatto delle emergenze e del ricompattarsi subito contro il nemico. La chiamata repentina alle armi dietro a personaggi e schieramenti, senza affrontare cose di merito e capire per quale campagna armarsi non ha ragion d’essere.
Almeno questo vantaggio prendiamocelo: regaliamoci temi di merito e gesti, ritmi, luoghi, discussioni, dove è possibile fare domande, capire, inventare, esplorare e proporre nel merito. Tra persone diverse.

28 aprile, 2008

Voti e vita

Dalle nostre parti la politica è messa in tal modo che non vuole o non sa neanche analizzare il voto. Un segno ulteriore dell’emergenza democratica, gravissima, su cui ho risposto alle domande di Norberto Gallo in un intervento via radio on line.

Invece in un bell'articolo – uno dei pochissimi – in cui si prova ad analizzare il voto politico, Luciano Brancaccio mostra che nei quartieri centrali delle città del Sud il Pd tiene testa alla destra mentre nelle periferie cede decisamente il passo e che a Napoli è sotto gli occhi una frattura socio-economica dietro questa polarizzazione territoriale e politica.

Per i cittadini che stanno peggio si profila una sorta di Waterloo della speranza. E questa si sta traducendo in crescita del voto di destra.

Sono cittadini considerati preda del messaggio mediatico più facile e della conservatissima pratica dello scambio clientelare, sempre più a basso costo (una ricarica telefonica, un lavoro di qualche settimana durante le campagne elettorali, la soluzione più rapida di una banale pratica o l’ottenimento di una facilitazione a cui si aveva diritto, qualche promessa di ingresso in liste di disoccupazione per entrare nelle solite contrattazioni).
Sono cittadini che non hanno ascolto strategico per i bisogni e le esigenze di medio e lungo periodo quali formazione, sviluppo sostenibile, liberalizzazione e facilitazione dell’accesso al lavoro, effettivo accesso ai servizi, ecc. Cose di cui, infatti, non si dibatte credibilmente nel centro sinstra e nella sinistra.
In difficoltà, non ascoltati, essi rischiano di essere una nuova stabile base della destra nelle zone urbane del Mezzogiorno.

Ma chi sono questi cittadini?
Forse ci aiutano i dati Istat sulla povertà, quella condizione che è massicciamente presente appunto nelle periferie urbane e ancor più in quelle del Sud.
2 milioni 623 mila famiglie, pari al 11,1% del totale vivono sotto la soglia di povertà in Italia.
Di queste 1 milione 713 mila sono residenti nel Sud. Sono, in percentuale più del doppio. E in due anni sono aumentate, dal 21,6% al 22,6%, in modo particolare in Sicilia e anche in Campania.
La possibilità di essere poveri aumenta nelle famiglie numerose, in quelle con bambini e anziani aggregati, in quelle con il portatore di reddito con bassi livelli di istruzione, operaio, in cerca di occupazione o con occupazioni precarie o a termine, irregolari, al nero ecc.

Il dato sulle famiglie povere si traduce in 7 milioni 537 mila individui poveri, pari al 12,9%.
Di questi 1 milione 809 mila sono minori, il 17% del totale dei minori italiani. In percentuale ci sono più poveri bambini e ragazzi che adulti. E nel Sud – segnatamente nelle periferie urbane - risiede quasi il 70% dei minori poveri, 1 milione 245 mila. Il 41,5% vive in famiglie dove una spesa di 600 euro costituirebbe un problema; il 30,5% non ha avuto soldi per vestiti necessari; il 23,9% ha difficoltà ad arrivare alla fine del mese; il 6,7% ha avuto difficoltà ad acquistare cibo.
Non votano per ora. Ma abbandonano rapidamente la scuola e la formazione, posseggono pochi strumenti per esercitare la cittadinanza attiva e sono lontani da ogni idea di partecipare alla politica.

Un altro milione e 601 mila sono anziani poveri, il 14,2% del totale degli anziani. Le situazioni più gravi si hanno per le famiglie di anziani che vivono soli, una condizione più rara al Sud che al Nord ma in crescita. Per il 37,1% di questi cittadini una spesa imprevista di 600 euro costituirebbe un problema; il 16,3% ha avuto difficoltà ad acquistare i vestiti necessari, il 15,4% ha difficoltà ad arrivare alla fine del mese, il 13,4% ad acquistare medicine e il 13,2% a riscaldare l’abitazione. Ma nel Mezzogiorno le cose peggiorano di molto: ben il 40,4% delle famiglie con anziani dichiara che una spesa imprevista di 600 euro costituirebbe un problema; il 24,3% dichiarano di avere avuto difficoltà ad acquistare abbigliamento necessario e il 21,8% nel caso di medicine. Quasi 1/5 delle famiglie meridionali (20,4%) dichiara di avere avuto difficoltà a riscaldare l’abitazione.
Gli anziani votano e però sono anche preda di disaffezione forte dovuta a simili condizioni.
E’ la povertà percepita. Che si nutre di episodi reali, potenti nel creare opinioni sul mondo e sulla politica. Che in forme diverse coinvolge anche chi vive poco sopra la soglia di povertà.

Secondo l'indagine Eu Silc il 41,2% delle famiglie in Campania non sono riuscite a sostenere spese impreviste.
Ragazzi appena maggiorenni, donne sole, giovani coppie, operai precari, lavoratori irregolari di ogni tipo, anziani e famiglie numerose delle periferie ma anche piccoli commercianti, impiegati, lavoratori autonomi a basso reddito stanno abbandonando il voto tradizionale per la sinistra o per il centro-sinistra. Perché non c’è una politica di centro-sinistra che li tenga presente in proposte che siano reali, credibili e che ne sappia ascoltare le paure, i bisogni, le aspirazioni invece di cantar storie e al contempo omologarsi alle pratiche del notabilato meridionale di sempre.

E’ un disastro che oltre ad avere prodotto cattiva amministrazione sta regalando tutto il Mezzogiorno urbano a questa destra.

Correre ai ripari è un’opera titanica. E se ne dovrebbe almeno parlare. Certo non bastano le sfogliatelle offerte in piazza ai rari turisti.

20 aprile, 2008

Lo tsunami e l’argine

Grazie. Davvero sono stato rinfrancato dai vostri commenti al mio post. Mi pare che, sia pure con accenti diversi, in molti pensiamo che la batosta a sinistra almeno sgombri il terreno da politiche e mentalità sbagliate e fallimentari, che non meritano nostalgie.

Aggiungerei solo che sarebbe bene che il PD non si proponesse subito come scialuppa per quel naufragio. Per chi lo ha vissuto non è bene subire annessioni frettolose. Ma nemmeno essere risparmiati dalla fatica di rielaborare la sconfitta.
Ben più in generale - con davanti cinque duri anni di destra al governo - il PD non può pensare di vivere e crescere annettendo pezzi di sinistra. E nemmeno tessendo accordi tattici con l’UDC. Per non nascere già morto dovrà almeno provare ad uscire dall’angusto imbuto delle operazioni da ceto politico.
E ci vorrebbe qualche idea. Con cui ritornare nelle piazze, nei posti di lavoro, negli enti locali, tra i cittadini. Ma non più per declamare la linea. Come è stato nei comizi elettorali di Veltroni. Ma per incontrarsi e interrogarsi sulle cose possibili. Quale sicurezza, quale lavoro, quale welfare, quale ricerca, quale ambiente, quale scuola, quali diritti dei cittadini…
Infatti oggi siamo ritornati - per demerito e merito sia della destra che della sinistra - a una sorta di ground zero della discussione pubblica. Che riparte dalle cose della vita quotidiana. Potrebbe essere un’occasione vera di rigenerazione della politica.

Ma il PD lo sa fare questo?
A questa domanda confesso candidamente che non so dare risposte.
Perché vedo che il PD – che è l’unica cosa che può contrastare il Berlusconi vincente - ha paura. E chi ha paura tende a difendersi e non a continuare una impresa forse promettente alla lunga ma oggi molto incerta. E del resto ha qualche ragione ad averne di paura. Perché lo tsunami di destra tende a investire anche il PD, dopo la sinistra. E speriamo che Rutelli ce la faccia! Ma l’argine appare friabile. Perché è uno tsunami vero. Che a sua volta si nutre delle paure di milioni di persone. Paure che nascono da fatti veri. Dalla già evidente provincializzazione dell’Italia nell’economia mondiale. E da tutte le polarizzazioni cresciute in questi anni nelle nostre vite quotidiane: tra stranieri e italiani, tra giovani e non giovani, tra chi è ricco e gli altri, tra poveri e chi ce la fa, tra chi possiede conoscenze e chi no, tra lavoro stabile e non stabile, tra produzioni e servizi, tra chi è nello stato e chi nel mercato, tra diritti enunciati e fatti. E quella davvero grande tra Nord e Sud. Di cui ho parlato la sera stessa dei risultati (video qui e qua)

Di fronte a queste cose, l’argine PD allo tsunami della destra appare, al contempo, troppo nuovo e troppo vecchio.
E’ troppo nuovo perché non è ancora pronto ad affrontare questa difficile Italia qual’è. E’ liquido forse; ma non è abbastanza poroso e vitale e ha davvero poco metodo per studiare e promuovere nuova politica diffusa e vero spazio pubblico e ascolto, incontro, partecipazione. Dovrebbe essere aiutato a farlo. Da dentro e anche da fuori. Ma non è facile capire come.
Ed è troppo vecchio perché conserva linguaggi, logiche e nomenclature del mondo - tra DC e PCI - da cui è nato: interessi, appartenenze, abitudini, istinti di sopravvivenza. Un arcipelago vasto, logoro ma anche efficace nel conservare.
Sia l’acerba novità che lo stantio vecchiume – con, in più, la lotta tra le due cose – non fanno del PD un buon argine contro cinque anni di vera destra.
Ma è l’unico che c’è in giro.
E sappiamo bene quanto fragile sia qui in Campania il nuovo Pd. Di fronte a quello vecchio, davvero potente, in interessi grandi e anche brutti e in conservazioni. Nonostante tutti i fallimenti. Ma su questo, per oggi, rimando al fondo di Paolo Macry. Perché ci tornerò.

15 aprile, 2008

In morte della sinistra

L’Italia profondamente cambiata – nella sua struttura sociale e nella sua pancia emotiva – ha dato il governo alla destra vera destra. Ma del Berlusca e di Bossi – e del senso e dei pericoli profondi della loro vittoria - non voglio parlare ora. Parlerò poi anche del PD. Che esiste, che non sta in ottima salute, che sarà cosa buona o meno a condizione che…

Oggi voglio parlare della sinistra detta radicale. Che è morta.
E per la quale io non piango.

E non perché è stata radicale. Ma perché è stata ostinatamente conservatrice. Perché è stata più statalista che solidarista. Perché ha pensato e ha insegnato che pubblico e statale sono sinonimi, cosa che non è vera. Perché è stata poco partecipativa e molto centralista, decisionista e gerarchica. Perché è stata protezionista e contraria anche a un po' di concorrenza in quanto ha pensato e ha insegnato che la concorrenza è il contrario sia dell’equità che della solidarietà, cosa che non è vera. Perché non ha mai amato il merito e perché ha favorito ogni volta la mera distribuzione assistenzialista e anche quella parassitaria, anche in barba al principio marxiano "a uguale lavoro, uguale salario". In quanto non ha mai voluto avvicinarsi all’idea di responsabilità individuale e tanto meno alla visione che correla libertà a responsabilità. Perché non è stata capace di discutere del rapporto tra stato e mercato in modo serio. Perché non ha espresso interesse neanche per le politiche pubbliche di “discriminazione positiva” basate sul principio solidaristico e partecipativo a favore di chi sta peggio ma ha teso piuttosto a difendere il welfare standard, incapace di guardare alle vite di ciascuno e di suscitare l’attivizzazione dei destinatari delle politiche sociali. Perché ha difeso più i già garantiti o organizzati: più il pubblico impiego che gli operai, più gli operai stabili che i precari, più i pensionati che i giovani in cerca di lavoro, più i sindacalizzati che quelli fuori dalle organizzazioni tradizionali, più i disoccupati organizzati che quelli che provano a fare qualcosa in proprio o creano reti comunitarie e informali. Perché, in questo, non si è sottratto certo ai vizi degli altri partiti.

E non la piango perché – in questo mondo straordinariamente vario, differenziato e difficile da capire - non ha saputo misurarsi con il dubbio e con la complessità ma ha ogni volta ridotto a uno il senso dei conflitti. Perché in un mondo che è compiutamente pluricentrico e movimentato ha coltivato l’ossessione di ridurre tutto alla individuazione di un solo nemico dell’umanità. Perché nel definire tale nemico lo ha ulteriormente ridotto fino a mostrarlo in modo caricaturale, come un super-imperialismo unico e immutabile. Perché ha a tal fine riprodotto un pensare ossessivo e asfittico, fondato su una catena di sillogismi indimostrati: esiste il "pensiero unico" del nemico, che corrisponde all’unico mercato liberista, che è sempre e solo controllato dalle centrali finanziarie, che corrispondono sostanzialmente agli interessi dell'imperialismo americano. Perché così facendo ha negato la contraddizione, la concorrenza e il conflitto che, invece, dominano la vita internazionale. E non la piango perché, per definirsi sulla base della individuazione del nemico, ha fatto un uso strumentale dei diritti universali anche a costo di continua e umiliante schizofrenia: quel che valeva da noi non valeva in egual modo altrove.

Detto ciò, è giusto anche chiedersi: che ne sarà, però, delle tante persone che l’hanno votata questa sinistra o che vi hanno militato con ottime aspirazioni, voglie, bisogni, capacità di confrontarsi, invece, coi diritti, con la complessità, con le istanze partecipative, con le pratiche innovative in tutti i campi?

Ebbene: penso che queste persone oggi sono affaticate dalla crisi e sotto shock, come lo fummo, in tanti, quando finirono le esperienze a sinistra del PCI degli anni 70, strette tra il PCI stesso e la nostra stessa terribile deriva, il terrorismo, da cui ci distanziavamo a fatica.
Come noi allora – se resistono a prospettive organizzative rassicuranti - sono, se lo vorranno, più libere. Di ripensare la loro storia e il da fare. Non devono difendere alcunché. Possono finalmente navigare nell’incertezza e nella cittadinanza più che nell’appartenenza.

E potranno forse anche ri-scoprire che questa loro sinistra conservatrice morente, che ha esaltato sì tutti i movimenti, lo ha fatto solo “ a cose fatte” e dopo averli integrati dentro di sé. Perché viene da una tradizione politica - dal PCI più ortodosso o dalla porzione più stantia e organizzativistica del 1968 - che ha al suo passivo, immancabilmente, l’essere stata, ogni volta, sospettosa e nemica dell’inizio di tutti i movimenti e le culture nuove che, prorompenti e ricchi, hanno investito le nostre vite. Sì, sospettosa o nemica. Del socialismo non filo sovietico, del liberal-socialismo, del pensiero libertario e di quello cooperativo, della beat generation, del primo sessantotto studentesco, delle organizzazioni autonome degli operai fino a tutto il 1969 e anche oltre, del femminismo, del movimento gay, della cultura dei diritti individuali più in generale fino alle battaglie per il divorzio, l’aborto e l’obiezione di coscienza, della rivolta di Seattle nella sua dimensione plurale e non già schierata ecc.

E scopriranno che questa loro casa madre organizzata per queste elezioni in modo improbabile, di arcobaleno ha avuto poco. Perché, senza mai fare un bilancio critico della storia ma difendendone ogni volta presupposti e tradizione, ha creato un contenitore auto-referenziale, giudicante e respingente verso ogni cosa fosse altra e diversa dalle proprie categorie, troppo lontano dai colori del dubbio, della prova, della ricerca.
Ci vuole, forse, un contenitore capace di fare incontrare moti reali, rappresentanza, deliberazione e partecipazione ma che sia nuovo, più largo, arioso, poroso, sorprendente.
E che sappia fare i conti con la società quale è.
Può ben essere che non sarà il PD. Che ce ne vogliono molti o nessuno. E che ci vorrà tempo.
Ma certo non poteva essere la sinistra conservatrice il contenitore di queste aspirazioni. Perciò: non c’è niente di cui dispiacersi.