
Sì, le case. Quella dove nacque in mezzo agli spazi vuoti e sotto il cielo largo dell’Idaho, quelle dove approdò, ancora ragazzo, nelle grandi città, dove poteva condurre la vita sregolata che desiderava, lontana dalla sua bigotta provincia. E dove accumulava i libri dei poeti antichi e medioevali o iniziava l’amicizia con T. S. Eliot o pranzava con William Carlos Williams o amoreggiava con Hilda Doolittle grande poetessa e donna apertamente bisessuale. Quelle inglesi o parigine dove studiava il teatro Nò giapponese con Yeats, imparava la boxe da Hemingway o da cui scendeva per presentare James Joyce alla sua futura editrice. O quelle italiane degli anni trenta dove scriveva versi di innovativa potenza, studiava le musiche rinascimentali e giocava a tennis. Ma dove iniziarono i segni di un lucido e terribile delirio. Infatti prese una vera fissazione contro le banche in quanto tali. Sposò le teorie sulla superiorità della razza ariana denigrando i neri d’America come inferiori mentre, al contempo, esaltava Thomas Jefferson come possibile ispiratore di Mussolini, dimenticando gli scritti sulla democrazia del fondatore degli Stati Uniti o il fatto che avesse vissuto e fatto molti figli con una donna nera dopo la morte di sua moglie. Poi vennero le case del tempo di guerra. Dove Pound continuò a difendere il regime anche durante la repubblica di Salò, facendosi portavoce del nazi-fascismo alla radio con parole incancellabili: “Se mai vi è stata nazione che ha prodotto efficiente democrazia, questa è stata la Germania. Eliminate Roosvelt e i suoi ebrei o gli ebrei e il loro Roosvelt”. E la casa della prigionia – che casa non era ma una gabbia all’aperto e poi una tenda – dove fu rinchiuso nel campo americano di Pisa, accusato di alto tradimento. O la prigione dove soggiornò durante il processo e dove si salvò dalla pena capitale solo perché quasi tutta l’avanguardia artistica del Novecento che aveva avversato il nazi fascismo si mobilitò generosamente per lui e perché, grazie alle garanzie liberali, i più grandi psichiatri d’America ne riconobbero la effettiva infermità mentale. Primo Levi un quarto di secolo dopo il processo scrisse: “Forse il tribunale americano che giudicò Pound mentalmente infermo aveva ragione: scrittore d'istinto, doveva essere un pessimo ragionatore e lo confermano il suo comportamento politico ed il suo odio maniacale per i banchieri. Ora, chi non sa ragionare deve essere curato, e nei limiti del possibile rispettato, anche se, come Ezra Pound, si induce a fare propaganda nazista contro il proprio paese in guerra contro la Germania di Hitler”. O l’altra casa di Pound che casa non era – ma stanza di ospedale psichiatrico – dove, nonostante tutto, continuava a incontrare i capi segregazionisti e a proclamare un testardo razzismo: “E’ una missione quella di lavar via dalla razza anglo-sassone gli elementi che la infangano, i negracci e gli ebreacci”. O l’ultima casa, a Venezia, dove un giorno del 1967 andò a trovarlo il poeta Allen Ginsberg. Lì salutandosi sull’uscio della porta - in risposta al “grazie per le sue poesie” del poeta della beat generation, ebreo fiero di esserlo – Ezra Pound timidamente disse con un fil di voce: “Il mio più grave errore è stato il mio stupido pregiudizio antisemita da sobborgo, una roba che ha rovinato tutto”.
Che dire allora di e su casapound? Sono figlio di un antifascista condannato a venti anni dal tribunale speciale. Da ragazzo facevo antifascismo militante per le strade di questa città ma leggevo con ammirazione i Cantos di Ezra Pound. E forse iniziavo a capire che si è chiamati a vivere in un mondo complicato, che ereditiamo da un secolo che è finito ma sul cui senso ci si deve interrogare ancora e con lo spirito del ventunesimo secolo che ha evocato Obama pochi giorni fa alle Nazioni Unite. E che si fonda sulla necessità imperativa di superare la paura dell’altro e di andare oltre gli steccati e parlare del merito delle cose. No, io non manderei la polizia a sgombrare casapound e tanto meno ci andrei io con i miei compagni. Ci andrei sì. Ma per parlare. E domanderei: quali delle case di Ezra Pound vi ispirerà in questo luogo? Quella dei poeti di ogni cultura e inclinazione sessuale? Quella dei proclami di odio? Quella della riflessione sugli errori? Perché - come ha scritto Paola Concia, donna di sinistra che lotta per la causa di ogni diversità e che si reca in questi giorni a casapound di Roma - la paura del diverso si annida in ogni cultura, a destra e a sinistra. E noi lo sappiamo nelle vicende quotidiane di razzismo e di omofobia che ci stanno opprimendo. E non basta il proclama antifascista: un nostro quartiere che è insorto contro i carri armati nazisti durante le Quattro Giornate, che sempre è restato fedele all’antifascismo, ha anche cacciato vecchi e bambini rom a suon di molotov. Sì, io andrei innanzitutto a parlare. Perché la città è satura di aggressività; c’è un bisogno immenso di parole scambiate, anche se sono difficili.