Sarò lungo.
La rabbia di una generazione inascoltata – e non i black block – ha mostrato, il 14 dicembre, come nel resto d’Europa, la potenza di una cesura brutale tra generazioni. Mi fa quasi impressione citarmi da solo ma davvero l’avevo appena detto in tv: noi abbiamo lasciato ai nostri figli un paese molto peggiore di quello che avevamo ereditato. E i ragazzi lo sanno. Ogni giorno sulla loro pelle sparisce l’orizzonte di speranza.
Quest’è.
Al contempo c’è la politica. Al netto delle sue cose vecchie e deprimenti – che il principe de Curtis le sapeva cinquant'anni prima della Gabanelli – mister Berlusconi è stato confermato. Manovre e fibrillazioni continueranno. Continuerà l’altalena tra elezioni, ancora assai probabili, e tirare avanti. Il clima resterà incerto.
Se si andasse a elezioni tuttavia non ci si può dimenticare che vi sono e resteranno sulla scena talune costanti che colorano il nostro paesaggio politico. A destra. E a sinistra. La destra manterrà le tre fondamentali caratteristiche di questi anni. Che sono. Una: obbedire a un capo che non sta bene di testa e ha sempre confuso e fatto confondere questioni generali e anche legittimamente di parte con forti interessi privati e personali. Due: essere capace di tutto e dunque ledere, minacciare, spezzare le procedure e le regole, che sono il sale di ogni assetto civile e di ogni modello politico liberale. Tre: essere, in aggiunta, capace di poco o nulla – che non siano i fatti suoi - in termini realizzativi. In sede storica ci si dovrà pur chiedere com’è che l’Italia, più di altri luoghi, è “laboratorio” di queste cose. Dunque, si tratta di una sorta di summa di varie cose, che sono parti del nostro passato e che oggi stanno dinanzi a noi in modo congiunto e potentissimo. C’è la politica “capace di tutto ma buona a nulla” di montanelliana memoria. C’è la versione odierna della “borghesia sovversiva” di cui parlava già Salvemini. C’è il “cesarismo” specificamente italico di cui parlava Gramsci. Il quale, peraltro, va ben oltre i recinti della destra – con il moltiplicarsi, ovunque, dei partiti personali, dove le dinamiche sono tutte impoverite. Perché sono legate al capo, più e molto più lungamente che nelle altre democrazie occidentali. Legate e perciò ridotte intorno all’essere ognuno in situazione di sudditanza / dipendenza / distanza / vicinanza / interpretazione / fedeltà / tradimento nei riguardi di un solo attore preminente. Con gli aderenti a quella parte che, così, assumono la veste di tifosi e non di partecipanti, di sudditi e non di cittadini. Per troppi aspetti non si sottraggono a ciò Fini, Grillo, Vendola. E ancor più Di Pietro – il cui partito personale, inoltre, ha avuto e mantiene nel tempo la tendenza precipua ad allevare “mariuoli in corpo”… come si è visto. Non fanno parte di questo novero – sia pure con altri difetti – il Pd, la sinistra e, in qualche modo e nonostante Bossi, la Lega.
Tutto questo – la politica per come è e per come si discute in Italia - evidentemente, conosce una variegata e perpetua vicenda quotidiana. Che ci angustia e deprime.
Ma che ha anche una “esistenza separata” dalle vicende concrete della vita sociale e anche individuale di noi cittadini. Vita nella quale il focus è sull’arrivare alla fine del mese, trovare una scuola ok per i figli, ridurre i danni di metropoli e territori divelti e malsani, mantenere il lavoro, pagare il mutuo, capire cosa faranno i figli da grandi quando lo sono già grandi, evitare i cappi di banche o di criminali sulle imprese, ecc. In un’idea minimamente accettabile di politica, i problemi veri sono la cosa di cui parlare e da cui partire per dire, proporre, agire. E sarebbe compito dell’opposizione – di centro, di sinistra, di centro-sinistra – capire, innanzitutto, com’è che queste cose della vita vera – alle quali il governo e il Berlusca non rispondono - non si traducano, però, in “più forza all’opposizione”. Perché il declino del paese, che coinvolge le nostre esistenze e l’orizzonte di speranza non intacca chi ne è il primo responsabile?
Ecco: nel paesaggio politico queste domande non sono centrali. Vengono qui e lì balbettate. O fanno parte del commento dei commentatori. Non si sostanziano in azione politica, in proposta, in innovazione di modi, di idee, di metodi, di persone. Dunque vi è un’involontaria ma forte collusione tra berlusconismo e pochezza dell’opposizione. Beninteso: certe volte appaiono barlumi di cose più sensate. Qualcuno avanza proposte su come affrontare la questione dell’evasione fiscale o della crisi produttiva o della povertà o della scuola. Si entra nel merito. Si argomenta. Ma sono voci inascoltate in mezzo al solito frastuono di fondo, uguale, immancabilmente, a se stesso. La rappresentanza – in senso minimamente credibile – non c’è per noi. Che abbiamo lavoro e reddito. Figurati per i nostri ragazzi.
E la politica è porta a porta e ballarò, trallallero e trallalà. Sì, il solito frastuono: dove prevale lo slogan, la dietrologia, l’ultimo boatos inverificabile, la manovra tattica, lo spot, l’urlo e la sua replica. Così l’antiberlusconismo – anche grazie alla personalizzazione parossistica della nostra politica – è speculare al berlusconismo. Certo, con meno disponibilità di denaro e meno polvere da sparare; ma con poca distanza effettiva dal modello avversato. Il frastuono è lo stesso e purtroppo la critica al berlusconismo, con quei temi e quei toni, spesso si è fatto ed è confuso in esso, una sorta di controcanto stonato. Che noi e ancor più i ragazzi percepiscono come tale.
Per tutti quel che manca è la parola propositiva e le proposte sul da farsi trovate in via partecipativa. E’ questa la questione delle questioni. La parola che cerca cosa fare e quella che accompagna i processi democratici è la parola che è emarginata dalla scena, rara e coperta. Davanti a questa mancanza, come meravigliarsi che esplode la rabbiosa impotenza…
La violenza è, tuttavia, un problema. E’ solo rabbia? C’è da chiederselo. Ci sono tradizioni ideologiche vetuste ed ereditate che riaffiorano? Forse e anche. C’è qualche black block? Forse e anche. Ma la questione centrale è che c’è una generazione (o forse due generazioni e mezzo) che da quasi 4 lustri sta/stanno sulla soglia, in un paese senza avvenire. E che non dà, appunto, parole propositive, non nomina le strade da prendere, non indica possibilità. Non c’è lavoro fisso. Non c’è giusto salario. Non c’è denaro per la scuola del ventunesimo secolo. Non ce ne è per la ricerca. Non avranno pensione. Non possono chiedere un mutuo. Non avranno un prestito per aprire un’attività.
Contro tutto ciò c’è solo impeto rabbioso? No. Altre volte non c’è l’impeto rabbioso. C’è l’immaginario creativo. Migliore. I tetti, le gru, i libri attaccati ad aprire cortei pacifici. Happening di speranza. Sono possibili premesse al passo successivo. Condizione necessaria. Ma non sufficiente. Ci vorrebbe una sorta di gandhismo occidentale – un sapere chiedere e creare in proprio. Zone liberate, fatte di lavoro comunitario e di produzioni sostenibili. Attività che prendono dimensione globale e locale insieme. Rottura dei conservatorismi del credito. Scuole pubbliche non necessariamente statali. Un respiro libertario. Che rompa il duopolio tra statalismo e oppressione della rendita legata ai soliti noti. Difficile, certo. Ma da esplorare, riscoprire, indagare, provare… Qualche segno di questa via, timido, c’è.
Oggi però, ancora prevale, anche nei movimenti,il più semplice; che è il ricadere sotto vecchie modalità. Chiedere soluzioni stataliste. Opporsi senza proporre. Abbracciare, nel dibattere, un rivendicazionismo solito, legato alle retoriche di chi sa porgere le cose con maggior enfasi. O ci sono le sirene e gli ombrelli di chi già è organizzato. Con propri mezzi, gerghi, modi. E vuole tirare tutto dalla propria. Come spesso è già avvenuto. E c’è Grillo che urla e urla contro. E quando propone lo fa senza confrontarsi. O ci sono i proclami di Vendola – dove la parola si fa vezzosa, cripto profetica, simil onirica – per contrapporsi a tutto ciò con il semplice tentativo di lirismo. Che tuttavia, fatica a tentare di dare risposte: cosa si deve fare per.
C’è anche un’altra dimensione – importante – del paesaggio. C’è una scena depressa e bastonata. E si deve poter aspirare a gioie, vie di uscita. Non deliranti ma promettenti sì. E evocare speranza è di grande importanza. Ma accennare a speranza senza co-costruire prospettive realistiche e risposte possibili mi pare un esercizio monco. E’ comprensibile se si tratta di movimenti. In una prima fase. Ma diventa una cosa esiziale quando si tratta di proposta fatta da forze politiche.
Questa situazione fa dire a più d’un commentatore “avvertito” che c’è una riformulazione del rapporto tra politica e vita sociale molto profonda e che richiede impegno di lunga da lena. Impegno da spendere contro la degenerazione della società avuta grazie al berlusconismo o grazie – dicono i più sofisticati – a una osmosi tra berlusconismo e elementi di mutamento profondo già in corso e che si sono potenziati ed estesi a dismisura. E che hanno davvero mutato il paesaggio in termini non solo politici ma antropologici. Ciò è ovviamente vero e molto condivisibile, un buon punto da cui riprendere a ragionare. Ma è importante sapere chi lo afferma. Perché chi lo dice deve essere credibile. Non può esserci il sospetto che lo dice per cooptare, per l’ennesima volta, lo scontento, strumentalizzarlo, portarlo a sé senza mai mutare alcunché di sé. Dunque, non è credibile chi fa queste analisi a partire da una richiesta di adesione a una parte già organizzata, chiusa, strutturata, fatta di linguaggi, gerarchie, ceto stabilizzato, proposta formulata. Com’è la gran parte del Pd, di SeL, dei comunisti, di IdV. Con alcune eccezioni. Che vivono una condizione scomoda.
E’ più credibile, invece, chi analizza i nessi tra berlusconismo e degenerazioni del tessuto sociale profondo avendo abitato un territorio a cavallo tra società e aspirazione a una nuova rappresentanza e a un nuovo metodo della politica. Questo qualcuno è tanti e tante di noi. Che, senza avere aderito alla finta società civile - quella telecomandata dagli apparati - ha cercato nuove vie di rappresentanza e partecipazione effettiva. E che, volta dopo volta, ha vissuto e vive la condizione di impotenza e, al contempo di continua, disperata supplenza dei compiti che spetterebbero alla politica nella sua relazione di ascolto autentico, mediazione e proposta.
Questa parola, forse, può risuonare nel frastuono. E’ ancora possibile. Ma deve avere alcune caratteristiche. Che ne sostengano il tono, l’intensità. La prima è che chi la pronuncia deve essere credibile. Per storia e per capacità. La seconda è che ci vuole non un singolo ma un coro di voci, un ensemble ricco e credibile. La terza è che sia capace di proposte vere: né utopie fumose né un eccesso disperato di tanti piccoli realismi… Lontano dalle ideologie del secolo passato e dal mero compito immediato.
Difficile, difficile. Eppure qualcosa muove e si muove. E c’è da pensare a una prospettiva.
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