Venerdì, nel Quartiere Sanità a Napoli ho lavorato con Fondazione con il Sud e Save the children su un possibile programma concreto di contrasto della esclusione precoce nel Mezzogiorno.
Nei prossimi giorni intendo tornare proprio sui punti programmatici sul settimanale Vita.
Intanto si è conclusa la mia inchiesta sulla scuola che sa proporre su La Stampa. Ecco qui l’ultima puntata, riassuntiva, apparsa lunedì, 3 ottobre.
Abbiamo raccolto, in questo avvio di anno, le voci dalle scuole. E non abbiamo sentito solo lamentele. Anzi, sta prendendo forma la convinzione che la scuola è una cosa importantissima e che per salvarla va cambiata da subito, come si può. Per questo quando chiedi in giro, a sud come a nord, a docenti, genitori, ragazzi, dirigenti, esperti, nessuno nega i limiti della scuola. E anche i suoi fallimenti, il primo dei quali è la perdita di un quinto dei ragazzi – quasi un terzo nelle aree più povere del Paese. Insomma sta forse finendo il lungo tempo nel quale i docenti lavoravano con abnegazione ma chi criticava la scuola era percepito come nemico della sua funzione pubblica e l’autocensura impediva di parlare di quel che va cambiato. Beninteso: oggi chiunque faccia scuola - che voti a destra o a sinistra - si indigna per i tagli che mortificano il proprio operare, tagli sconosciuti negli altri paesi – un dato questo che è incontestabile in quanto siamo al ventinovesimo posto su 34 paesi OCSE per il investimenti in istruzione. Ma, al contempo, cresce la persuasione che si possono fare delle concrete cose utili “e che noi – noi che la scuola la facciamo – sappiamo pure quali possono essere, anche con relativamente poco denaro in più e combattendo gli sprechi”. Così, abbiamo potuto raccoglie indicazioni preziose per un suo nuovo governo: un’agenda utile per chiunque vorrà governare questo Paese nella fase di rinascita che prima o poi dovrà esserci.
Mettere in sicurezza e rendere più belle le scuole, con investimenti che tra l’altro incentivano la crescita, come propone il presidente Obama. Dedicare energie “per ragionare e pattuire con i genitori, mettendo ciascuno la sua competenza ma d’accordo” – come ci ha ricordato Piteropolli Charmet. Perché il patto implicito tra adulti che presiede all’educare non c’è più e la scuola è il luogo dove è possibile riformularlo in modo esplicito. Estendere a tutte le scuole le ore di progettazione e riflessione comune tra docenti, come si fa da decenni nella scuola primaria, una cosa che più di ogni altra ha creato formazione continua e rafforzato la cooperazione tra chi insegna e che tutte le ricerche dicono che è condizione decisiva per la tenuta educativa e il miglioramento della didattica. Fermare i tagli al numero dei docenti e dare un organico funzionale alle scuole in modo da favorire le indispensabili flessibilità di uso del tempo e degli spazi dato che la scuola non può più essere rigidamente standardizzata ma deve coniugare il lavoro comune di tutti i ragazzi con l’attenzione alle debolezze e alle forze di ciascuno. Sì, un organico che vada oltre l’ora-cattedra, che permetta di estendere le esperienze che superano la corrispondenza rigida tra classe e aula, sostenendo in modo diverso anche la grande tradizione italiana dell’inclusione dei ragazzi disabili e in difficoltà – che viene ammirata in tutto il mondo ma che ha bisogno di nuova linfa, come ci ha detto Andrea Gavosto. Favorire tutte le azioni, già in atto, che mettono insieme apprendimento formale e informale, on line e in laboratorio. E che coniugano il fuori e il dentro scuola grazie a esperienze significative, che sono un antidoto all’isolamento, alla tv peggiore, ai modelli che tutti – dal mondo laico alla CEI – riconoscono come anti-educativi. E che avvicinano vita e scuola. Al tempo stesso tornare a dare priorità assoluta alla cura precoce delle competenze irrinunciabili a partire daparlare, leggere, e scrivere. Come ripete Clotilde Pontecorvo, citando John Dewey: aumentare scuole materne e nidi e dare solide basi presto. Il che vuol dire dare più ore e didattiche migliori a chi parte svantaggiato, a partire da Mezzogiorno e periferie povere, creando vere e proprie zone di educazione prioritaria nella aree di massima concentrazione della dispersione scolastica.
Sono queste le cose che abbiamo ascoltato. E non come idee da “tradurre in pratica”. Al contrario: come pratiche già operanti, come cantiere imperfetto certamente ma già in azione nonostante gli stipendi bassi, le scuole prive di manutenzione, il perdurare dello scandalo del precariato, l’assenza di investimenti per la formazione dei docenti e le classi affollate. Idee nate nel lavoro quotidiano, frutto di una passione civile di tipo operativo e di un’affezione al proprio mestiere, che sono cose diffuse tra i docenti italiani. Idee da tradurre in politiche pubbliche: non libro dei sogni, cose possibili e sostenibili anche in tempo di crisi. E non l’ennesima riforma della riforma della riforma ché, francamente, non se ne può più. È questo semplice ma decisivo cambiamento di prospettiva che sta diventando possibile. Ed è tempo che la politica – che i leader dei partiti – si mettano in posizione di ascolto e di rispetto verso tutto questo.
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