Riporto qui di seguito l’intervento da me svolto il 16 gennaio, su invito del segretario regionale DS della Campania, Enzo Amendola, nel corso della iniziativa nazionale dei Democratici di sinistra sul tema “Partecipazione e nuovo soggetto politico” che ha visto la presenza e le conclusioni di Piero Fassino e l’intervento di Antonio Bassolino, ripresi dalla stampa. Come spesso avviene, la stampa ha riportato il fatto che io interloquissi con i DS sul tema indicato come evidenza della mia adesione al partito democratico. Credo che il contenuto del mio intervento chiarisca bene il senso che ho voluto dare a un momento di confronto, che ringrazio i DS di avere favorito, sul rapporto tra partecipazione e politica oggi.
Vi ringrazio per il vostro invito e sono contento di essere qui e di potermi confrontare sul tema al quale mi atterrò. Con l’avvertenza che toccherò solo alcuni aspetti che riguardano la complessa relazione tra partecipazione e soggetti politici.
E permettetemi anche di cambiare un poco i toni e di iniziare in modo seriamente scherzoso o scherzosamente serio.
A me sta molto simpatico Piero Fassino, che incontro qui di persona per la prima volta. Per due ragioni: perché balla e so che sa ballare bene e perché ha giocato a pallone da giovane (ahimé nella Juventus che, per chi ha il Napoli nel cuore, è un problema….).
Su queste cose ritornerò.
Scrive Piero Fassino nel suo intervento agli organismi dirigenti del partito che il futuro soggetto deve sapere davvero unire politica e società. Tutti, però, diciamo e ripetiamo da vari anni che, con la globalizzazione, crescono anche i processi di individualizzazione. Insomma – poiché non lo prescrive la società di fare parte di un soggetto politico e non ce lo prescrive neanche il medico (a me come a ognuno) di aderire al partito democratico o a altri futuri partiti - allora il tema del fare politica si sposta dalla società ai singoli cittadini in quanto individui e non in quanto parte di categorie o di classi o di altri organismi collettivi. E, del resto, lo diciamo tutti che questo è un mondo in cui la politica non si esprime più attraverso l’adesione a grandi correnti collettive a carattere ideologico su cui si fondava l’attivizzazione di milioni di persone nel secolo scorso.
Dunque il tema della partecipazione a un nuovo soggetto politico – lo dico per il partito democratico come per ogni altro soggetto – a me interessa moltissimo. Ma sono personalmente interessato al fatto che nella politica vi sia spazio vero non già per la società generalmente intesa o per le sue categorie (il sindacato, l’associazionismo, il mondo del lavoro, gli imprenditori, ecc.) ma per gli individui. Le singole persone in quanto singoli e cittadini.
Prima di me ha parlato Mauro Calise – che è bene venga qui ascoltato molto più di me non solo per la lucidità con la quale spiega i meccanismi profondi del voto oggi ma perché io le elezioni le ho perse e lui, invece, le ha vinte. Ecco: Calise, nel suo intervento, si occupa degli individui ma focalizzando la questione sul loro ruolo nelle elezioni in quanto capi che gli elettori riconoscono con il voto. Questo, intendiamoci, è una cosa molto importante.
A me interessa, invece, parlare qui del ruolo dell’individuo come partecipante alla politica e non solo come elettore. E non credo di essere il solo ad avere questo interesse.
A questo proposito, leggo in una recente indagine post elettorale curata da Itanes (Italian National Election studies) alcuni dati quantitativi, credo sostanzialmente attendibili, che sono – penso – importanti per il tema di oggi:
o solo il 6% degli intervistati identificabili come elettori dell’Ulivo dice di essere iscritto a un partito,
o e, di questi, più della metà (il 54,5%) afferma di non avere mai partecipato, nei dodici mesi precedenti all’intervista, ad una qualche riunione di partito,
o meno del 3% degli elettori dell’Ulivo dichiara di avere frequentato almeno una volta, nello stesso periodo, una qualsiasi attività di partito,
o meno di 1 elettore dell’Ulivo su 100 (l’1 %!!) dichiara di avere fatto attività di partito spesso, essendo dunque riconducibile alla categoria del “militante”.
Ecco. A me non interessa tanto sapere cosa fa questo 1% .
A me interessa discutere e capire cosa fa l’altro 99%. Su questo mi interessa il confronto. Perché io non credo che gli individui che rappresentano, ognuno a suo modo, questo 99% siano apatici davanti alla politica, stiano tutti a rincoglionirsi dinanzi al TV color o a spingere la carrozzina della figlia nel parco e basta. Penso, invece, che non tutti ma molti di questo 99% occupano, invece, lo spazio pubblico in molti modi e che fanno politica. Perché l’Italia è fatta di tante singole persone che fanno cose, associati con altre persone ma sulla base di scelte individuali, spesso transitorie o momentanee o su tema ben individuabile e non sulla base di una appartenenza. Si tratta di cose semplici o complesse, qualche volta straordinarie, spesso fatte con inventiva e generosità, che hanno una valenza sì sociale ma anche politica, intesa in senso proprio: occuparsi della città o dei luoghi dove si vive più in generale. Personalmente io ho smesso di appartenere a entità o soggetti politici nell’anno 1976, trenta anni fa. E non sono certo solo in questo tipo di percorso. E non penso che in questi trenta anni io, come tanti e tante che hanno scelto forme di impegno non di partito, non abbiano fatto politica. Credo di avere fatto proprio politica e politica in senso proprio. Milioni di persone fanno questo “altro” genere di politica: partecipano a imprese democratiche di varia natura pur fuori dall’appartenenza di partito, nei modi più diversi, in ambiti molteplici o singoli, nel lavoro e fuori dal lavoro, con grande continuità e/o altrettanto grande discontinuità, lungo le storie delle vite individuali.
Una domanda da porsi, dunque, dal punto di vista delle ambizioni che sono al centro di questa giornata, è: il nuovo soggetto di cui qui si parla - il partito democratico - è appetibile o non è appetibile per gli individui che occupano spazio pubblico in questo modo altro dal “militante” di partito?
E qui va anche detto, amabilmente ma con schiettezza, che forse uno dei motivi perché siamo in tanti a fare politica in questo modo “altro” – e ci tengo a precisare che non sto certo parlando della piccola associazione di cui faccio parte ma molto più in generale - sta nella amara constatazione che, ovunque in Italia ma in modo marcato al Sud, i partiti si sono progressivamente ma implacabilmente trasformati da associazioni di cittadini in società di professionisti della politica. Con tutto quello che ne consegue – lo dico in modo fattuale e non giudicante o moralista, credetemi – e che qui non si ha il tempo di trattare a dovere.
E allora, per essere appetibili alla più larga partecipazione, per avere questa ambizione, un nuovo soggetto politico dovrebbe intanto scegliere di ribaltare quella che è la sua priority list, come la chiamano gli inglesi: l’ordine delle priorità. E faccio un esempio. Si è deciso che il decentramento amministrativo è una battaglia democratica? Beh allora ci si deve impegnare su questo. Voi sapete che ci stiamo battendo qui a Napoli perché le municipalità funzionino secondo buone procedure ed effettivo decentramento. Ma ci piacerebbe anche che i partiti si attivassero “facendo cose” con i cittadini: tenere aperto o allargare uno spazio verde del quartiere, promuovere un budget partecipativo, sostenere una azione di inclusione sociale per i giovani, ecc.
Invece l’impegno largamente prevalente oggi dei partiti, qui e altrove, non è principalmente volto a questo tipo di attività ma è concentrato sulla mediazione interna ai partiti e sulla gestione di relazioni atte al mantenimento di consensi e di controllo.
Penso che ribaltare questo ordine implichi cambiare metodo, abitudini, linguaggio. Una cosa molto faticosa, lunga, seria. Ma anche molto concreta. Credo, per esempio, che ribaltare la priority list di un partito significhi che, in concreto, per 8 ore di lavoro per la cittadinanza attiva vi possa essere massimo 1 ora di lavoro dedicato al partito e tra partiti. Non il contrario.
Ma c’è di più. E vengo al tema che qui è stato giustamente richiamato dalle donne intervenute, al quale sono sensibile per una lunga storia anche personale che fa sì che alla fine qualcosa forse ho imparato dall’impegno di mia mamma o delle mie sorelle o di mia moglie o di tante amiche. Il posto delle donne nella partecipazione alla politica – attenzione – non si può limitare alla pur decisiva questione, anche qui a ragione sollevata, di quanti interventi sono fatti da donne o di quante sono le donne elette. E – perdonatemi – ma non ci riesco a non ricordare, caro Piero, che fuori dal consiglio comunale di Napoli ci dovrebbe essere un drappo nero listato a lutto perché prima abbiamo sentito che a Nassyria (a Nassyria!) il 30 % del consiglio municipale appena eletto è composto di donne mentre noi qui siamo l’unica grande città d’Europa che non ha una sola eletta al consiglio, dicasi una sola! Una vergogna che vorrà pure dire qualcosa di più generale… Ma dicevo, l’impegno in politica delle donne va inteso anche nel senso che la politica possa avere un fiato collegiale, basato su maggiore reciproco ascolto, meno leaderistico. E anche con più spazio per le emozioni, il conflitto interno a ognuno, la pena, la speranza e anche – caro Segretario Fassino – per la danza e per il calcio.
Perché, nel 2007, non è appetibile l’appartenenza a un soggetto che chiede adesioni fuori da questo orizzonte ben più largo e più ricco.