Ancora una volta ci si domanda: come voterà la “società civile”? Si asterrà perché disgustata da questa politica? Oppure voterà per Ferrero o per la compagine di Grillo? Voterà per Caldoro perché l’alternanza è la risposta più naturale all’evidente fallimento del centro-sinistra? Voterà per De Luca perché gode di fama di uomo che intende affrontare i problemi e fare di testa sua? O lo sosterrà perché è percepito come il male minore? La risposta è ovvia: farà tutte queste cose, a ranghi separati.
Invece, molto meno ci si chiede dei temi che dovrebbero essere al centro della campagna elettorale. Perché riguardano la vita reale. Come sostenere quel 25,3 per cento di campani che vivono sotto la soglia di povertà, ben 1.340.000 persone? Come aumentare e rendere efficace la spesa sociale che oggi è del 29 percento inferiore alla media delle altre regioni? E quali stimoli sono possibili e in quali settori per fare ripartire il nostro PIL che è a meno 2,8 percento, la decrescita più marcata del Paese? E quale nuova idea di percorso professionale si può costruire per il 28 percento di ragazzi che non si forma? Cosa si può realisticamente proporre ai cittadini, sia ricchi che poveri, che fuggono via di qui al ritmo annuale di 6 ogni mille? Come mobilitare risorse per fare ritornare le donne campane nel mercato del lavoro dato che oggi lavorano solo 22 donne su 100? Su queste cose come si può invertire rapidamente la rotta nell’uso dei fondi europei dato che, dal 2007, abbiamo speso solo il 18 percento di quanto potremmo e che tra tre anni questo rubinetto sarà chiuso? Senza parlare di rifiuti, ambiente o dei 4000 morti per camorra negli ultimi lustri...
La verità è che la nostra “società civile” fa fatica a trovare una voce incisiva sui temi veri della Campania. Semplicemente perché è molto più debole che altrove. E, per capirlo, conviene riandare a una definizione un po’ classica e estensiva di “società civile”: Perciò: dicasi “società civile” l’aggregazione di cittadini intorno al perseguimento dei diritti politici e sociali, alla soluzione dei problemi comuni, alla difesa di quei diritti che Kant definì “i diritti innati”, a cominciare dal diritto alla libertà. E’ in spazi di libertà, dunque, che cresce questa aggregazione. Libertà innanzitutto dai condizionamenti del potere. Cosa rara da noi.
Invece la società civile cresce altrove. E, sia pure a fatica, argina i condizionamenti. I cittadini si attivano in tempi e con modi che sono indipendenti dalle scadenze elettorali e dagli schieramenti tradizionali. Si dedicano con costanza a studiare i problemi: risorse, energia, scelte nello sviluppo, sicurezza intesa anche come convivenza, ottimizzazione della spesa, controllo della qualità dei servizi, diritti comunitari e dei singoli, metodi di decisione... Vagliano opzioni e proposte. Esercitano forme di condivisione delle possibili soluzioni. E solo dopo si pongono la questione di come farsi valere anche con il voto.
E il dibattito sul voto non indebolisce, come avviene da noi, le reti di attivismo che si sono, intanto, costituite. Infatti tali reti hanno tessuto relazioni autonome, accumulato competenze. E soprattutto hanno imparato che ci si può far valere, che si può pesare sulle decisioni pubbliche quanto più non si è supini a chi governa e quanto meno si è solo protestatari. Nel tempo conta di più l’essere propositivi e ben centrati su obiettivi e compiti. Per questo crescono le reti civiche. Per questo possono conservare caratteri aperti, fluidi, anche creativi, divertenti, ricchi di posizioni diverse che pur si parlano. La politica esce, in questo modo, dall’ ossessione dell’appartenenza “identitaria”, dal sistema ideologico delle “coerenze interne”, dalle misere categorie della fedeltà e del tradimento. Crescono, invece, le aggregazioni per temi e per territori. Che rifiutano l’appartenenza ideologica, che si fondano su bisogni, diritti e aspirazioni; che scelgono il metodo della ricerca anzicché il criterio dell’adesione. Si tratta di un cambiamento culturale indispensabile per affrontare la complessità e che consente di stare insieme tra persone diverse, di cambiare anche posizione perché si deve apprendere per proporre soluzioni.
Quanto più radicato e costante è questo tipo di protagonismo, quanto più elabora risposte credibili e largamente condivise e tanto meno la politica tradizionale può pretendere di cooptarne le differenti componenti; tanto meno si permette di usarle l’una contro l’altra; tanto meno osa chiedere il sostegno incondizionato a un partito o, peggio, a un capo. E’, al contrario, la rete civile a dettare le condizioni: se vuoi il voto devi ascoltarci, misurarti con le opzioni elaborate anche fuori dai palazzi e favorire processi decisionali partecipativi. E’ sulla base di queste esperienze, molto diffuse, che l’Unione Europea ha sempre più largamente accolto - nei suoi ordinamenti - il valore dell’organizzazione diretta dei cittadini. Perché si estende l’esercizio di cittadinanza, crescono le competenze nel sapere analizzare cose complicate e fare proposte sensate, aumenta il capitale sociale. E non tutto viene ridotto al consenso attraverso il voto.
Ma nel Mezzogiorno e in Campania siamo ancora molto ai margini di tutto questo e la sudditanza dei cittadini resiste. Per molte ragioni. Perché manca lo sviluppo - e non da questa recessione, ma da decenni. Perché il sostegno ai più deboli non ha trovato dispositivi stabili, tanto che la porzione di società ridotta al bisogno, più facilmente ricattata, rappresenta da anni una porzione enorme della società. Perché l’impresa, le professioni e le arti indipendenti sono un’eroica eccezione. Perché la concorrenza è ancor meno presente che altrove. Perché – in buona sostanza – siamo una società con pochi ceti medi liberi e, soprattutto, con pochi veri occupati altrettanto liberi. Che, perciò, riproduce un deficit di libertà. Che fa comodo a una politica povera di vera cultura democratica, sia a destra che a sinistra.
Perciò la nostra “società civile” è condizionata dal prevalere di un uso clientelare della spesa pubblica in tutti gli ambiti dell’economia, della ricerca, della cultura, del welfare. E prevale il volere, spesso irrazionale e caoticamente espresso, di ceti politici - eredi del vecchio notabilato meridionale - buoni a ben poco ma capacissimi nel creare e conservare eserciti di mediatori e mestieranti che chiedono adesione e fedeltà in cambio di sovvenzioni, finanziamenti, consulenze, supporto, visibilità.
Così, da noi, se vuoi innovare la fabbrica di famiglia o proporre una ristrutturazione in un reparto ospedaliero, se vuoi rendere credibile il riciclaggio della plastica o rilanciare la formazione professionale tra i giovani più poveri, se hai buoni progetti di ricerca o vuoi aprire un ristorante o una scuola di danza non pensi ad aggregarti e diventare forte ma ad andare, a ranghi separati, con il cappello in mano, dal “capuzziello” di turno. Perché sai già – per dura esperienza - che non è il merito della questione che conta bensì il solito adagio: “devi intanto sostenermi alle elezioni e poi si vede....”.
Ma una società così non ha futuro. E perciò non vi è che una via da percorrere, quella della testarda azione per fare crescere la società civile. E quelle tante persone che amano la buona politica, che siano candidati o non lo siano, che oggi intendono votare in un modo o nell’altro o non votare, devono, comunque, sapere che non si scappa dall’urgenza di riprendere la via della libertà dai condizionamenti. Il futuro dei nostri figli dipende da quanto noi madri e padri siamo capaci di fare questo.
E sarà un vero leader il primo politico campano che, indipendentemente dalla sua storia passata, avrà il coraggio culturale e umano di dismettere davvero il vecchio adagio, di disarmare con intelligenza la baracca clientelare, di sostituire progressivamente il sistema delle fedeltà con quello delle reti di competenza e di leadership diffusa, fondata sulla crescita di una moderna cittadinanza.
2 commenti:
Bravo Marco. Non stanchiamoci mai ripeterlo, anche insieme...
bravo antonio, Ripetiamolo Insieme.
propongo in integrazione a marco: che qui c'è anche produzione di pubblico, alla dewey. quello che succede, anche in virtosi casi, è che questo pubblico subito vuole diventare Pubblico.
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