08 maggio, 2010

Difendere la scuola e chi la fa

Ieri hanno dovuto asportare la milza a una maestra Maria Marcello del 48° circolo, zona orientale di Napoli, un luogo della tenuta civile ed educativa in mezzo alla barbarie. Ma molti episodi del tutto simili avvengono ovunque in Italia, a Nord e a Sud. Per questo ho scritto l’articolo che segue, che appare su Repubblica Napoli di oggi.


Un bambino dà un calcio che spappola la milza a una maestra. La prima cosa che noi tutti dobbiamo fare è esprimere vera vicinanza, affetto e solidarietà alla maestra. Scriviamole delle lettere. Mandiamole delle cartoline. Al 48° circolo di Napoli. In tanti. Sosteniamone la pena in queste ore.
E facciamolo con uno spirito che vada oltre la solidarietà umana. E’, infatti, tempo di difendere la scuola e chi la rende possibile. Faccio parte di quella moltitudine di docenti che provano da anni a cambiare la scuola. Perché così com’è non va. Ma da altrettanto tempo penso che c’è da fare una scelta netta: difendere con forza la scuola comunque. E ben oltre questo come altri episodi terribili, che destano naturale sdegno e solidarietà.
Questa scelta a sostegno della scuola è inderogabile. Per noi tutti. Lo è perché oggi le scuole sono rimaste il solo luogo comunitario, presente ovunque in Italia, quotidiano, costante dove adulti e bambini o ragazzi condividono spazi, parole, affetto, difficoltà, fatiche, speranze, sogni, scherzi, frustrazioni, dispiaceri. E lo fanno senza tornaconto economico, lontano dall’idea di bambino o ragazzo come consumatore. E lo fanno in un contesto distinto dal particulare che ogni famiglia necessariamente rappresenta. Oggi la scuola va sostenuta perché è questo. E lo è in mezzo a una società in cui è saltato il patto tra adulti. Quel patto che fonda e rende possibile la trasmissione simbolica dei valori, delle regole, dei modi di porgere e porgersi che passano da una generazione all’altra. La rottura di questo patto ha molte cause. Contano enormemente i modelli veicolati dall’insieme della società e dai media. I valori dei genitori non si formano più entro comunità culturalmente omogenee bensì in modi molto differenziati e spesso distratti, poveri. E la società italiana sta conoscendo anche una crisi drammatica nel presidio delle procedure e del limite. Che sono alla base del poter educare. Così non esistono più i quartieri e i paesi dove tutti e ciascuno aiutano a fare crescere insieme i nostri figli, presidiono i limiti condivisi, danno santa ritualiità ai gesti, portano rispetto alle regole, credono nell’esempio, cercano con pazienza le parole per chi è nato dopo di noi. E la tv mostra ottocento volte il gesto di Totti e zero volte i mille gesti solidali che tengono in piedi il Paese.
Nel mezzo di questo deserto è rimasta la scuola. Sola. Con sul groppone un compito titanico, quasi impossibile. Il compito di difendere il senso della parola educare.
E, mentre tutto questo sta sotto i nostri occhi, l’Italia è piena di “soloni” che parlano male della scuola e degli insegnanti. Si annidano nei media e nei salotti bene, giocano a spiegarci come dovrebbe essere il mondo, pontificano con i paroloni. Una cosa li accomuna: non hanno mai passato più di due minuti in una classe di scuola d’infanzia o media o primaria o in una sezione del biennio di un istituto superiore. Non conoscono la fatica di dirimere una lite, di insegnare di nuovo a salutare o ad alzarsi in autobus o sul treno durante la gita scolastica per fare posto alla donna incinta, al signore anziano, al disabile. Non hanno idea di cosa sia calmare una mamma ansiosa e provare a pattuire con i genitori una vera condivisione su cosa fare con i ragazzi. Non immaginano nemmeno quanta fatica c’è nel ridare motivazione a chi ha quindici anni e ripete che non crede in nulla e non sa fare nulla. O nel placare un bimbo o un ragazzo che dà di matto. O dare calma e ritmo di lavoro, giorno dopo giorno, a intere schiere di bimbi e ragazzi che sempre più spesso non riescono più a domare il proprio agire, a governare la normale frustrazione, a rispettare i limiti, gli altri, le cose.
Questo episodio è successo a Napoli. In un quartiere difficilissimo. In una scuola che conosco per il suo impegno. Sì, è accaduto in mezzo a una città che è allo stremo, in un contesto per il quale la scuola rappresenta il presidio della Repubblica in un un posto che, nella migliore delle ipotesi, è “terra di nessuno” ma che è spesso la terra dei nemici della legge e della città.
Ma oggi, per una volta, l’episodio non va visto come l’ennesimo segno della Napoli in degrado, ferita, povera, abbandonata. Cose così stanno accadendo ovunque. Dalla Brianza ai paesoni della Padania, dai piccoli e medi centri della civilissima Italia centrale alle metropoli del Nord come del Sud.
E’ una grande questione nazionale. E’ tempo di rispondere alla crisi educativa generalizzata, diffusa ovunque. Una crisi di magnitudo paurosa. Che dovrebbe creare allarme anche maggiore di quello per la crisi economica. Perché investe le nostre ragioni prime, quelle che consentono di poter vivere insieme negli stessi posti. Perciò: la solidarietà alla maestra Maria la si deve a lei e la si deve all’impegno civile per riprendere a educare in Italia.

3 commenti:

Arianna ha detto...
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
Arianna ha detto...

Concordo sulla necessità di difendere la scuola e chi la fa. Ma, per raggiungere questo scopo, mi pare essenziale destinare alla scuola risorse economiche e umane, smetterla di considerare l'impiego nello stato un ammortizzatore sociale (il numero di figli a carico, ad esempio, non dovrebbe essere preso in considerazione nelle graduatorie degli insegnanti), formare e assumere un corpo docente davvero motivato e preparato. Chi non lo è, faccia altro.

Fabrizio ha detto...

Non c'è volontà di investire nella scuola primaria, non c'è volontà di investire nella scuola secondaria, non c'è volontà di investire nell'Università e nella ricerca.

Non c'è, in poche parole, volontà di investire nel futuro della nostra nazione...