17 settembre, 2008

Maestre (parte 4)

Ma come è avvenuto il passaggio nel 1990 e perché? E in quale atmosfera ha avuto luogo?
Passare da uno a più maestre/i e poi ritornare indietro a una sola/o…
La ricostruzione della storia di come avvengono le modifiche profonde nel costume e nell’organizzazione delle scuole pubbliche sarebbe un compito di ricerca e una vera esigenza di riflessione politica – in senso nobile – per chiunque debba vagliare l’efficacia delle politiche pubbliche, che sia cittadina/o che abbia o meno i figli a scuola o operatore/trice del settore, intrinsicamente esperto in quanto quello è il suo impegno quotidiano o decisore politico o studioso del come e dove si apprende. La valutazione e validazione dei risultati entro contesti… un’arte necessaria e assai poco italiana. E un’urgenza che meriterebbe un momento di vera pausa riflessiva da parte di tutti coloro che hanno a cuore la scuola. Una cosa che dovrebbe essere proposta dallo stesso ministro.
E un primo compito della riflessione sarebbe quello di ripartire dal punto di svolta, dal momento – ma meglio è dire dalla ‘stagione’ - in cui si è passati da una/o a più maestre/i. E’, infatti, un passaggio non breve, che avvenne a partire dalle prime esperienze sperimentali di tempo pieno, a cavallo tra gli anni settanta e gli anni ottanta e la già citata legge del 1990. E che ha – in mezzo a tale guado – i programmi della scuola elementare del 1985 (DPR n.104/1985), promulgati da Franca Falcucci. I quali, a loro volta, furono il punto di arrivo, il risultato e la codificazione normativa di un nuovo “fare scuola”, di una serie di pratiche molto estese e di dibattito sulla scuola di base che permearono innanzitutto le scuole stesse, che influenzarono il pensiero pedagogico e la stessa accademia e che sospinsero il lavoro di una commissione di altissimo profilo, composta da docenti e studiosi di ogni tendenza culturale e politica, che scrisse quei programmi, tuttora notevolissimi e che, in qualche modo, semplificato e con maggiore autonomia reale data alle scuole, riecheggiano nelle stesse indicazioni nazionali recenti.

La Legge 148 del 1990 fu, dunque, il risultato di spinte innovative profonde e diffuse ma, al contempo – come sempre accade – delle ispirazioni della politica e delle mediazione di questa con le parti mediane e conservatrici e “molli” che pur operavano e pesavano nelle scuole. Questa complessità – tra spinte innovative e generose, nate dalle pratiche, idee di partito ben meno ricche e nuove conservazioni – produsse un lungo dibattito parlamentare dove, alla fine, minimo fu l’apporto di scuole in azione, pedagogisti ed educatori e dove, invece, fondamentale ruolo ebbero i partiti politici e le organizzazioni sindacali. La politica e il diritto mediano sempre, per poter legiferare, le spinte che salgono dai fenomeni educativi reali; e c’è sempre il rischio che l’apparato burocratico produca una pedagogia e una didattica a loro volta burocratiche a discapito della vitalità dell’educazione. Gli educatori, poi, sono presi dal vivo dell’azione quotidiana con bambini e ragazzi e spesso non hanno luoghi dove esprimere proposta e parere articolato mentre rilevante è la produzione di organizzazioni sindacali, di partiti politici, di organi amministrativi. Così accadde che l’iter legislativo della 148 iniziò davvero a contatto con il moto nelle scuole qualche mese dopo la promulgazione dei Programmi del 1985 ma poté trovare un riflesso forte all’inizio del suo iter e non nel risultato finale. Infatti, nell’aprile del 1985, quando Franca Falcucci presentò il disegno di legge n. 2801, chiamato “norme sull’ordinamento della scuola elementare”, vennero recepite le istanze della commissione dei programmi che aveva sottolineato la necessità di introdurre più insegnanti per classe ed aumentare parallelamente l’orario scolastico. Il problema fu: come farlo? Tutti sapevano che bisognava andare a un ampliamento di personale per attuare davvero quei programmi. E tutti riconoscevano che le/i maestri/e unici avevano fatto un percorso, soprattutto grazie alle esperienze di tempo pieno e classi aperte, che salvaguardava le loro riconosciute capacità di fare apprendere in ogni contesto culturale e sociale e la notevole propensione a innovare. Si parlò allora di una costellazione di docenti intorno alla conservazione, però, di una figura-chiave di maestro centrale o prevalente. E la prima proposta di legge della Falcucci prevedeva l’introduzione della pluralità dei docenti mantenendo, però, l’unitarietà dell’insegnamento poiché solo a partire dal secondo ciclo (dalla terza elementare) accanto agli insegnanti di classe si sarebbero introdotti insegnanti specializzati per l’insegnamento e la valorizzazione delle novità vere di quei programmi: l’educazione motoria, quella musicale e quella detta all’immagine che comprendeva l’espressione artistica, unitamente alla lingua straniera. Ma questo approccio equilibrato, che avrebbe rafforzato la collegialità che si esprimeva già nelle scuole, favorendo una specializzazione negli ambiti più innovativi senza stravolgere la tradizione del maestro/a che si stava già rinnovando, soprattutto grazie alle diffuse pratiche di classi aperte, che la norma permetteva e favoriva, fu duramente contestato dai sindacati confederali (CGIL scuola, SINASCEL-CISL, UIL-scuola), dall’Associazione italiana maestri cattolici, dal CIDI e, in aula, dal PCI. Iniziò allora un fuoco di fila a favore di più insegnanti tutti uguali tra loro e inquadrati nel modulo. Fu un attacco un po’ volgare perché poco rispettoso dei tanti maestri che lavoravano bene e a contatto con i propri colleghi, che aveva trovato slogan semplificatori e che se la prendeva con la “maestra chioccia” e con “il maestro tuttologo”. In verità i sindacati confederali e le associazioni professionali del personale scolastico vedevano nella diminuzione del numero di allievi che si stava verificando, conseguente al calo delle nascite, un grave pericolo e una minaccia di perdita molti posti di lavoro: gli alunni delle elementari erano, in effetti, passati da 4.964.000 nell’anno 1972-1973 a 3.247.000 nel 1988-1989. E queste priorità presero il posto di ogni valutazione pedagogica non solo sui pregi o i difetti della prevalenza di un docente in rapporto a contesto, a numero ed età degli alunni, a ambiti di insegnamento ecc. ma anche in rapporto alle ricche pratiche diffuse di classi aperte e di sperimentazione di collaborazioni in regime di autonoma concordia tra docenti, d’accordo con i propri collegi docenti. Così il disegno di legge venne revisionato e ne risultò un testo che introdusse - in luogo di un docente centrale più una costellazione di altri docenti, potenzialmente resi fluidi dalle norme sulle classi aperte - dei "moduli" rigidi e standardizzati, uguali per tutti e non decisi dalle scuole ma dal centro, di tre o quattro insegnanti tutti contitolari della classe. Sul tempo pieno si decise che lo si poteva fare ma non daperttutto. In effetti vi fu uno scontro culturale tra la tradizione laico-comunista che diceva che la scuola è comunque sempre meglio e quella cattolica che voleva lasciare spazio al ruolo della famiglia. La mediazione fu che si fece un orario lungo ma non pienissimo e che il tempo pieno si poteva fare a condizione che vi fossero nella scuola le strutture adatte, le quali dipendevano largamente dagli enti locali. Insomma: la legge del 1990 che mutò l’organizzazione delle scuole elementari e i programmi che la anticiparono furono avviati da una spinta iniziale autentica che raccoglieva le voci, le azioni, le aspirazioni di interi mondi che stavano quotidianamente con i bambini, nelle scuole elementari del Paese. Ma fu, poi, determinata e decisa da altre logiche, ben più centralistiche e improntate da un lato sulla classica mediazione politica della tradizione italiana e, dall’altro, su priorità sindacal-occupazionali.

16 settembre, 2008

Maestre (parte 3)


Se passa la proposta del governo, in quale orario lavoreranno le maestre? E cosa cambia rispetto alla situazione attuale? E che nessi ci sono con le diverse tradizioni orarie e con i contesti sociali e culturali del Paese?
Il ministro Gelmini ha fatto sostanzialmente 2 dichiarazioni pubbliche tra loro apparentemente contraddittorie. Dichiarazione 1: si ri-porterà il tempo a scuola dei nostri bambini al solo orario anti-meridiano. Dichiarazione 2: il tempo pieno non si toccherà.
Vediamo con metodo. Perché la cosa non è semplice.
Cos’è, intanto, l’orario anti-meridiano? Si tratta del tempo-scuola italiano classico: si va a scuola e si insegna solo di mattina, 6 giorni per 4 ore al giorno. Ben diverso dal modello di orario-scuola tripartito che c’è in gran parte del mondo (germanico, nord-europeo, anglo-sassone, colonie comprese, e mittel-europeo e assunto anche in Francia successivamente alla I guerra mondiale) che vede un primo tempo anti-meridiano di lezioni, un secondo tempo per il pasto a scuola o per l’andata a casa e il ritorno e anche, però, per le attività spontanee e/o ludiche e sportive nei play-ground, nei luoghi sociali intorno agli edifici scolastici e un terzo tempo di ulteriori lezioni o di avvio dei compiti per casa ma a scuola. La via italiana alla scuola pubblica è stata, invece, il tutti a scuola ma solo la mattina. E’ un tempo-scuola che nacque con la già citata legge Casati e successive modifiche, che attraversò, inalterata, la riforma Gentile e continuò anche nel secondo dopoguerra fino alla legge 148 del 1990 che istituì più docenti e più lungo orario per ogni classe. E’ il tempo-scuola che chiunque abbia più di 40 anni ha conosciuto da bambino e che hanno sperimentato tutti i docenti entrati a scuola prima del 1990. Che vedeva la quasi assoluta coincidenza di orario tra insegnante e bambino a scuola, fatte salve le riunioni pomeridiane, la preparazione e correzione di compiti. Che terminava con il pranzo all’italiana, fatto dalla mamma che restava a casa spesso insieme a nonne e zie e ai fratellini piccoli. E’ la scuola che permetteva ai figli di contadini, artigiani e commercianti di aiutare i genitori nel lavoro di pomeriggio e che non conosceva il week-end lungo. Il tempo scuola italiano è stato così per 130 anni, tranne che per i convitti nazionali, istituiti ad hoc e per i collegi privati religiosi, che riunivano i bambini delle famiglie più povere e dove l’istruzione era inglobata entro un’istituzione totale “di cura educativa” .
E’ questo tempo che si ruppe, anche un po’ tardivamente rispetto alle trasformazioni sociali in atto, appunto con la legge 148 del 1990. Perché va pur ricordato che tale legge nacque da mutamenti profondi nella struttura e nel clima della società italiani. Infatti fu anticipata dalle esperienze del primo tempo pieno. Che si attuò, soprattutto nel Nord, in risposta, da un lato, all’introduzione delle 40 ore con la settimana corta nelle fabbriche (contratti 1969) e, dall’altro lato, all’emancipazione di centinaia di migliaia di donne che, in numero crescente, stavano diventando lavoratrici e non più unicamente casalinghe. E che fu anticipata da una stagione di protagonismo pedagogico – sia laico che cattolico - soprattutto nelle nostre scuole elementari, appunto, le quali conobbero la creazione di laboratori e di esperienze molteplici di scuola attiva, anticipate, fin dagli anni ’40, in particolare dal movimento di cooperazione educativa, che portò in Italia le esperienze di Freinet e delle scuole attive del tempo del Fronte popolare tra le due guerre in Francia. Una stagione ricca di pratiche innovative, che hanno fatto della nostra scuola elementare il migliore comparto tra tutti i segmenti di scuola e capace davvero, volta dopo volta, di includere tutti (poveri, portatori di handicap, stranieri). E anche di fare cose diverse dalla scuola tradizionale pur salvaguardandone le parti buone. Si pensi alle uscite fuori dalle mura scolastiche, ai laboratori creativi, ai giornalini, al teatro, alla musica, ai campi scuola, all’uso dei nuovi media. Si pensi – a proposito dell’uso di più insegnanti - alle esperienze delle cosidette “classi aperte” che vedevano le maestre e i maestri unici che, però, di comune accordo – e entro i più ampi poteri conquistati dai collegi dei docenti all’inizio degli anni settanta (decreti delegati) – aprivano la aule, si sostituivano nei compiti o decidevano di fare cose insieme, formando gruppi tra bimbi di classi diverse, della stessa etrà o i più grandi con i più piccoli, scambiandosi ruoli tra colleghi, nella convinzione che si potesse imparare uno dall’altro e che uno sa fare meglio certe cose rispetto ad altre e può farle anche in classi diverse dalla propria e con reciprocità.
Il ritorno al maestro unico, chiuso nella sua classe, ha in sé una retorica che richiama l’antico, che ci ricorda la nostra o il nostro insegnante, qualcosa di molto rassicurante. Ma dall’altra parte rappresenta, nel profondo, una vera regressione, un ritorno a prima di quella stagione. Anche se noi abbiamo avuto grandi maestri solitari, molto venerati… mentre il lavoro faticoso del collettivo ha conosciuto minori lodi e apprezzamenti. C’è da riflettere, in ogni caso, sul diverso senso pedagogico dell’essere solo o in più dinanzi ai bambini e sul diverso assetto, anche in termini psicologici, che le due cose assumono. E ci tornerò.
Ma se c’è questa spinta regressiva nella proposta di “maestro unico”, perché, poi, il ministro Gelmini ha anche detto e ripetuto che salvaguarderà quell’altra tradizione, nata dall’attivismo pedagogico e dunque le scuole dove si fa il tempo pieno?
In verità non ne può fare a meno. Se la mangerebbero viva nel Nord proprio i suoi elettori. Infatti le classi con il tempo pieno (un’organizzazione, peraltro semplice, che vede 2 docenti impegnate su ogni classe con orario 22 + 2 di programmazione comune, in modo da garantire ai bimbi 5 giorni lunghi di 8 ore) sono il 27% del totale, circa 38.000 su 140.000 in Italia. Ma sono concentrate – e con una ben consolidata tradizione – nel Centro ma soprattutto nel Nord. Si pensi che sono, per esempio, il 96% delle classi a Milano città. La voce grossa di Bossi con la Gelmini e la remissività dello stesso Tremonti sul tempo pieno altro non sono che il buon senso di chi conosce i suoi elettori e soprattutto elettrici, che non possono accettare il fatto che i propri bambini tornano a casa alle 12.30 dopo che per quaranta anni la scuola a tempo lungo ha consentito alle mamme di lavorare - sia come dipendenti che come lavoratrici autonome - e raddoppiare il reddito delle famiglie, a differenza che nel Mezzogiorno. E di chi sa che ciò è avvenuto sotto tutte le amministrazioni locali, di destra, di sinistra, leghiste o non.
Le due diverse affermazioni del ministro, dunque, non rappresentano alcuna confusione ma sono il programma politico, in qualche modo coerente, di chi fotografa un Paese spaccato a metà e lo congela al fine di tagliare i bilanci. Di chi, in buona sostanza, sa che o non ci sono o sono assai fragili al Sud l’integrazione tra enti locali e scuola così come le mense, indispensabili alla tenuta del tempo lungo a scuola; di chi sa che non c’è credibile rappresentanza politica delle fasce deboli a difesa del tempo-scuola al Sud né, dunque, vero pericolo di proteste delle famiglie; e di chi sa che le donne al Sud non lavorano e non lavoreranno poiché il tasso di partecipazione delle donne al mercato del lavoro (quelle che lavorano e quelle che cercano attivamente lavoro) nel Mezzogiorno conosce percentuali tra le più basse in Europa, intorno al 27%… e si tratta di valori fermi o addirittura peggiorati negli ultimi venti anni, e che mostrano non solo una crescente difficoltà a trovare lavoro, ma anche una crescente sfiducia nel cercarlo. E’ il sapiente programma politico di chi sa, pertanto, che, alla fine, ripristinato l’anziano tempo-scuola di 4 ore per 6 giorni o la sua variante con week-end di 5 ore per 5 giorni con un dì più corto, tutto comunque rigorosamente di mattina, si risparmierà un bel po’. E’ il programma di chi registra e certifica che le donne meridionali, tagliate fuori dal mercato del lavoro in modo disperante, se li andranno a prendere i bimbi a scuola, come già, peraltro, fanno con l’attuale tempo-scuola, maggioritario nel Sud (due prolungamenti e tre giorni fino alle 13 con 3 maestre su due classi a 22 ore di lezione ciascuna + due ore di programmazione comune). Se li andranno a prendere per debolezza del tempo pieno dovuta a una debolezza delle scuole autonome e degli enti locali, che a loro volta fotografano la mancata emancipazione economica delle donne del Sud. Sì, li andranno a prendere per il pranzo a casa, come facevano le loro madri e le loro nonne. Con poche eccezioni che hanno resistito nel mezzogiorno grazie all’eroismo pedagogico di quelle scuole, veri e propri presidi nel deserto. E, una volta abrogata la terza insegnante per ogni due classi, le maestre torneranno a lavorare solo di mattina, senza più tempo di progettazione in comune, 24 ore in una sola classe o, al massimo, riusciranno a salvaguardare un minimo di varietà, sfruttando le norme sull’autonomia delle scuole e dividendosi gli ambiti di insegnamento con 12 ore su 2 classi ciascuna, d’accordo con la collega, ri-inventando le classi aperte, senza oneri per lo Stato. E sarà di nuovo il lavoro bello ed eroico e silente che in tanti abbiamo saputo fare. E che con dedizione sapremo riprendere. Ma è giusto che questa sconfitta, accolta con decoro, la si rimarchi con il lutto al braccio. E i bimbi che se lo possono permettere avranno pagate da babbo le attività pomeridiane; e i bimbi che non se lo possono permettere – quelli dei tanti quartieri come il mio – staranno dinanzi al tv color o per strada o avranno cose offerte loro grazie alla generosa azione del volontariato. Alla faccia dell’idea liberale di scuola di stato e alla stessa idea liberale di Stato, nato grazie alla Destra storica per ri-equilibrare le disparità e affossata dalla destra stracciona dei nostri giorni. Che ha, però, il merito di avere tolto i veli a ogni falsa coscienza di una sinistra che per interi lustri non ha voluto guardare in faccia e dire parole di verità su questa spaccatura del Paese, beandosi della bella retorica sul tempo pieno per nascondere la nullità dei propri amministratori, la vacuità di un sindacalismo scolastico sempre più dedito al corporativismo e sempre di meno alla scuola, la tragedia di modelli di sottosviluppo che hanno condannato innanzitutto le donne meridionali a una condizione di brutale minorità e che, certo, non sono colpa solo del Cavaliere.

11 settembre, 2008

Maestre (parte 2)


Questi maestri – che oggi sono quasi solo maestre – e che si vuol far ri-diventare unici per ogni classe, in Italia lo sono stati unici, quasi sempre. Dal 1859 al 1990.
Prima c’erano i precettori presso i ricchi. E i preti. Sì, erano i preti delle parrocchie che insegnavano a leggere e scrivere in scuole strettamente confessionali. Ed è merito del Regno sabaudo e della Destra storica – quella di Cavour, che merita la D maiuscola a differenza di quella attuale di destra – se la scuola divenne scuola, se fu resa pubblica e obbligatoria, istituita dai comuni ma con il sostegno dello Stato. E’ il regio decreto legislativo 13 novembre 1859, n. 3725 del Regno di Sardegna - noto come legge Casati - entrato in vigore nel 1860 e successivamente esteso, con l'unificazione, a tutta l'Italia. Sempre sia lodato. Sì, perché è merito del regno Sabaudo (e mi spiace dirlo ma i Borboni mai tentarono niente di simile) se nacquero le scuole vere, con spirito radicalmente laico e risorgimentale e se i maestri (allora erano quasi tutti uomini, con l’eccezione di donne straordinarie, che spesso furono le prime femministe italiane) iniziarono a popolare la vita civile e sociale dei quartieri delle città come dei borghi più isolati e a “fare gli italiani” insegnando a tutti a leggere, a scrivere e a far di conto, lontani dalla dottrina di santa madre chiesa, con i soldi dei contribuenti e dello Stato e non più grazie alla pia carità dei fedeli e senza più l’imprimatur sui libri siglati dal pontefice. Ed erano altri tempi. E non solo perché la classe dirigente del paese lo era. L'analfabetismo maschile era del 74% e quello femminile del 84%, con punte del 95% nell'Italia Meridionale. E’ in questo mare di analfabetismo - fatto di uomini e donne al lavoro, forti di identità legate alla cultura materiale, lontani dalla lingua nazionale ma pur immersi nella ricchezza delle lingue - che migliaia di maestri e maestre, spesso giovanissimi, hanno esercitato l’arte e il mestiere di insegnare dal 1859 fino alla prima guerra mondiale. Un lavoro duro e entusiasmante. Che ha segnato la storia sociale e anche politica dell’Italia tanto che maestri furono molti dei diffusori del socialismo e dell’anarchismo e i quadri del liberalismo risorgimentale che ha fatto il paese. E tanto che queste figure entrarono nella letteratura nazionale, quella colta e quella popolare.
Mi piacerebbe che quando si evoca il maestro unico – stimolando nell’immaginario collettivo un sapore antico con l’uso del maschile (il maestro, il maestro!), contro ogni evidenza che ci viene dalla situazione reale presente, che è fatta, appunto, da maestre - si ricordassero almeno queste cose. Almeno. E se ne dibattesse anche, guardando al modello di scuola da cui veniamo e riflettendo sui legami conservati e quelli recisi. E, invece, sento che non sono queste le cose che oggi si vogliono evocare ma un’idea generica e un po' fasulla di rigore e disciplina, più fascista che risorgimentale. Ma sul tema della disciplina – quella legata alla relazione, alle grammatiche necessarie ad apprendere e all’autorevolezza della presenza del maestro e della maestra e quella legata all’idea astratta di ordine o ubbidienza - tornerò.

10 settembre, 2008

Maestre (parte 1)


Dunque si parla di maestro unico: si vuole ritornare al maestro unico, al posto di più maestri per classe. Questo propone il governo. Per "risparmiare" – ha ripetuto Tremonti ieri sera a Ballarò. Per "profonde ragioni pedagogiche" ha detto, correggendosi in parte, il/la ministro/a.
E da dieci giorni circa, dopo anni in cui non se ne è mai parlato, ecco che in tv, alla radio e sui giornali ne parlano politici e calciatori, attrici e presentatori, scrittori e cineasti e ognuno a cui va… di questo mestiere si parla, con grande cognizione di causa.

Ho fatto il maestro durante tutta la mia vita attiva e ne ho scritto. E sono stato maestro unico dal 1975 al 1992. Facendolo anche bene. Sono stato anche un sostenitore del maestro unico e un fiero oppositore dei moduli a più docenti. Poi – nel girare per le scuole d’Italia e del mondo - mi sono in parte ricreduto. E in parte no. E nutro dubbi in un senso e nell’altro.
Oggi sento l’urgenza di parlare del merito di questa cosa. In modo libero. Non per slogan o semplificazioni o partiti presi. Con calma.
Così ho deciso di affrontare questo tema in più tappe o parti.

Oggi dico solo una cosa…
… ed è che tutti si ostinano a dire “maestro” ma meglio sarebbe dire maestre. Perché di maestri elementari (o “di scuola primaria” come oggi si definisce) ve ne sono davvero pochini: il 4,6% contro il 95,4% di maestre donne. In Italia. Un record mondiale. Infatti le donne maestre sono l’81,2% in Francia, l’82,9 in Germania, l’81,5% in Gran Bretagna, il 62,2% in Grecia, il 69% in Spagna, 80,8 in Svezia, il 75,5% in Finlandia, l’88,6% negli USA, il 65% in Giappone. Mentre nei paesi del terzo mondo e in quelli definiti emergenti (Cina, India, Brasile) ci sono più maestri maschi che maestre donne, come da noi fino alla fine degli anni ‘50. Ma anche lì in diminuzione.
Questo ha molte conseguenze. Per esempio sui salari di chi insegna e quindi sullo status e sulla percezione sociale della scuola in un paese, il nostro dove, in generale, più che altrove, sono i maschi a guadagnare più delle donne. O per esempio sul rapporto dei bimbi e delle bimbe con una scuola retta dalle donne. In cui sono diverse le forme della relazione educativa tra adulto maschio – bambini, adulto femmina – bambine, adulto maschio - bambine, adulto femmina - bambini.
Sì, forme di relazione diverse, se la questione di genere ha un senso. E lo ha. Diverse nei gesti, negli stili di insegnamento, nella voce, nella presenza corporea, nell’importanza data alle molte cose grandi e meno grandi della giornata a scuola, nelle proiezioni consapevoli o inconscie che inevitabilmente hanno luogo.
Cose di cui si dovrebbe parlare liberamente, ma di cui si parla poco e poco liberamente.

08 settembre, 2008

Pensieri dopo le vacanze


Nel week-end, dopo la ripresa del lavoro, sono stato in giro per il Nord. E anche a Mantova a presentare il bel libro di Eraldo Affinati (La città dei ragazzi) e a parlare di scuola, sotto il titolo di "emergenza educativa".
Update: ora disponibile anche la registrazione.

Si vive meglio che da noi al Nord. Non sono certo luoghi perfetti… ma migliori sì. Eccome. E non solo per chi ha i soldi. Basta entrare negli asili-nido, nelle scuole, nei giardini, negli uffici e nei servizi pubblici, nei trasporti, nei musei, negli ospedali ecc.
Ed è bello vedere che cammini per luoghi popolati da persone di continenti, di mondi diversi, a volte anche inseriti nel vivo delle città, delle attività.

Eppure anche a Nord si sente che l’Italia è un posto difficile per le speranze delle persone che credono in cose di buon senso per chi abita il nostro pianeta oggi giorno: avere costante attenzione alle questioni ambientali, non escludere la gente perché non parla la tua lingua o non ha il tuo colore di pelle, pensare che una società che include è più sicura per tutti, pensare che le semplificazioni estreme non risolvono i problemi in un mondo complesso.

In un articolo su Repubblica di Napoli - tra le altre cose - mi domandavo “cosa davvero è successo, in questi anni, ai tessuti connettivi profondi di Napoli se decine di migliaia di persone, povere e non povere, giovani ma anche non giovani, laureati e non, talentuosi e meno talentuosi, sono già partiti da questa nostra città e oggi sono altrove a vivere”, soprattutto, appunto, nelle città del Nord Italia.
Non è stata una trovata retorica. Me lo domandavo nell’articolo perché anche io sto pensando davvero di andare via: le mie esperienze, i miei genitori, i miei avi mi hanno educato a pensare che la vita è più importante della fedeltà ai propri luoghi. Poi – certo – “Partir c’est mourir un peu”, (partire è anche un po' morire), ma come ricordava Bartezzaghi, Prévert aggiunse "Martyr c'est pourrir un peu" (Martire è marcire un po').
Ma, sia pur con tali pensieri in testa, so bene che vi sono, poi, le questioni italiane, che valgono ovunque e chiamano in causa il senso stesso della politica, da noi e al Sud ancor più, ma anche al Nord.
Le regole potranno un giorno valere davvero per tutti o sarà eterno il double standard italico, il fatto, cioè, che quel che vale per i cittadini normali vale meno o molto meno o per nulla per chi ha responsabilità politica?
Le persone - ciascuna per come è e come sa – possono avere un normale confronto, imperfetto sì ma anche esistente, con chi le governa e con chi si oppone a chi governa senza dover aderire servilmente agli assetti già definiti lontano dalle loro esperienze, dai loro linguaggi, dalla loro vita quotidiana, dalle loro competenze?

01 settembre, 2008

Le domande nascoste dalla nebbia

Il 31 agosto La Repubblica-Napoli ha pubblicato questa mia nota in risposta ad una intervista in cui Claudio Velardi proponeva un rinnovamento dell'amministrazione comunale basato su una "lista civica sganciata dai partiti". L'intervista e gli articoli di risposta sono stati raccolti in questa pagina da d.l., come al solito.

Le domande nascoste dalla nebbia

È davvero difficile commentare le polemiche politiche napoletane di fine agosto: l´assessore Velardi che scopre e ci rivela che l´amministrazione Iervolino non va proprio bene e che, dunque, ne chiede le dimissioni e che propone pure una lista non di partito, da subito. Dall´altra parte, il sindaco che, come da consuetudine, risponde a brutto muso che lei è abituata al duro lavoro di sempre. Per me, poi, sarebbe francamente un esercizio inelegante: ho promosso insieme a molti una lista non di partito e mi sono presentato a sindaco con un programma che, a leggerlo oggi, appare di vero buonsenso, perdendo, però, e sonoramente. Dunque non le commenterò.
Mi domando, invece, se, a mesi e mesi dalle naturali scadenze elettorali, chi vive in questa città possa avere il bene di domandarsi “cose politiche” che, però, non hanno niente a che vedere con candidature annunciate o ipotizzate, improbabili dimissioni e elezioni fuori scadenza, assetti di partito e di coalizione o similari. E possiamo o no almeno ipotizzare un futuro civile nel quale problemi, aspirazioni e pene dei cittadini abbiano cittadinanza in politica, a pieno titolo e prioritariamente? Insomma piacerebbe ogni tanto che invece di ipotizzare scenari politici improbabili, ci si potesse fermare a descrivere e ragionare sulle cose della vita civile.
E mi piacerebbe partire dai discorsi di ogni momento a Napoli, di tante e tanti di noi. Quanto ci metteremo, domani, a raggiungere il nostro luogo di lavoro, se lo abbiamo? Quante persone non si sono potute permettere neanche una settimana al mare per l´ennesimo anno di seguito? È vero o no che viviamo tutti in una città in cui il tasso di famiglie che vive sotto la soglia di povertà raggiunge quasi un terzo del totale, una percentuale che, da sola, ci mette fuori dall´Europa? Ciò ci riguarda o no? Ha o no a che vedere con la speranza - sì, la speranza - o è solo questione di sicurezza? E, in tali condizioni di esclusione sociale di massa, è proprio inevitabile che i prezzi al consumo, anche di pane e pasta, debbano aumentare in misura maggiore che in qualsiasi altra città d´Italia? E ancora: la nostra monnezza - che ora ha ritrovato la via delle discariche indifferenziate come prima della penuria delle stesse - è o no possibile differenziarla come fanno in tanti luoghi, campani e non? E quando si può iniziare a provare a farlo e a insegnarlo ai nostri figli? E, ben più seriamente e anche mestamente: cosa davvero è successo, in questi anni, ai tessuti connettivi profondi di Napoli se decine di migliaia di persone, povere e non povere, giovani ma anche non giovani, laureati e non, talentuosi e meno talentuosi, sono già partiti da questa nostra città e oggi sono altrove a vivere, da soli o con tutta la famiglia? E cosa ancora sta accadendo se - in altre decine di migliaia di persone - ci chiediamo sempre più spesso e seriamente se è venuto anche per noi il momento di andarsene?
La speranza - insomma - la possiamo nutrire e possiamo parlare del fatto che va ricostruita daccapo o no? Si possono fermare le estese reti economiche ed operative della criminalità camorristica? Saranno di nuovo praticabili i diritti fondamentali, a partire da quelli alla libertà e sicurezza personali, alla libera impresa, alla formazione e al lavoro legale, a un minimo di reddito per vivere? Industria, turismo, servizi e commercio legali possono uscire dalla crisi micidiale in cui ristagnano da interi lustri o no? E a quali condizioni? I modelli di sostegno pubblico allo sviluppo economico possono affrancarsi dai deliri centralistici, dall´inefficacia colposa, dalle clientele più o meno buie di questi lunghi anni? Le opportunità di apprendere e sapere e le occasioni di fruizione della cultura dovranno sempre riguardare una minoranza di cittadini o si può ragionevolmente sperare che ci si metta a fondare asili nido, scuole professionali e che le pubbliche istituzioni riprendano a premiare conoscenza, apprendimento, arti e le molte nostre esperienze creative senza le solite speciali protezioni? E le persone competenti nel proprio settore possono un giorno pensare a un normale confronto - normalmente difficile ma anche normalmente costante, costruttivo e anche utilmente conflittuale - con chi governa questo territorio? E tutto questo in quali modi concreti richiede un ricambio di classe dirigente e di classe politica? Con quali procedure partecipative? Con quale innovazione dei modi della rappresentanza? E la politica riguarda queste cose o deve essere presidiata in permanenza da quell´altra roba che ci si ostina a chiamare politica? È tema dell´anti-politica cosiddetta o è la politica?

11 agosto, 2008

Una bella lettura da Fabrizia prima di Ferragosto

Ho deciso di non commentare le vicende napoletane in questo mese: troppo inutile o dannosa appare la cosidetta politica (che tale non sa proprio essere) dinanzi alle cose vere della vita in città... e pure la vicenda italiana appare davvero deprimente.
E' ancora di più il tempo per tornare ai problemi veri, lontano dai famosi teatrini e a tal proposito segnalo un mio intervento sulla scuola che continua a perpetuare l'ingiustizia sociale (è sul denso e interessante sito della Fondazione Internazionale Don Luigi Di Liegro).

E ecco - come omaggio d'agosto in ricordo di altre estati - la bellissima ultima intervista a Fabrizia Ramondino:


"Questi vetruzzi finiti sulla spiaggia mi sembrano tante vite umane, chissà da dove vengono…"

A colloquio con Fabrizia Ramondino
a cura di Franco Sepe


Il titolo alla nostra intervista, che riprende testualmente la citazione messa in epigrafe al tuo libro di racconti intitolato Arcangelo, hai voluto sceglierlo tu. Perché?

Non sono parole mie. Circa trenta anni fa ogni estate o appena potevo andavo sulla Costa Amalfitana, nel Vallone di Laurito, lontano dal turismo di massa, dove assieme a una piccola comune di amici avevamo preso in affitto una casa contadina. Avevamo fatto amicizia con alcuni pescatori e contadini, fra i quali Mario, che una volta sulla spiaggia al suo ritorno dalla pesca, seduto sui ciottoli disse questa frase, soppesando in mano con pensosa gentilezza resti di antichi vetri, mattonelle, stoviglie, levigati dal mare. Ora non si trova più niente, solo frammenti di plastica, né conchiglie, stelle di mare, carcasse di ricci. Mario, che non si era mai mosso da Laurito, tranne che per un breve e infelice tentativo di emigrazione a New York, si chiedeva questo e altro. Una domanda che mi ha indotto a chiedermi che cosa mi interessasse in letteratura: la curiosità verso questi insignificanti frammenti del passato suscita il racconto e il bisogno di restituire i morti ai vivi. Un po' come è accaduto a Proust con la sua madeleine.

Ma anche per te, in quel ritrovamento, c'è qualcosa di perduto.

Sì, la perdita del mare vivo e non distrutto dall'inquinamento, come è nelle sorti del pianeta; oltre che dal turismo di massa, popolare o chic che sia. Siamo lontani dai bei documentari sulle vacanze pagate introdotte da Léon Blum nel '36 in Francia. Una volta erano possibili relazioni umane tra il ceto educativo, al quale appartenevo, e quello proletario. Non ti sentivi un turista. La diseguaglianza sociale non era così grande come ora.

Pensi che il tuo pessimismo ecologico sia in qualche modo in relazione con il tuo personale processo di invecchiamento?

Certo, ho più difficoltà a correre, nuotare, tuffarmi, camminare sugli scogli, scalare montagne, andare in bicicletta. Ma questo non c'entra con quanto vedo, osservo, sperimento in natura. Ti faccio solo un esempio: questa estate ho voluto fuggire il caldo nel bosco di Campello sul parco dei Monti Aurunci, in una tenda. Non lo avessi mai fatto! I giovani più poveri del paese, quelli che non possono permettersi le Maldive, hanno trasformato quei luoghi e quelle notti in una discoteca, mentre più giù divampavano gli incendi. E immondezza ovunque. Se si dispregia a tal punto il proprio luogo, se la luna è offuscata da luci artificiali, se all'ascolto del fruscio degli alberi e degli uccelli notturni si sostituisce musica violenta, allora il mondo è perduto. Ed è un piccolo esempio fra i grandi che devastano il mondo e di cui ci dicono gli economisti più consapevoli. Quanto più sento avvicinarsi la decadenza e la fine della mia vita personale, tanto più vorrei felice e piena di speranza quella dei giovani.

Pensi che tu, come rappresentante di una generazione più adulta, sei corresponsabile?

Certo. Non posso costruirmi un passato esemplare, né un presente esemplare. Tuttavia per formazione, per necessità e per scelta, non sono mai stata consumista, né nell'accumulare beni, anche futili, né nel deturpare la natura. Per esempio non ho mai avuto una macchina, né una lavastoviglie e le mie vacanze si svolgevano in luoghi appartati e non toccati dal turismo di massa che raggiungevo in autostop, bicicletta, treni, traghetti, alloggiando in povere case d'affitto, ostelli della gioventù, tende. E già negli anni '60 i miei amici e io avevamo l'abitudine di ripulire le spiagge non solo dei nostri rifiuti, ma anche di quelli degli altri. I grandi viaggi intercontinentali che ho fatto (Repubblica Popolare Cinese, Canada francese, Australia, Sahara) non sono mai stati turistici, all'insegna per esempio di Avventure nel Mondo, ma sempre con uno scopo politico o culturale. Piccoli gesti, che non sempre compi e che comunque non giustificano irresponsabilità maggiori.

Hai anche cercato di contrastare questo andazzo con il tuo lavoro sociale con i bambini e gli analfabeti dei vicoli di Napoli, con la tua collaborazione fin dagli inizi degli anni '60 all'AIED, dove, come mi hai raccontato una volta, insegnavate alle donne a usare il diaframma anche di nascosto dai mariti, con le tue iniziative sociali verso i Disoccupati Organizzati, negli anni '70, dopo il colera, con la tua testimonianza sull'esperienza basagliana di Trieste o con la tua solidarietà espressa verso il popolo sahrawi, in esilio dal '75.

Come donna, come persona, come napoletana sono stata sempre impegnata nella questione sociale, poco dal punto di vista ideologico molto a livello concreto. La sinistra ufficiale, soprattutto quella comunista, tranne eccezioni, ha spesso considerato le nostre iniziative come inutili – la classica goccia nel mare – o addirittura le ha contrastate. Per formazione politica appartengo al filone del socialismo libertario – la mia tesi di laurea su Proudhon fu pubblicata nel '65 sulla rivista anarchica VOLONTÀ, fondata da Giovanna Berneri, il cui marito Camillo fu ucciso durante la guerra di Spagna dagli stalinisti. Ovviamente ho salutato tutte le rivoluzioni sociali, da quella di Masaniello e di Cromwell alla rivoluzione francese alla Comune di Parigi a quella bolscevica. E naturalmente la lunga marcia di Mao. Ma il potere è una brutta bestia, logora e corrompe chi ce l'ha. Per me esercitare il potere significa che già mentre lo eserciti lo condividi e lo estendi a quanti più individui possibile.

E secondo te come si combatte il potere?

Tanto i grandi poteri, che provocano guerre fra popoli, opprimono le libertà individuali, ignorano il senso del limite, quanto quelli quotidiani, familiari o amicali, si combattono con l'immaginazione, la facoltà di immedesimarsi nell'altro, popolo o singolo che sia. E soprattutto con la diffusione dell'istruzione e della cultura – la vera cultura che non ha niente a che fare con l'indottrinamento ideologico o con l'uso che ne fanno sempre più i mezzi di comunicazione di massa. Se fossi un ministro della pubblica istruzione introdurrei già all'asilo l'insegnamento della musica classica antica e moderna, che con il suo metalinguaggio unisce invece di dividere. Kafka sosteneva che la cosa più difficile al mondo sono i quotidiani rapporti umani. Penso che se questi migliorassero, ci sarebbero meno guerre. La pace comincia in casa, nella comunità, nella polis.

Che cosa hanno significato nella tua storia le parole pace e guerra?

Da bambina ho sperimentato i bombardamenti tanto durante la guerra di Spagna che poi a Napoli nel '44. E ancora oggi non sopporto i botti di capodanno. Ora che vivo a Itri sono circondata da rovine che risalgono ai bombardamenti durante la battaglia di Montecassino. L'unica battaglia che mi piace è quella del nobile Hidalgo contro i mulini a vento.

Credi al male?

Certo, ma non in senso religioso, piuttosto in senso leopardiano. Ricordo una frase di Brecht: "La madre delle guerre è sempre incinta", che volgo in "La madre dei cretini è sempre incinta". Per me il male maggiore risiede nella stupidità umana. Anche nell'abuso della parola pace. Ricordo la lapide, nel cimitero di Poggioreale a Napoli, del padre di una mia vecchia amica, fondatore alla fine dell'Ottocento del Partito Socialista. "Non riposa in pace. Finché…". Ecco io non riposerò mai in pace, finché…

E quindi non credi in Dio?


Faccio mia la frase di Simone Weil: "Cercandomi, sedesti stanco". Penso che ciò che chiamiamo Dio sia presente in tutte le creature animate e inanimate e che ci renda consapevoli della nostra finitezza.

Come riconosci la tua finitezza?

La riconosco tanto nei limiti del mio corpo che della mia facoltà di comprendere. E più in generale nei limiti della conoscenza e del sentire umani. Mi riconosco nel bambino piccolo che chiede continuamente: perché perché?

Ti è mai stata mossa l'accusa di essere egoista?

Sì, ma credo ingiustamente. Se avessero detto egocentrica o egotista mi sarei riconosciuta.

Perché?

Perché credo che nell'accezione comune egoista significhi il contrario di altruista, qualcuno cioè che pensa solo meschinamente a se stesso o che pretende di rendere il mondo intorno a sé simile al proprio. Mi riconosco piuttosto nella definizione di egocentrica o stendhaliana di egotista: essere centrati su se stessi, tanto nel tentativo di "conoscere te stesso", quanto in quello di immaginarti diverso da te stesso. Questo non significa che non abbia peccato di egoismo. Come mi accade con il mio gatto, l'unico essere vivente con cui vivo stabilmente. O con le piante, quando sono troppo pigra per staccare le foglie secche. Ma se per egoismo la gente intende egocentrismo, m'inalbero prima, talora sono anche volgare nel linguaggio, ma poi tendo a ritirarmi sempre più.

A proposito del ritirarsi, a me sembra che, quando ti ho conosciuta circa una ventina di anni fa, tu ti ritiravi meno dal mondo, anche a Berlino.

E' vero. Ma se penso alla mia infanzia, adolescenza, età adulta il momento del ritiro in me stessa conviveva con un atteggiamento panico verso la natura soprattutto, ma anche verso gli altri esseri, animali o umani. In questo senso ero divisa, e lo sono ancora.

Non senti alcuna nostalgia verso il passato, non ti conforta il fatto di aver prodotto un'opera letteraria?


La nostalgia verso il passato è un inutile ingombro. Non può tornare e ne prendo atto. Trovo ridicolo o tragico voler prolungare giovinezza o vita, come è tanto di moda oggi. Per quanto riguarda l'opera scritta, è là. Io di norma non mi rileggo. Né sono in grado di giudicarne il valore o disvalore.

Quali sono le ragioni primarie che ti hanno indotto a scrivere?

Alcuni esempi familiari e la passione per la lettura. E la mancanza di educazione, di stimoli e di doti in altri ambiti culturali, come l'arte e la musica. Poi la curiosità per le parole, accresciuta dalle tante esperienze linguistiche dell'infanzia e della prima adolescenza: l'italiano, lo spagnolo, il catalano, il napoletano, il francese.

Per te la scrittura ha avuto anche una funzione terapeutica?

Certo, è un modo per elaborare il dolore, per abbandonarsi alla gioia panica, per disciplinare emozione e immaginazione attraverso un paziente esercizio artigianale.

C'è nella memoria della tua infanzia, e del tuo passato in generale, un nucleo che ancora resiste e si oppone alla trasposizione estetica?

Penso che ci sia, ma non so quale sia questo nucleo di resistenza. Conosco invece un'altra mia resistenza: quella di scrivere a comando o su ordinazione, non solo di altri, ma della mia propria volontà. Una domanda spesso rivoltami e che detesto è questa: che stai scrivendo, stai preparando un nuovo libro? Come se fossi un'impiegata della scrittura e non potessi mai andare in ferie o in pensione. Come se tutta la mia vita fosse ridotta all'esercizio di un mestiere.

C'è un nesso tra la tua reticenza a parlare nei tuoi libri del periodo trascorso in Savoia, e la morte di tuo padre?

Sono vissuta in Savoia dagli undici ai tredici anni, frequentando le scuole francesi, e poi vi sono tornata spesso. Qui è avvenuta la mia fondamentale formazione letteraria e sentimentale. Il francese è la mia seconda lingua e infatti l'ho insegnata per anni. Ma c'è stato un grande trauma: la morte nel '50 di mio padre davanti a mia madre e a me. A proposito della reticenza ti racconto questo episodio: quando Natalia Ginzburg, stimolata da Laura Gonsalez, Carlo Cirillo, Elsa Morante, leggeva il dattiloscritto del mio romanzo Althénopis, mi consigliò di ampliare le pagine dedicate a mio padre, pensai, ma non osai dirglielo, "non ti rendi conto che non si tratta di ampliare o migliorare la descrizione di un personaggio, ma che si tratta della rimozione di un trauma profondo!" Per molto tempo ho sentito che la morte di mio padre equivalesse all'avermi abbandonata. Solo dopo, con un grande sforzo psicologico, sono riuscita a non mettermi al centro del mondo rispetto a lui, ma a considerarlo indipendentemente da me e gli ho dedicato un racconto contenuto nella raccolta Storie di patio dal titolo "Il prefetto Luigi Ferdinando Baldaro". Anni dopo gli ho dedicato un capitolo nel libro In viaggio.

Fra i tuoi libri ve ne sono alcuni di marcato impegno sociale come: "I disoccupati organizzati. I protagonisti raccontano" (Feltrinelli, 1977), "Polisario. Un'atronave perduta nel deserto" (Gamberetti, 1997), "L'isola dei bambini" (Edizioni e/o, 1998), "Passaggio a Trieste" (Einaudi, 2000), mentre tutti gli altri, tematiche autobiografiche a parte, sono opere di immaginazione. Perché questa dicotomia?

Credo corrisponda al mio modo di essere nel mondo. D'altra parte una delle difficoltà che incontrano i lettori e i critici rispetto ai miei libri è quella di non riuscire a catalogarmi in un filone preciso: non è una scrittrice napoletana, non è un poeta, non è una drammaturga, non è una saggista, non è una romanziera. Ma perché si dovrebbe entrare in un solo cassetto? In quale cassetto chiuderesti ad esempio Pasolini?

Che cosa ti ha spinto a scrivere con Mario Martone le sceneggiature di Morte di un matematico napoletano e dell'episodio "La salita" nel film collettivo I vesuviani?

E' stata una fortuita e fortunata coincidenza. Mario mi chiese di collaborare alla sceneggiatura del "Matematico" e io all'inizio rifiutai. Poi accadde qualcosa in me: il matematico Renato Caccioppoli era stato grande amico di gioventù di mia madre e di alcuni zii e zie e rappresentava un mito giovanile per me perché era a Napoli un outsider come mi sentivo io stessa negli anni '50

E il teatro?

Ho scritto varie pièces teatrali di cui due soltanto rappresentate e pubblicate, le altre sono nel cassetto. Non so se un giorno avrò voglia di tirarle fuori.

Sembra quasi che in te il mestiere di scrittore sia nato sulle ceneri del tuo lavoro sociale e politico. O non trovi che sia così?

Non è così. Ho cominciato a scrivere racconti, romanzi e poesie fin dall'adolescenza e ho continuato anche durante gli anni più intensi del mio impegno sociale e politico. Ho solo pubblicato tardi.

Come è avvenuto l'impatto con la scrittura?

Dopo aver sperimentato la differenza tra parole e cose, che non corrispondevano, prima in Spagna e poi nella penisola sorrentina, durante gli ultimi bombardamenti tedeschi, è accaduto in Francia che, come per miracolo, parole e cose cominciassero a coincidere. Ero adolescente e la lingua francese è diventata la mia lingua. Verso i quattordici quindici anni ho scritto le mie poesie in francese. Solo a fatica e molto più tardi ho avuto dimestichezza con la lingua italiana. Nell'intrico di lingue nel quale ero vissuta, a cui bisogna aggiungere poi il tedesco, e nel disordine dei miei studi di base e poi universitari, la letteratura italiana mi era poco nota, anche a causa dei pessimi insegnanti. Tramite mio marito e i suoi amici, ma prima ancora nei viaggi in autostop con un mio cugino durante i quali leggevamo Montale Ungaretti e Campana, ho letto Ariosto Tasso Dante Leopardi. Ma tra i miei grandi momenti d'introduzione alla letteratura italiana c'era anche un prete spretato napoletano, che mi chiese di battere a macchina sotto dettatura un suo saggio su Dante e che, stimolato dalla mia ignoranza, generosamente rinunciava alla sua segretaria per leggermi la Commedia e spiegarmela. Era quello, verso la fine degli anni Cinquanta, un tempo felice in cui chi nel PCI chi nel PSI – litigando ovviamente – si leggevano i poeti, Lorca Neruda Prévert Majakovski, si mangiava insieme, si sbevacchiava poco: poesia e politica avevano il sopravvento su alcol e sigarette. Al circolo del cinema veniva Nazim Hikmet, che ci introduceva in altri mondi. E con l'immaginazione si andava oltre la nostra misera politica italiana e napoletana.

Quali sono stati gli scrittori più importanti per la tua formazione letteraria?

Tanti, nell'adolescenza soprattutto i russi e i francesi. Poi quelli che ho nominato. Infine a metà degli anni '60, durante il mio secondo soggiorno milanese, vi fu per me la scoperta di La cognizione del dolore di Gadda. A quell'epoca scrissi la terza parte di Althénopis, rimasta tanti anni nel cassetto e poi raggiunta dalla prima e dalla seconda parte.

Dunque, vi era stato già un periodo milanese.

Sì, il nostro piccolo gruppo amicale e/o coniugale alla fine del '59 si era trasferito a Milano in cerca di lavoro, come tanti napoletani. Nonostante fossimo tutti molto poveri, fu un periodo felice. Tonino venne assunto alla Motta, che lasciò dopo appena un mese: era seduto dietro un tavolino e doveva contare i panettoni che gli passavano davanti su un montacarichi, che spesso doveva rincorrere. Scherzava sulle scritte alla Mensa, volgendole in decalogo: Non nominare il nome di Motta invano, non desiderare la Motta altrui, non motteggiare… Era stato raccomandato dal futuro suocero per entrarvi e quando si licenziò il suo dirigente gli disse: Lei sputa sul pane. E lui replicò: No, sul panettone. Mario invece non fu assunto alla Pirelli perché comunista. Livio ora faceva il soffiatore di vetro in una fabbrica di bottiglie, ora faceva il correttore di bozze all'Avanti. Mio marito faceva il garzone di bell'aspetto presso mia zia, che aveva un magazzino di antiquariato in Via della Spiga. Trascorrevamo le serate alla trattoria dell'Angelo e al Bar Giamaica a Brera, che allora non erano chic come oggi, ma frequentati da operai e studenti poveri. A Piazza Duomo si discuteva fino all'alba con le persone più strane. Io, ho tradotto tre libri, uno al nero su Kokoschka, due con la mia firma, per Il Saggiatore e per Schwarz. Poi ho lavorato come segretaria presso una società che vendeva a ricchi tedeschi e milanesi appezzamenti di terreno nell'allora costruenda Brasilia. Ma risultò un imbroglio, vendevano pezzi di foresta vergine. Una mattina dinanzi all'ufficio trovai la polizia. Per fortuna, essendo un piccolo impiegato, non fui implicata. Devo anche dirti delle mie difficoltà per trovare un lavoro di segretaria con conoscenze di tre lingue, dattilografia e stenografia. Superati brillantemente colloqui e prove, misteriosamente non venivo accettata. Questo perché da poco era stata varata una legge che tutelava le donne durante la gravidanza e dopo. E siccome ero sposata, temevano una gravidanza e non assumevano. Insomma fatta la legge, creato l'inganno.

Insomma, mi sembra che Milano sia stata importante per te.

Quell'anno sì. Mentre nel 68-69 rincorrevo la città di dieci anni prima. Era già tutto cambiato. Ma tra le città italiane dove sono vissuta e che prediligo, ho amato Milano per la sua carica umanitaria, socialista, industriale, mentre ho sempre detestato Roma.

Perché?

Forse a causa della "romanità" fascista. Forse perché centro del potere pubblico, amministrativo, religioso. Forse perché avrei auspicato, come sosteneva Braudel, che la vera capitale d'Italia avrebbe dovuto essere Napoli, la porta dell'Occidente verso l'Oriente e dell'Oriente verso l'Occidente. Mi ha sempre colpito poi l'epigrafe di Savinio al suo saggio su Maupassant: "Maupassant era un romano". Che mi spiego con la differenza che traccia Gadda tra Eros e Priapo. A Roma sento Priapo, a Napoli Eros.

Ma prima del tuo periodo milanese c'è stato quello tedesco, dal '54 al '57.

Sì, con alcune interruzioni, viaggi in autostop attraverso l'Europa, brevi soggiorni romani. Quello che avevo da dire l'ho scritto nel Taccuino tedesco. La mia esperienza con la Germania non può essere chiusa dal momento che i miei due nipotini vivono con mia figlia a Berlino e sono bilingui. Ma da molti anni, quando vengo a Berlino, mi sento come una casalinga italiana o turca in visita ai parenti. Non sono più curiosa. Come detesto la vita cultural-mondana in Italia – anche per questo vivo a Itri – così la detesto in Germania. Anche se ogni paio d'anni vi presento i miei libri. Ma più per ragioni di mercato che per altro. Come sai, una certa critica mi apprezza, ma vendo poco. Berlino mi piace d'estate, quando si può andare ai laghi. Come il Sud Italia quando si può andare al mare in luoghi protetti dalla folla.

Ti capita qualche volta di soffrire la solitudine?

No. Soffro di troppa famiglia – se se ne estende il senso agli amici. Ai tanti compagni di strada conosciuti nel corso della mia vita disordinata e poco lineare negli amori, nelle attività sociali, politiche, culturali. Forse è stato tutto troppo, tante vite in una sola. Un'immensa folla di vivi e sempre più di morti, nella quale mi sono aggirata. A cui bisogna aggiungere i tanti scrittori letti, di cui riconosco i volti, come se fossero vivi. Perciò non sono sola. Ma vorrei esserlo di più. Me ne accorgo quando mi concentro. Anche su una sola parola. E questa parola scaccia i troppi fantasmi.

E quale parola sceglieresti in questo momento?

Non più il vetruzzo approdato sulla spiaggia, che reca le tracce di tante vite umane. Ma un piccolo semplice sasso in cui è inscritta la storia dell'universo, che mi è ignota.

Nota
Questo colloquio, che ne avrebbe dovuto includere numerosi altri per espandersi e dar luogo a un libro-intervista, come era nostra intenzione fin dal primo momento, è ciò che oggi rimane dopo l'improvvisa scomparsa di Fabrizia Ramondino, maestra di impegno e di scrittura, oltre che carissima e insostituibile amica, avvenuta nello scorso giugno.

01 luglio, 2008

Appello dei cittadini per un'ordinanza a favore della raccolta differenziata d'emergenza dei rifiuti a Napoli

Questo è il testo dell'appello promosso da Antonio Risi e da me e che è stato oggi pubblicato da Repubblica Napoli.
Chi volesse sottoscriverlo può aggiungere il suo nome nei commenti.


Napoli soffre da troppo tempo la "crisi dei rifiuti". Come cittadini riconosciamo e individuiamo le responsabilità in scelte sbagliate. Ma oggi è più importante rendere pubblica la volontà di tanti cittadini della città a sostenere soluzioni di buon senso.
Siamo, infatti, convinti che l'uscita dalla crisi è possibile se vi è l'immediata attivizzazione di noi cittadini per differenziare i nostri rifiuti. E pensiamo che sia un errore parlare di "discarica per rifiuti tal quali", categoria negata dalla normativa nazionale ed europea. Per essere coerenti con le direttive europee e gli obiettivi di Kyoto, infatti, i rifiuti possono essere conferiti in discarica solo dopo essere stati vagliati, pre-trattati e campionati e comunque la discarica deve prevedere un sistema di recupero del biogas o un impianto di stabilizzazione della frazione organica all'ingresso.
Tuttavia, nell'amministrazione della nostra città, si continua ad affermare l'idea che prima si risolve l'emergenza, in via ancora una volta straordinaria e in deroga alla norma vigente, mettendo tutto per ora "tal quale" nelle discariche per togliere i rifiuti dalla strada e solo dopo si può pensare a una diretta responsabilizzazione di noi cittadini.
Noi pensiamo, invece, che è possibile essere subito propositivi e attivarsi e, al contempo, andare finalmente nella direzione della legge e delle indicazioni europee. Pensiamo anche che i cittadini se lo attendono, che lo reclamano. E non in un solo quartiere in via sperimentale ma in tutta la città. Perché molti, nonostante tutto, continuano a differenziare. Perché, negli anni passati, in molti abbiamo mostrato di saperlo fare. Perché nelle nostre famiglie che vivono in comuni in cui si differenzia vediamo che funziona. Perché non vogliamo più rimandare l'apertura di un fronte civile. Perché la nostra volontà di reagire non può essere commissariata come tutto il resto. Perché siamo cittadini italiani ed europei come gli altri e sappiamo assumerci impegni e responsabilità in modo diretto e costruttivo.
Vogliamo differenziare subito. Contro l'idea di "rifiuti tal quali".
E' ora di dare risposta ai nostri sentimenti di esasperazione e frustrazione e a uno stato di minorità. Vogliamo partecipare a un segno collettivo di speranza e soluzione. E chiediamo, semplicemente, di essere messi alla prova e che sia perciò immediatamente emanata un'ordinanza che proibisce dal primo luglio - su tutto il territorio comunale - il conferimento di rifiuti indifferenziati ed imponga, come avviene in altri luoghi della Campania, che tutti i rifiuti siano conferiti separatamente e solo nei sacchi e nei contenitori forniti dal Comune stesso.
Non pensiamo, evidentemente, che in un mese a Napoli si possa ottenere la raccolta differenziata vera e propria. E sappiamo che organizzare il "porta a porta" richiede più tempo.
Intanto, però, a partire dal primo luglio - per rispondere all'emergenza estiva - tutti i cittadini possano essere chiamati con forza a conferire i loro rifiuti organizzandoli in diversi contenitori e sacchi forniti dal Comune:
- uno piccolo per i rifiuti pericolosi (pile, medicinali, acidi, solventi, vernici ecc.) che possono essere raccolti una volta a settimana,
- uno grande traslucido che contenga - uniti o, a loro volta già differenziati al suo interno - plastica, alluminio, vetro, carta e cartoni e che può essere raccolto due volte a settimana
- e soprattutto uno piccolo dove mettere ogni giorno il materiale organico, ovvero quello che puzza, marcisce e non si può tenere a lungo in casa, soprattutto d'estate.

Siamo convinti che il risultato potrebbe essere positivo in modo sorprendente e che, comunque, tali semplici misure darebbero un segno di speranza e civismo e che questo non entrerebbe in contrasto con tutte le iniziative volontarie attivate o da attivare (campane per il vetro e per le plastiche, raccolta di cartoni e imballaggi commerciali, raccolta porta a porta in quartieri pilota, isole ecologiche, convenzioni con le scuole o con le parrocchie, ecc.). Anzi, le esalterebbero.
Se si agisce così subito forse il sistema di raccolta e smaltimento non sarà ancora in grado di svuotare le strade dai sacchetti. Ma almeno vi saranno più sacchetti ben confezionati e meno monnezza "tal quale", un segnale di avvio di qualcosa, che i cittadini vedranno in TV, che i nostri figli potranno registrare.
Se si agisce così subito non vi sono contro-indicazioni di merito. L'avvio immediato della differenziazione, come provato dalla vicenda dei cartoni che ha subito dato risultati, riduce comunque la probabilità che il sistema di raccolta e smaltimento collassi. Separare i rifiuti pericolosi, quantitativamente limitati, comunque ne favorisce il corretto smaltimento. Spedire i sacchi non organici in Germania o anche in impianti più vicini comunque sarà più facile e più economico. E i sacchi dell'organico saranno trattati comunque con maggiore efficacia e senza produrre ecoballe dagli impianti ex CDR giustamente dedicati alla stabilizzazione della frazione organica.
Ma più importante ancora: si tratta di un'azione educativa, simbolica e di riscatto che non è più dilazionabile. E se Napoli compirà questo piccolo miracolo sarà forse più facile anche trovare un accordo con le altre località individuate per realizzare presto un sistema di discariche di standard europeo, localizzate con criteri razionali in aree a bassa densità abitativa e buone condizioni idrogeologiche.
Perciò noi chiediamo, noi speriamo che il Comune di Napoli accolga questo appello a un'ordinanza municipale per la "raccolta differenziata d'emergenza".
Forse ci saranno zone della città che rispetteranno poco l'ordinanza - o forse no - ma, se daremo già queste istruzioni semplici e comprensibili, la stragrande maggioranza dei cittadini napoletani sarà felice di partecipare ad una azione di riscatto civile. Perché non ne possiamo più della puzza e dei roghi, perché tutti temiamo l'estate e perché vorremmo in tanti potere avere la possibilità di un'attivizzazione concreta, fatta con strumenti semplici, operativi che, ad oggi, non abbiamo avuto.

Valentino Alaia, Franco Adamo Balestrieri, Luciano Brancaccio, Antonio Centomani, Sara Celentano, Pietro Cerrito,
Maria Laura Chiacchio, Giuliana Chiaiese, Lino Chimenti, Stefano Consiglio, Maurizio Conte, Flavia Columbro, Giulio Corbo, Edoardo Cosentino, Mara D'Avino, Raffaele De Luca Tamajo, Bruno De Felice, Donato Di Donato, Elvira Di Donato, Raffaella Di Lauro, Antonio Di Nitto, Maria Donisi, Anna Esposito, Sergio Fedele, Patrizia Ferrandes, Carla Franco, Norberto Gallo, Adriano Giannola, Gabriella Gribaudi, Francesco Iacotucci, Teresa Iarrobino, Desirèe Kuhne, Giulia Larizza, Carlo Lauro, Daniela Lepore, Maria Liccardo, Caterina Loffredo, Fabiana Martone, Giovanna Martorelli, Mario Martorelli, Mario Mastrocecco, Aldo Masullo, Annalisa Mignogna, Paolo Monorchio, S. Morra, Ida Napolitano, Carla Orilia, Rossella Paliotto, Sara Parlato, Roberto Pennacchio, Emilia Perriello Zampelli, Enrico Rebeggiani, Antonio Risi, Danilo Risi, Pina Romano, Marco Rossi-Doria, Nunzio Rovito, Sara Santorelli, Dario Scalella, Dario Scognamiglio, Raffaele Settembre, Serena Taglialatela, Anna Talotti, Roberto Vallefuoco, Susi Veneziano, Andrea Vitolo.

Tiemp bell ‘e na vota

Città di Napoli, ottavo anno del secolo, primo dì del mese di luglio. Faceva caldo. E puzzava davvero la monnezza sulle strade di molte periferie e anche del centro. Ormai da mesi e mesi. Tanto che erano sparite le foto sui cartelloni pubblicitari che mostravano la città linda e pinta in barba alla realtà. Neanche l’inventore di quella forma crudele di propaganda – uno scaltro assessore, esperto in un’arte di quel tempo, la “comunicazione” - osava più farli affiggere, tanto era stridente e dunque controproducente, ai fini della sua stessa arte, il rapporto tra quel che i cartelloni mostravano e le stimolazioni che la monnezza recava alla vista e all’olfatto dei cittadini da così tante settimane.
Monnezza era il termine – un nome comune collettivo, usato al singolare, come si fa ancor oggi per altre entità plurali quali gregge o squadra - che allora era d’uso per definire quel miscuglio malodorante fatto, appunto, di più cose: plastica, carte, cartone, rifiuti organici, vetro, acidi, copertoni, ferraglie, materassi e quant’altro. Perché allora in quel di Napoli si usava ancora mettere insieme cose così diverse che si erano consumate mentre in tanti luoghi di Ponente e di Levante già si trattavano in modo differente e secondo le nature diverse di ogni cosa. E in quel di Napoli si usava ancora allora, inoltre, gettare tale monnezza per le strade in buste. Sì, per le strade. Perché le discariche – luogo dove, in barba alla stessa legge di allora si accumulava questa stessa collettiva monnezza tal quale – erano stracolme da anni in quelle lande; ed era divenuto vieppiù difficile trovarne altri di luoghi adibiti a queste discariche senza che gli abitanti delle zone attigue si ribellassero per il gran tanfo che questa monnezza emanava.
Così le buste che contenevano tal monnezza stazionavano per lunghi giorni in mezzo alla città, nei pubblici spazi, in quel avvio di luglio napoletano. E si aprivano. E riversavano il loro multiforme contenuto per le strade, dove, appena pioveva la monnezza prendeva la via dei tombini, allagando le carreggiate regolarmente mentre quando v’era il solleone, come in quelle giornate, le buste e i suoi contenuti venivano bruciati da cosidetti vandali per coprire con la puzza della plastica accesa il tanfo che emanavano. Ma quella plastica bruciata diffondeva a sua volta nell’aere la diossina, una sostanza assai nociva, che invadeva i polmoni soprattutto di anziani e bimbi e contribuiva a favorire dolorose malattie mortali. Quando, invece, ristava per strada, la monnezza nutriva ratti e gabbiani che, ingurgitandola, divenivano giganteschi e ogni tipo di insetti, protozoi, batteri, pronti a colpire animali e umani con infezioni che recavano nomi arcaici: tifo, salmonella, scighella, colera, giardia.
Mentre tutto ciò accadeva, nella fresca brezza della Svizzera a oltre mille chilometri più a Nord, dove la monnezza veniva da tempo già trattata come si conviene, Sofia Loren, una talentuosa attrice e dama di gran portamento di quel tempo, dalla lunga e premiata carriera e ormai già avanti negli anni – che viveva in una villa di lusso a Ginevra e naturalmente possedeva ricche case in ogni dove – veniva a sapere, grazie a un foto inviatele non si sa da chi, che la sua casa d’infanzia in quel di Pozzuoli, mai frequentata negli ultimi settanta anni né di sua proprietà, era circondata, appunto, di monnezza, cosa che le doleva assai.
Povera ignara era, tuttavia, della bella novella. Nessuno, infatti, le aveva comunicato che in quegli stessi giorni la Signora sindaco della bella città di Napoli aveva già provveduto a tutto risolvere riguardo alla monnezza poiché aveva deciso di fare costruire un inceneritore di monnezza ad Agnano, antico luogo termale non distante da Pozzuoli. Sì un inceneritore, detto termovalorizzatore perché, se mai la monnezza non fosse stata umida, il suo bruciare, entro apparecchi in luoghi chiusi, poteva produrre energia. Termovalorizzatore, o, per gli amici, Termo, semplicemente. Così lo si chiamava. E l’eccitamento era stato tale – all’annuncio della Signora sindaco - che qualcuno tra i suoi consiglieri aveva gridato: ecco il Termo di Agnano, in luogo delle vetuste Terme di Agnano. E qualche altro, preso dal medesimo entusiasmo, aveva iniziato a disquisire, sui giornali locali, circa le forme che l’edificio del Termo stesso avrebbe potuto assumere: a guisa di guglie vistosamente colorate, secondo lo stile d’Oriente o dalle forme più lineari e sobrie secondo mode architettoniche più in uso in Occidente. Nel clima generale, sempre più entusiasta, la Signora sindaco della bella città di Napoli, indifferente all’olezzo che il bruciare del sole di quei giorni e i fumi della famigerata diossina spargevano per la città, aveva organizzato una visita guidata per assessori e membri del consiglio comunale, a un Termo molto lodato in quel tempo, sito in quel di Brescia, che pareva divorasse monnezza come un dragone. Le spese di andata e di ritorno erano a carico dei contribuenti perché si trattava evidentemente di un sopralluogo di pubblica utilità in vista della realizzazione del Termo di Agnano.
Ma di tutto questo fattivo ed entusiasta operare la signora Loren, nella sua magione elvetica, nulla poteva sapere e dunque – pare – non riuscisse a darsi pace per la sorte capitata alla sua casa natìa. Nè poteva gioire la signora Loren del fatto che il Termo di Agnano sarebbe stato eretto, con un decor o con un altro, nei tempi consueti e comunque entro il primo quarto del secolo con buona probabilità. Né poteva felicitarsi la signora Loren del fatto che, intanto, entro il tredicesimo anno del secolo e dunque con indispensabile ponderatezza, ogni parte della monnezza si sarebbe potuta dividere l’una dall’altra anche a Napoli - come riconosceva certo Signor Mola, un solerte assessore di allora - così come tanti già da tempo avevano appreso a fare nella stessa città, nonostante che la Signora sindaco e il signor Mola stesso, giustamente prudenti, ritenessero tale pratica certamente saggia ma del tutto prematura e nonostante che già si operasse in tal modo da mezzo secolo nelle città dell’Universo Mondo e ormai da tempo anche nei borghi vicini alla bella Napoli. Né poteva avere soddisfazione l’elegante signora Loren – nella sua lontana Ginevra – del fatto che, in attesa del tredicesimo anno del secolo, l’esercito, entro qualche mese, avrebbe aperto, manu militari e anche a rischio di qualche ferito o peggio, una vecchia cava, fortunatamente lontana dalla natìa e sempre amata Pozzuoli, ove la monnezza, intanto rimasta tale e quale e dunque ancora degna del suo esser nome collettivo, poteva ristagnare a lungo, così come avveniva, in altre cave o grandi scavi, da dieci lustri almeno in giro per quella Terra felice.

23 giugno, 2008

Fabrizia Ramondino


Stasera è morta sulla spiaggia vicino a Itri Fabrizia Ramondino.
Scrittrice, amica di tanti di noi per tanti anni.
Se ne va un pezzo di noi e siamo molto tristi.

Appuntamento: Per ricordare Fabrizia, a Itri domani giovedì 25. Prima in via San Martino alle 17,15, poi al castello.

Aggiornamento: ho scritto il pezzo che segue per Repubblica Napoli; Daniela ne sta raccogliendo molti altri dedicati a Fabrizia.

Il mondo è fatto strano. Capita di morire al contatto dei luoghi e tra i gesti a cui si è attaccati per piccolo piacere, mille volte ripetuto negli anni di ogni età trascorsa, per quella grazia della vita che è la consuetudine.
Fabrizia ha chiesto che le si facesse un caffè, da sorseggiare dopo il bagno a mare nel trascorrere del pomeriggio. Fabrizia adorava il caffè, l’attesa del caffè e il fatto che “quello uscisse”. Ma è morta sulla battigia prima del caffé, lei che amava fermarsi e stare sul bagnasciuga. Quante volte proprio tra mare e spiaggia con gli amici ha parlato, con le parole prese dai molti mondi che – come lei diceva – le avevano fatto da madre o da balia. Davanti al mare: quante cose adorabili e dolorose dei suoi libri rivelano l’anima del mare e la nostra con essa. Le piaceva il mare a Fabrizia. Nuotava e nuotava bene e a lungo, con quel crawl elegante, filiforme e tenace nonostante ogni cosa. Un po’ com’era lei e la sua scrittura: “lo stile della mia scrittura coincide con il mio corpo, contenitore fragile della dismisura”.
Fabrizia ci lascia e siamo addolorati. Perché le vogliamo bene. Perché con lei muore un pezzo di tante e tanti di noi; e di noi in questa città. Fabrizia Ramondino, infatti, è appartenuta a una schiera di persone che hanno dato a questa città un’asciutta testimonianza e un metodo di presenza civile. Per libera scelta disincantata. In faccia alla rudezza delle cose di Napoli ma “mischiata per mezzo” con esse. E oggi viene da ricordare le sue biografie dei disoccupati e le sue prese di posizione contro le mille esclusioni sociali che qui non hanno fine. E le sue giornate con i bambini della Torre a Quarto e della Pigna dove Fabrizia ha lavorato ogni giorno dalle 9 alle 16, per 6 anni, prendendo dalla vita gli argomenti per aprire con i ragazzi le vie del sapere andando con loro in giro, fermandosi poi in una stanza semivuota qualsiasi, tra campagna immiserita e periferia esclusa. E lavorando, poi, tutte le sere all’Aied quando educare alla contraccezione era un crimine in questo Paese, punito col codice penale e la galera. “Così - ricordava Fabrizia - ho celebrato il mio passaggio all’età adulta”. E’ stato un passaggio comune a tanti, ognuno nel suo campo e, poi, una presenza prolungata nel vivo delle relazioni sociali e civili della città. Persone di ogni ceto. E, sissignore, anche borghesi, “signori”. Perché, come una volta scrisse Fabrizia: “Se l’esempio non viene dai ‘signori’ essi non sono degni di essere tali”.
Con la morte di Fabrizia cade via ancora un pezzo di questa civile presenza. Generosa, fattiva, piena di errori, a volte profetica, certamente libera. E perciò radicalmente lontana dalle appartenenze ottuse, dalle convenienze e dalle servitù intellettuali che – come Fabrizia ben vedeva –hanno incupito la città.
Ma dobbiamo a Fabrizia altro ancora. “Straniera in patria” per storia di famiglia e vocazioni, Fabrizia ha saputo guardare a Napoli anche “di lontano”, aiutandoci a dire a noi stessi dove eravamo chiamati a vivere e ad agire. Ecco come lo spiegava - a se stessa e a noi - in un passaggio dei suoi Taccuni tedeschi: “Chi non è vissuto in una città balia ma solo in una città madre, difficilmente potrà comprendere come le ordinate costellazioni celesti a immagine dell’ordine terrestre – spirituale, sociale, politico – siano indifferenti al napoletano mentre nella via lattea egli ritrova quell’indistinto luminoso brulichìo, privo di forme e di nomi, quel caos chiaro e nutriente, specchio celeste della sua città”.
Ma soprattutto la dobbiamo ringraziare perché il “fare civile” disincantato nel mezzo del brulichìo di Napoli non ha distolto Fabrizia dal donarci i suoi romanzi e bellissimi racconti. Perché sapeva le vie che tengono unite eppure distanti le cose crude della vita e la tessitura della scrittura, che le trasfigura ogni volta. E anche per il suo ridere di cuore, all’improvviso, nel mezzo del suo non facile carattere e delle fatiche della vita. Per una frase, un ricordo, un episodio esilaranti.

Nonsolomonnezza

Per una volta telegrafico.
Consiglio l’articolo di Maugeri apparso sul Sole24ore. Parla dei fatti concreti che hanno connotato e connotano la cattiva amministrazione della nostra città. Come tante volte si è detto, qui e altrove: non è solo monnezza.
E non stavamo fuori di testa quando ci siamo opposti su tutta la linea.

18 giugno, 2008

Tempi bui davvero. E una poesia

Purtroppo il Berlusconi III non sarà il terzo tempo dello statista a cui chinarsi con il cappello in mano, come ha annunciato Bassolino.
Tutt’altro. La banda Berlusconi è quella cosa brutta – arroganza anti- liberale, distruttiva dei fondamenti della nostra fragile Repubblica, forza violenta con i deboli e debolezza con i forti, ignoranza greve e diffusa nella sua compagine per cui succederanno cose terribili…
Che iniziano a succedere, nel grande – come si vede innanzitutto dall’attacco ai più deboli, dall’idea dell’esercito per le strade e di continue e gravi leggi liberticide di emergenza (approvate dai nostri governanti campani), e poi dalle faccende che riguardano l’attacco alla magistratura per difendere i fattacci suoi, che fanno più scandalo ma non sono così gravi.
Ma anche nel piccolo. E nel piccolo (che piccolo non è) ecco una lettera ricevuta oggi che riguarda gli esami di maturità (in fondo io mi occupo prevalentemente di scuola), prova scritta di Italiano di stamattina:

Domani – e ce lo auguriamo – si scateneranno sui giornali le voci autorevoli dei critici di Montale per irridere l’analisi del testo offerta agli studenti nella prima prova dell’Esame di Stato. Ma varrà la pena anche di sottolineare la condizione in cui si sono trovati gli insegnanti di italiano che stamattina, nel rituale dell’apertura della buste, hanno visto spuntare l’ “osso” montaliano Ripenso il tuo sorriso. Una poesia molto bella, assente in genere dalle antologie scolastiche e, di conseguenza, presumibilmente non conosciuta dagli studenti. Anche a chi di noi quei versi non fossero immediatamente presenti nella memoria non potevano non apparire evidenti le incongruenze tra quel testo e le domande che guidavano l’analisi, imperniate per lo più sul ruolo salvifico della donna nella poesia di Montale. Ma chi ricordasse quella pagina degli Ossi di seppia, aperta per altro dalla dedica “a K”, inspiegabilmente omessa dal testo ministeriale, e la riconoscesse come una poesia dedicata al ballerino russo Boris Kniaseff, conosciuto dal poeta a casa dell’amico Francesco Messina, non sapeva davvero se, leopardianamente, far prevalere “il riso o la pietà”. E’ prevalso naturalmente il senso di responsabilità nei confronti degli studenti che non abbiamo voluto turbare con la notizia che quella che dovevano percorrere era una pista grottescamente falsa per l’analisi del testo. Ed abbiamo lasciato che impiegassero le loro menti giovani e fertili per rispondere a domande che chiedevano ragione delle immagini relative “al ruolo salvifico della donna” presenti nella prima strofa della poesia o di interpretare “la ‘pensata effigie’ della donna”. Per non dire del così detto “approfondimento”, in cui si chiedeva di sviluppare il tema del “ruolo salvifico e consolatorio della figura femminile” presente in altre opere di Montale o di altri scrittori. Quando gli studenti sapranno in quali condizioni sono stati messi stamattina, non potranno non riflettere sulla sfasatura tra l’attenzione e il rigore con cui, in generale, la scuola li abitua a leggere i testi letterari e la cialtroneria che presiede alla compilazione delle prove di un esame tanto ancora retorico e pomposo nella forma quanto becero nei contenuti culturali sigillati nelle buste ministeriali. E non potremo che rispondere che la filologia, nel suo senso più alto di accertamento del dato, di rigore metodologico, di cautela, non appartiene a chi ci governa. Bologna 18 giugno 2008

Gabriella Fenocchio, Barbara Rosiello, Maria Luisa Vezzali, Paolo Ferratini

L’unica cosa che lenisce, ma solo un po’, è rileggersi la poesia di Montale.

A K. Ripenso il tuo sorriso, ed è per me un’acqua limpida
Scorta per avventura tra le petraie d’un greto,

esiguo specchio in cui guardi un’ellera i suoi corimbi;

e su tutto l’abbraccio d’un bianco cielo quieto.


Codesto è il mio ricordo; non saprei dire, o lontano,

se dal tuo volto s’esprime libera un’anima ingenua,
o vero tu sei dei raminghi che il male del mondo estenua

e recono il loro soffrire con sé come un talismano.


Ma questo posso dirti, che la sua pensata effigie

sommerge i crucci estrosi in un’ondata di calma,
e che il tuo aspetto s’insinua nella mia memoria grigia
schietto come la cima d’una giovinetta palma…

15 giugno, 2008

Doppio compito?

Perdonatemi ma insisto. Si deve fare qualcosa.

Otto giorni fa, il giorno 6 giugno, dopo una seria riflessione, dati alla mano, ho fatto su Repubblica Napoli con Antonio Risi una proposta moderata, seria che metteva insieme le leggi normali e una proposta pratica di azione civica a favore di una prima differenziazione in questa città con il sostegno del Comune, che è a ciò preposto.
Questo approccio pragmatico ha avuto il sostegno di vari blog, di associazioni e singoli.

Ma poi: nessuno nell’amministrazione e nel consiglio comunale prende posizione ufficiale. Così si perpetua l’idea che la monnezza non differenziata per ora continui a finire “tal quale” nelle discariche, in barba a ogni legge vigente.
E l’assessore Mola? Ci si sarebbe aspettato che dicesse “buona idea”, “vediamo se si può fare, almeno in parte” “sosteniamo una prima mobilitazione su ciò”, “il Comune si farà supporter e dunque protagonista”.
Invece: in un’intervista risponde - sempre su Repubblica – che la questione della raccolta differenziata è già oggetto di piano…. Ed è previsto per il 2009 e oltre.
Tant’è. E il minimo che si può constatare è che ogni volta che nasce una proposta di pur timida attivizzazione, l’amministrazione anzicché caldeggiarla si concentra piuttosto sul fatto che si farà “ma dal palazzo e a tempo debito, nelle forme già individuate”. Alla faccia della partecipazione. E salvo spesso non riuscirci. Sostanzialmente non si crede che si possa contare sul civismo al quale, dunque, è inutile o pericoloso dare sponda operativa.
Qualcuno non crede che si tratti solo di una allergia alla partecipazione. Dietro vi sarebbe la convinzione che le discariche si stanno ormai aprendo e che importa se in esse di nuovo andrà la monnezza non differenziata “tal quale” …. Se si è in attesa di un poker di termovalorizzatori.
A me la dietrologia sta antipatica. Ma in questo caso è difficile respingere i cattivi pensieri.

E voila, nel bel mezzo di questa vicenda – attenzione! - dal governo in Roma vengono annunciati, invece, ben mille ”angeli della differenziata”. Mandati quasi a commissariare l’educazione dei cittadini proprio alla differenziata, che spetta, però, ai comuni. E allora l’assessore Mola s’arrabbia e grida, non senza formale ragione, che tocca a lui. Ma il suo tenue “ghe pensi mì” appare poco credibile di fronte alle trombe di palazzo Chigi. E ancor meno credibile dato che ha appena rimandato l’impegno dei cittadini per la differenziata al 2009 e oltre.

Un amico inglese che segue le cose di Napoli, di fronte a questi paradossi – farseschi se non ci fosse di mezzo la drammaticità delle cose – mi dice che quasi quasi sarebbe il caso di affiancare questi “angeli volontari” mandati dal governo (parte della protezione civile, pare) e di rivolgersi forse direttamente a Bertolaso per creare insieme - angeli mandati e angeli da attivare qui - una sinergia e così comunque avviare la battaglia contro la “monnezza in discarica tal quale” contrastando, al contempo, l’ennesima assurda dilazione di un po’ di sensata, normale differenziazione partecipata in questa città.

Ora lasciamo un attimo l’amico inglese. E riandiamo alle questioni costituzionali. Perché sono molto ma molto preoccupato a proposito dei recenti decreti sulla cosidetta sicurezza.
E cito Giuseppe D’Avanzo perché concordo con quanto egli dice:
“Berlusconi è intenzionato a dimostrare che - per governare la crisi italiana, come vuole che noi l'immaginiamo - è costretto per necessità a separare lo Stato dal diritto, la decisione dalla legge, l'ordine giuridico dalla vita. Come se il Paese attraversasse una terra di nessuno. Così critica, oscura e sinistra da rendere urgente e senza alternative un potere di regolamentazione così esteso da modificare e abrogare con decreti le leggi in vigore”.

Dunque, eccoci qui, nel mezzo di una situazione che è ben strana.
Il decisionismo emergenziale si fa pericoloso per lo stesso stato di diritto. Contemporaneamente, il nullismo dell’amministrazione locale (per non parlare del PD, vero fantasma e della sinistra, reclusa nel ghetto dell’antagonismo pur che sia) glissa, rimanda, di fatto nega sostegno a qualsiasi moto partecipativo sul tema dei rifiuti in questa città, manco fosse la peste il voler far qualcosa subito per differenziare.
Ma mentre il governo rende tutto emergenziale propone, al contempo, un impegno educativo e volontario sulla differenziazione, senza attendere il tempo che verrà come sostiene, invece, l’assessore Mola di Napoli.

E così - per i cittadini democratici e di buon senso – si pone un quesito: ci tocca il difficile doppio compito di avversare i pericoli della cultura dell’emergenza ma - una volta registrato l’ennesimo “niet” comunale - anche di non respingere le occasioni volontarie proposte dal governo per un’attivizzazione sulla differenziata se queste si mostreranno reali?

09 giugno, 2008

Non angustiare lo straniero

Da una persona amica di Milano:

“Oggi ho ricevuto una lettera da parte di un caro amico, Giorgio Bezzecchi.
Giorgio Bezzecchi è vice-presidente nazionale dell'Opera Nomadi e da anni lavora per la promozione sociale, politica e culturale dei rom a Milano. La sua famiglia vive in un campo a Milano, il padre è stato deportato in un campo di concentramento, a cui fortunatamente è sopravvissuto. Il nonno, deportato in un altro campo non è sopravvissuto. Domani tutta la sua famiglia sarà fotografata e schedata, conformemente alle attuali decisioni del prefetto che prevedono un rilevamento completo di tutti i rom residenti nel territorio milanese. E' stato deciso un rilevamento di identità da parte della polizia su base esclusivamente etnica.”

Non riesce a venirmi in mente che un solo commento:

“Non angustiare lo straniero: voi ben conoscete l’animo dello straniero, poiché stranieri siete stati nella terra d’Egitto”
Esodo, 23,9

06 giugno, 2008

Pizze al neon, talk show e la ricerca del senno

Non scrivo da oltre dieci giorni. Non giova certo il senso di stallo depressivo che s’incontra in città, in quest’atmosfera bassolin-berlusconiana. Pare di stare in una cattiva pizzeria: Tv color a palla, luci al neon intermittenti in modo fastidioso, decor volgare, cameriere particolarmente sgarbato, pizza cruda.

Sono stato la mattina in classe. Non è male tornare a scuola. Ho ripreso a girare per il mio quartiere, ad ascoltare le storie di qualche ragazzo perso di vista. Non ho guardato i talk show tv. E ho evitato pure di pensare più di tanto al dibattito sulla borghesia napoletana, trito e ritrito almeno dai tempi di don Giustino Fortunato. E’ come ricordarsi di avere per sbaglio ascoltato gli Intillimani una domenica mattina del 2001.

Comunque è davvero un brutto paesaggio - senza rappresentanza e men che mai partecipazione, come argomenta assai bene oggi Luciano Brancaccio.
La politica senza politica. Mala bestia. Per colpire chi l’ha così ridotta davvero ci vorrebbe il Dio degli eserciti.

Ma tant’è. E allora è forse una calma indignazione quella che serve. Essere testardamente ragionevoli. Trovarsi con chiunque pensi che altro è l’emergenza e altro e mettere a repentaglio i principi costituzionali sulla distinzione tra i poteri nello stato di diritto. Non fare di tutte le erbe un fascio e dunque saper distinguere – nelle grida di Chiaiano - i faticosi vagiti di preoccupata cittadinanza dal solito confuso urlare ideologico.

Ho sperato che almeno il dio delle piogge, ben meno potente di quello degli eserciti, ci lasciasse il sole di sabato e domenica per un po’ di mare ma che, negli altri giorni, spengesse, a furor di brevi scrosci, i fuochi alla diossina. Sono stato esaudito solo in parte. Va bene lo stesso.

Una calma indignazione ha bisogno di tempo, ancora una volta. E converrà attrezzarsi.
E anche di pragmatismo, quella speciale virtù filosofica anglosassone che non spinge verso “la Soluzione”, “la Lotta”, “la Grande scadenza” ma piuttosto preme, volta dopo volta, a cercare qualche idea sensata e possibile. Così mi sono banalmente concentrato su cosa fare ora – di sensato e di possibile – sul tema dei sacchetti che abbiamo in casa ogni giorno. E ho trovato soccorso in un amico che di queste cose si occupa, Antonio Risi. Ci siamo confrontati. Ecco l’articolo, uscito oggi, scritto insieme. Sulla difesa della legge e la possibilità di una differenziata di emergenza, che dia spinta civile.
N’copp o’ comun e’ Napule daranno un po’ di retta a una proposta fatta con sensata ragionevolezza?
Dubito. Ma è bene non demordere, stanare, provare.