13 dicembre, 2010

La medicina per curare il pessimismo

queste note sono state pubblicate da Repubblica Napoli l'11 dicembre.

Scendo dal treno con i sensi di colpa. Lavoro al Nord, nella città considerata la più vivibile d’Italia. Scambio qualche battuta con i miei compagni di viaggio. Ormai sono tanti e tanti i napoletani che vivono fuori. In crescita costante: 6 per mille ogni anno da un decennio. Ricchi e poveri. E quando ci sveglieremo con i dati del censimento del 2011 scopriremo che la nostra bella città sarà scesa ben sotto il milione di abitanti, per la prima volta dal 1951. Siamo i napoletani che rientrano per il fine settimana. Molte migliaia. Se facessimo una lista elettorale forse conteremmo pure qualcosa. Ma ognuno fa quel che può. In posti diversi e lontani. La prospettiva politica, beninteso in senso proprio - “pensare al governo della nostra città” – c’è. Ma la fiducia nella politica - così com’è - è esilissima. Più e più volte sento ripetere: non voterò. E’ così anche altrove. Ma qui di più. “Il mio è un esilio volontario” – dice una signora. Ma l’appartenenza a Napoli resta formidabilmente forte. Cocciuta. E superbamente orgogliosa. Guai chi ne parla male nei luoghi lontani. Guai a non difendere i colori della squadra. Guai a dismettere la parlata, il tono, l’ironia fatta come facciamo noi.
Rampe Petraio
Ad aspettare il treno ci sono mogli, mariti, fidanzati, fratelli, papà, mamme, amici. Oppure nessuno. A ottobre, con i dati di legambiente sotto braccio, un ragazzo con un sorriso dolce, mentre il treno si avvicinava alla città mi diceva “Guarda che meraviglia di cielo, che città bella abbiamo; eppure anche qui da noi l’aria è irrespirabile”. L’altro giorno stessa scena. Questa volta a citare la classifica delle città meno vivibili è un ragazzo che ha un contratto precarissimo in una piccola città del Nord, un diploma da ragioniere, nessuna prospettiva di carriera. “E’ triste essere via” – dice – “ma i miei amici qui sono più tristi di me. Per com’è la città”. Un coetaneo aggiunge: “E’ della serie: nonsolomonnezza”. “Vorremmo tornare tutti – dice una bella ragazza – ma..” Si ferma. Come sulla soglia di una pena. Guardo di lato. Mi fa male proprio la sospensione della frase. Poi qualcuno lo deve interrompere il silenzio. “Come tornare? E a fare cosa? E con questi qui, che pure cercheranno i voti…” Lo dice a noi e a se stesso un signore di mezza età. Si fa di nuovo silenzio.
Napoli è affranta in modo straziante. Lo sente e lo vede ogni ora chi ci vive. E chi vive fuori lo sente come pena interiore, acuta e cronica insieme. Difendere la nostra condizione quotidiana – in faccia a chi ci chiede come è potuto succedere – è ogni volta un compito davvero arduo.
Si avvicinano le elezioni. Il non voto cresce da tempo. E siamo diventati pessimisti in tanti. Non perché lo siamo noi. Ma perché c’è motivo di esserlo. Eppure c’è da riprendere la battaglia per curarsi. Per curare la città. Non si può demordere. Vanno fatte le proposte. Manutenzione ordinaria. Monnezza. Lavoro e formazione. Criminalità. Smog. Scuole... Molte migliaia di napoletani le saprebbero fare le proposte, lavorando insieme: hanno i dati, hanno le competenze. E’ questo il retroterra per curarsi. Ma per liberare questo retroterra, c’è prima da fare un’altra cosa. Prima di riprendere le proposte e renderle credibili e realistiche – quanto tempo ci vuole, quanto costa, chi lo fa? - ci vuole un momento di verità. Impietoso. E’ un compito ingrato. Ma per poter parlare di cosa va fatto e come, si devono poter fare le domande vere su cosa è successo. Com’è potuto succedere che non c’è la raccolta differenziata? Date, nomi, decisioni prese oppure no. Quanti soldi ci sono nelle casse del comune? Scelte. Colpe esterne e interne. E crude cifre. Quando finiranno i cantieri aperti e come? Date e motivi. Perché non c’è manutenzione delle cose? Procedure, bilanci, scelte.
Non si tratta di trovare il colpevole. Sul quale fare ricadere tutto. Per poi ricominciare come prima. Si tratta di analizzare. Per proporre, subito dopo, le cose possibili da fare. Ma da fare in un altro modo. E magari con altre persone.
Chi è disposto e saprà fare un bilancio politico, insieme alla città? In una città europea normale lo farebbe il sindaco e la giunta uscenti. Dubito che avverrà. Sarebbe bene, allora, che lo facessero i candidati a sindaco. Non per piangersi addosso. Né per ripetere le solite accuse strumentali. Ma per poter ripartire senza fare finta che il danno non ci sia stato.
Ora ci vuole verità. In senso antico e letterale: aletheia, “non nascondimento”. “Cosa è successo? Perché siamo messi così?” – se lo chiedeva una ragazza che lavora lontano, mentre tirava giù la valigia. Ecco. Se si risponde, allora possiamo trovare le cure per Napoli e le molte migliaia di medici curanti che sono necessari. Altrimenti no.

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