L’altro ieri, nel treno che partiva verso nord da Reggio Emilia – imbandierata di vessilli della Repubblica Cispadana –una bimba dello Sri Lanka portava, contenta, una coccarda tricolore mentre, a due passi, un giovane con un’elettrica cravatta verde leggeva un giornale grossolanamente titolato contro l’Italia.
Nel vagone pienissimo del regionale, due trentenni, uno senegalese e uno italiano, parlavano di lavoro, riferendosi a una ditta che spostava i cantieri su e giù per il nord, strappando piccole e incerte commesse alla concorrenza, sempre più dura in tempi di prolungata crisi. Poi la conversazione si è allargata. Prima al campionato di calcio. E poi alla tragedia giapponese.
Fuori sfilavano i capannoni che ho imparato a riconoscere, quelli attivi e quelli chiusi. E le lunghe strisce di verde, del grano e dell’orzo che iniziano a salire. L’ammirazione per la composta reazione dei cittadini giapponesi, nel parlare vivace dei due che mi sedevano vicini, si mescolava all’interrogativo che abbiamo in tanti: “Ma noi sapremmo fare così? “Noi” – proprio così ha detto il ragazzo del Senegal.
All’arrivo a Trento ho visto in autobus un controllore giovanissimo, con due orecchini d’argento, che chiedeva il biglietto a una ragazza con la testa coperta dal velo e intensi occhi neri, forse maghrebina. La quale gli porgeva la tessera di abbonamento con su indicato la facoltà di giurisprudenza. Lui le rivolgeva con cortesia la parola con una forte inflessione napoletana e lei rispondeva con un accento trentino. Poi è salita una scolaresca. Un quarto erano bambini i cui genitori non erano italiani. E tutti parlottavano fitto nella nostra meravigliosa lingua, oggi veicolo comune di conoscenza del mondo, eccitati come sono i bimbi in gita.
Nel pomeriggio un’operatrice sociale, emigrata al nord perché nessun governo della nostra bella città e della nostra bella regione, né di destra né di sinistra, è mai stato capace di assicurare la “giusta mercede” per il faticoso e prezioso lavoro di strada con i nostri ragazzi, mi parlava dello spaesamento provato tornando per il week-end a Napoli. Con dentro l’acuta nostalgia per i luoghi così cari, la vergogna insostenibile per lo stato nel quale sono e la insopprimibile indignazione per un intero ceto politico, miserevole e baro. Mentre parlava ho ripensato a quel che capita ogni volta che si scambiano parole tra i tanti napoletani che - nelle università, nelle fabbriche e nelle imprese, nella ricerca e nelle scuole, nel lavoro sociale e nei servizi - vivono lontano dai loro luoghi.
Tante volte il conversare dei nuovi emigranti da Napoli racconta come impariamo a riconoscere l’Italia, complicata e varia. E così diversa da come ce la siamo troppo facilmente voluta immaginare. E, chissà perché uno strano volo della mente riporta le parole alla nostra città. Che è ferita ma deve pur rinascere.
L’Italia c’è. Esiste. Nonostante molte miserie e brutture. E’ piena di persone che, ovunque, danno l’anima per farla migliore. E credono, con ingegno e lavoro, a quel che fanno. Ma questa Italia – complicata e difficile - non è rappresentata dai riti ripetuti delle accuse reciproche tra nord e sud.
E in questi giorni dei centocinquanta anni dell’Italia unita davvero non convincono più le stantie accuse al Mezzogiorno di essere la zavorra di un paese che sarebbe, altrimenti, ricco e felice. Che si fanno scudo ogni volta di alcuni dati economici, senza vederne altri e senza scrutare la storia. Né vedere che le strade e le produzioni materiali e immateriali del nord vedono, insieme, le menti e le braccia di tutta Italia, ancora una volta e come sempre è stato; e, ancor più, vedono insieme le braccia e le menti che vengono dal mondo intero. Ma – francamente - neanche persuade più l’indicare ogni volta il dito verso il nord, mostrando le colpe dei nostri disastri solo fuori e lontano da noi.
E’ davvero venuto il tempo di dire basta ai rappresentanti politici e agli sciatti ideologi di una cosa e dell’altra. Che, entrambi, appartengono a combriccole provinciali e interessate. E perciò incapaci di guardare la storia comune nella sua faticosa complessità e cieche dinanzi alle potenti interazioni che costituiscono il mondo globale nel quale i nostri figli stanno crescendo.
Le cose che contano e che conteranno richiedono un’altra prospettiva. I grandi temi e i grandi compiti – gestione dell’energia e delle risorse, salvaguardia dei nostri luoghi, nuove produzioni sostenibili e saperi che le rendano possibili, effettivo esercizio dei diritti e necessità di nuova etica pubblica – le cose vere del comune domani dicono a tutti, a chiare lettere, che i piccoli orticelli, le demagogie d’occasione, le semplificazioni d’accatto in vista delle ennesime tornate elettorali sono esercizi che non vanno più sopportati. Perché negano ogni idea accettabile di politica e di convivenza.
Se questo vale per l’Italia, vale ancora di più per Napoli. Le risorse, che pure esistono, che la rimetteranno in piedi – come in tanti auspichiamo con disperata speranza, nonostante tutto – possono essere ancora messe in campo. E possono addirittura dare un segnale di cambiamento anche al resto d’Italia. Ma solo se la politica esce dalla difesa di sé e torna ai compiti veri, quelli centrati sull’interesse comune. Per Napoli questo significa riprendere la lezione migliore del meridionalismo. Che rifiutò sempre il piagnisteo anti-nordista. Perché riconosceva in esso “il piangi e fotti” del notabilato meridionale. Per dedicarsi alle cose da fare per la città.
Sì, ancor oggi c’è da riprendere l’agenda del fare possibile. E mettere distanza da quel “blocco di potere sociale e politico meridionale” che, fin dall’unità, fu denunciato dal meridionalismo, sia liberale che socialista che cattolico. Perché, trasversalmente a molte appartenenze, non mirava – così come non mira oggi - alla crescita equilibrata del tessuto economico e sociale. Bensì alla rendita e alla conservazione di sé, oggi anche a costo di ogni compromesso con gli immensi profitti del malaffare. E attraverso le clientele elettorali. Che sono quel reticolato di fedeltà e gerarchie costruito intorno a un sistema di privilegi parassitari che affogano le opportunità di democrazia.
E’ la battaglia contro tutto questo che potrà dare speranza alla nostra città. E, anche da Napoli, contribuire a ridare speranza alla vicenda nazionale.
Uscirà su la Repubblica Napoli di domani.
1 commento:
Avevo provato, nella palude delle "celebrazioni" del 150nario. a proporre, per celebrare, che ragazzi della mia scuola, una miscela di esclusi e di autoesclusi, potessero - come rito di iniziazione a una cittadinanza italiana - accogliere i nuovi italiani (tu sai come spesso i nostri esclusi escludono, ancor più violemntemente, gli estranei. forse ci riesco, se, come ho imparato con te, leggo i millimetri come chilometri e educo a pensare cosa possa fare io / loro per il mio paese e (non solo) cosa debba fare il mio paese per me/loro.
in questo quadro rilencio, e nel mio piccolo lo fo' anche con giovanni: cos'è stato il lavoro di strada/ di quartiere? perchè ha avuto a che fare anche e soprattutto con la democrazia? leggerlo, cominciare a, finalmente fuori dal riduzionismo onnipotente di un modello scolastico. è stato un modello di apprendimento e un modello, straordinario, di organizzazjone riflessiva.
cosa possiamo fare per rileggere e rilanciare, politicamente, al di fuori anche dell'esfissia delle rivendicazioni sindacali degli operatori (che fanno bene a farlo nella loro logica sindacale) sociali, al di fuori della stessa cornice del lavoro sociale come viene declinata nelle sue rappresentazioni, non nelle sue pratiche? come possiamo fare a inaugurare una nuova stagione di riflessione e di produzione cognitiva sulla cura, come un progetto culturale al quale chiamare a giocare, fuori casa, la Politica e la sua autonoma funzione?
Il pensiero delle donne, quello ambientale, quello della disabilità, anche quello della scuola progressista sono stati discorsi culturali che hanno ala lunga impattato politica, politiche e dispositivi, hanno, non a napoli, disegnato anche solo parzialmente una città.
è il momento di cominciare a produrre un bene pubblico cognitivo, un patrimonio cognitivo come repertorio indispensabile per la politica, rifiutando la logica del ricatto del realismo politico, rifiutando il bastone e la carota delle blandizie strumentali e delle minacce del ceto politico.
questa nuova narrazione del lavoro di strada deve vederci come committenti a altri narratori, non come ennesimi e noiosi narratori di noi stessi.
leggiti donolo, trova un po' di tempo
saluti alle tue sorelle e saluMi comunisti
salvatore, nei secoli riconoscente
Posta un commento