Questo che segue è il mio articolo uscito su Repubblica Napoli di oggi a commento dell’intollerabile morte di Salvatore Giordano, ragazzo di 14 anni colpito da una pietra caduta da un cornicione storico nel centro monumentale della sua città, vittima innocente della perenne incuria della città di Napoli, ora tutta transennata. E segno di irresponsabilità degli adulti, incapaci di lasciare alle future generazioni i luoghi curati e manutenuti come dovrebbe avvenire in ogni comunità umana.
Sciama il vento di maestrale. La pioggia che è passata ha ridato nitidezza a S. Martino, a Capodimonte, alle centinaia di palazzi messi uno accanto all'altro con maestria, nei secoli; e ridà luce al golfo, che viene incontro com'è ritratto nei quadri ammirati nei grandi musei di Vienna, di Londra, di Parigi, di San Pietroburgo. I dipinti dei migliori pittori d’Europa che volevano mostrare ovunque una delle città più belle al mondo. Da sempre vista così.
Ma in questi giorni così luminosi i turisti che continuano a venire per ammirarci e i cittadini di Napoli sono messi a distanza dai luoghi. Crescono le barriere tra le persone e le bellezze. Ovunque. E ora nel centro monumentale. Il palazzo reale è transennato e vi si accede da un lato che il gruppo dei turisti, uscito estasiato dalla metropolitana, non può trovare. In via Toledo altre transenne impediscono l’ingresso in Galleria. E altre ancora stanno davanti al S. Carlo. Le persone passano, commentano, sentono la città come in una specie di assidua quarantena. Si dispiacciono. Per Salvatore. Per i luoghi deperiti e resi un pericolo. La ragazza napoletana che parla un buon inglese cerca di spiegare alla coppia salita dal porto con la guida in mano che è un’emergenza, che c’è pericolo. La giovane coppia dice che non capisce. La ragazza risponde loro - con un sorriso di vergogna dignitosa - che neanche lei capisce. E ha ragione.
12 luglio, 2014
01 luglio, 2014
Dare forza ai potenziali di cambiamento positivi
Un mio articolo apparso sulla Newsletter Nuovi Lavori n. 135 del 24 Giugno 2014 dedicata al tema: "Perchè il Mezzogiorno non si ribella?".
Più che domandarsi perché il Sud non si ribella all’evidenza del declino economico e della marginalità prolungata (pre-esistenti a questa crisi ma da essa aggravati) - che continua a escluderne i cittadini, più che altrove, dalle opportunità e dai diritti civili e sociali - conviene, forse, ritornare a indagare i fattori di cambiamento e quelli di conservazione che convivono sulla scena del Mezzogiorno.
Con uno sguardo a ritroso e uno sull’oggi.
C’è un passaggio della storia del Mezzogiorno al quale, nella riflessione comune, è importante tornare. L’Italia è una Repubblica grazie alla vittoria del referendum costituzionale. Ebbene, quella vittoria ci fu anche grazie al compatto e non scontato voto repubblicano dei contadini e dei braccianti meridionali. La parte più povera, dunque, della società meridionale si rivelò essere fortemente dinamica in un passaggio decisivo. E fu dinamica nonostante due decenni terribili, vissuti proprio da questa parte della popolazione più esclusa dai diritti e dalle opportunità.
Ricordiamolo. Tra il 1926 e il 1941 - mentre vi fu un nuovo aumento demografico più rapido di quello del Nord - la recessione mondiale e la sua gestione da parte del regime fascista imposero la riduzione dei salari agricoli a sostegno dei latifondisti e fecero crollare i prezzi in agricoltura che allora contribuiva per il 70% alla formazione del reddito meridionale. E, intanto, si arrestarono l’emigrazione verso l’America e il flusso delle rimesse degli emigranti, colpiti dalla chiusura all’emigrazione italiana del 1921 e, poi, dalla grande crisi del 1929. Così, la disoccupazione di massa e la miseria investirono soprattutto contadini e braccianti. E non bastarono ad arginarle né l’arruolamento nelle guerre di Spagna e d’Etiopia né le lente politiche delle opere pubbliche (limitata bonifica, estensione delle reti stradali, lavori nelle città), né le fragili protezioni sociali (prima previdenza, piccolo imponibile di mano d’opera). Quel Mezzogiorno legato alla terra e stremato dalla miseria fu portato a conoscenza del grande pubblico italiano e mondiale dal Cristo si è fermato ad Eboli di Carlo Levi.
Più che domandarsi perché il Sud non si ribella all’evidenza del declino economico e della marginalità prolungata (pre-esistenti a questa crisi ma da essa aggravati) - che continua a escluderne i cittadini, più che altrove, dalle opportunità e dai diritti civili e sociali - conviene, forse, ritornare a indagare i fattori di cambiamento e quelli di conservazione che convivono sulla scena del Mezzogiorno.
Con uno sguardo a ritroso e uno sull’oggi.
C’è un passaggio della storia del Mezzogiorno al quale, nella riflessione comune, è importante tornare. L’Italia è una Repubblica grazie alla vittoria del referendum costituzionale. Ebbene, quella vittoria ci fu anche grazie al compatto e non scontato voto repubblicano dei contadini e dei braccianti meridionali. La parte più povera, dunque, della società meridionale si rivelò essere fortemente dinamica in un passaggio decisivo. E fu dinamica nonostante due decenni terribili, vissuti proprio da questa parte della popolazione più esclusa dai diritti e dalle opportunità.
Ricordiamolo. Tra il 1926 e il 1941 - mentre vi fu un nuovo aumento demografico più rapido di quello del Nord - la recessione mondiale e la sua gestione da parte del regime fascista imposero la riduzione dei salari agricoli a sostegno dei latifondisti e fecero crollare i prezzi in agricoltura che allora contribuiva per il 70% alla formazione del reddito meridionale. E, intanto, si arrestarono l’emigrazione verso l’America e il flusso delle rimesse degli emigranti, colpiti dalla chiusura all’emigrazione italiana del 1921 e, poi, dalla grande crisi del 1929. Così, la disoccupazione di massa e la miseria investirono soprattutto contadini e braccianti. E non bastarono ad arginarle né l’arruolamento nelle guerre di Spagna e d’Etiopia né le lente politiche delle opere pubbliche (limitata bonifica, estensione delle reti stradali, lavori nelle città), né le fragili protezioni sociali (prima previdenza, piccolo imponibile di mano d’opera). Quel Mezzogiorno legato alla terra e stremato dalla miseria fu portato a conoscenza del grande pubblico italiano e mondiale dal Cristo si è fermato ad Eboli di Carlo Levi.
30 giugno, 2014
Un evento civile per unire il Paese
L'articolo a mia firma pubblicato su Repubblica Napoli il 28 giugno. Una riflessione sulla violenza negli stadi nel giorno dei funerali di Ciro Esposito.
La folla di Scampia che ha accompagnato Ciro Esposito, riunendo tutta Napoli e anche tanti pezzi d’Italia, è un evento civile di rilevanza nazionale.
Sì, nazionale.
Perché quando una folla di migliaia di persone e di tantissimi ragazzi e ragazze di una città ferita piange, in modo così composto, senza proteste né rivendicazioni, un proprio figlio innocente – un ragazzo noto per avere sempre vissuto lontano dalle violenze, un semplice amante del calcio, vittima di follia criminale - vuol dire che un’intera città sta provando a rimettere nell’ordine giusto le cose, a cominciare dalle più sacre e più vere, dalla vita e dalla morte. E sta mostrando che quest’opera di riparazione è possibile ovunque ed è urgente in tutto il Paese.
Per questa straordinaria pagina di civiltà dobbiamo tutti ringraziare una mamma e una famiglia esemplari che si sono sapute fare guida di una città e esempio per l’Italia. Lo hanno fatto usando ogni volta le parole giuste con equilibrio miracoloso. Lo hanno fatto facendo appello alla parte migliore di ciascuno di noi, per riunire proprio la comunità nazionale, ben oltre le appartenenze calcistiche e i campanili, ben oltre i palazzi di Scampia e la città di Napoli, ben oltre lo stesso amore per il pallone. E quando le persone più colpite, dopo una terribile agonia e una morte così tragica, nel mezzo di un dolore che si fa fatica anche solo a nominare, sanno ricorrere alla propria più profonda spiritualità e a uno spirito repubblicano in senso vero e, da cittadini della Repubblica con una qualità etica fuori dal comune, fanno appello alla pace e ci riescono, vuol dire che la riparazione civile, in questo nostro caro Paese, è possibile.
Questa riparazione – alla quale ieri siamo stati chiamati - riguarda molte cose. E – sia chiaro - comporta metterci tutti in discussione, affrontare la fatica positiva di interrogarsi su quel che conta e quel che non conta, su ciò che è bene e ciò che è male. Vuol dire lavoro con se stessi e con gli altri, ascolto reciproco, costanza nel mettere da parte le distruttività che ognuno di noi ha e inventare, raccogliere, costruire speranze.
Questa riparazione non è fatta di parole ma di atti che vanno, appunto, pazientemente messi insieme, uno dopo l’altro.
Il primo di questi atti riguarda la giustizia per Ciro. Se la famiglia di Ciro e una città intera hanno rifiutato ogni parola di vendetta, a maggior ragione la giustizia deve sapersi esprimere nel modo più credibile possibile. La Procura di Roma deve fare bene e presto il suo lavoro, senza ombre e impunità, di alcun tipo.
In secondo luogo va ricostruita – perché non accada mai più – la catena evidente di errori nella gestione di una giornata che non doveva proprio finire così. Da tale ricostruzione vanno, poi, tratte delle conclusioni circa le responsabilità.
Ma è tempo di più profondi mutamenti. Ognuno di noi conosce decine di ragazzi che amano il calcio, che non sono violenti, che si accalorano per la propria squadra ma che non si nutrono di odio contro gli altri per cercare una propria identità. Sono ragazzi dei quartieri protetti e di quelli esclusi, che durante la settimana studiano, lavorano, provano, con vere difficoltà, a trovare le vie per farcela in un momento nel quale non è semplice crescere e costruirsi un futuro; e amano, coltivano amicizie e curiosità infinite per il mondo. Questi ragazzi vanno allo stadio perché vivono la passione ludica per il calcio, che è, in tutto il pianeta, la cosa che unisce più persone, la più grande metafora, comune a tutti, delle meravigliose complessità della vita. E per questi milioni di ragazzi, così come per gli adulti, vi è il sacrosanto diritto di raggiungere lo stadio, sedersi, divertirsi e tornare sani e salvi a casa.
Va finalmente ripristinato un sistema di limiti e di patti che permetta questo.
Le autorità che non sanno garantire neanche le condizioni elementari perché ciò avvenga vanno sostituite. I sistemi di sanzione per le squadre i cui tifosi vanno oltre ogni presidio del limite civile –con l’istigazione alla violenza e il razzismo o con gli atti violenti – deve prevedere una penalizzazione nella posizione in classifica. Alle frange fanatiche e violente di ogni tifoseria va impedito di controllare biglietti e ingressi, di recarsi allo stadio in modo militare, di condizionare il tifo sano in modo intollerabile. Le società di calcio, dopo questo funerale, devono sapere fare un gesto chiaro, scindendo ogni connivenza con quanto non è più accettabile. E anche il giornalismo sportivo deve sapere presto dismettere toni, lessico, costruzioni mentali che nutrono alibi per le violenze.
E, poi, i capi o i rappresentanti delle tifoserie devono mettersi finalmente in discussione e ripristinare dei patti di onore, fondati sul reciproco rispetto. In ogni ambito umano si formano delle leadership. Quando, però, questi leader portano verso il disastro devono trasformarsi, cambiando radicalmente rotta o essere costretti a farlo. A Roma il 3 maggio scorso – va pur detto – sono stati valicati, da parte di una minoranza fanatica, due ulteriori limiti rispetto a ogni tradizione del tifo: è stato cercato lo scontro fisico da parte di una tifoseria di una squadra che non era in campo quella sera ed è stata usata un’arma da fuoco in una rissa tra tifoserie.
Ebbene: quando, nelle dinamiche anche conflittuali tra i gruppi umani, si valicano i limiti simbolici ed insieme, concretamente fattuali che questi stessi gruppi si sono implicitamente dati lungo il tempo, secondo codici reciprocamente riconosciuti, è giunto il momento di ritornare presto a un nuovo patto generale, esplicito, costruito in un luogo simbolico e sulla concorde adesione, un patto di pace capace di avere un’autorevolezza tale da isolare per sempre chi non sa aderire a una nuova più ragionevole maniera di confrontarsi intorno a una comune passione.
E’ questo che devono fare le tifoserie oggi o essere costrette a fare.
Gli adulti che sanno camminare per i quartieri delle città, che fanno gli educatori nelle scuole, nei centri sportivi, nelle parrocchie e che ascoltano i ragazzi sanno che questo è il tempo per ripristinare un presidio dei limiti e anche un onore perduto. Il calcio affianca ogni giorno tutte le attività di milioni di ragazzi e ne plasma e accompagna le idee e le difficoltà, le speranze e le possibilità. La questione calcistica non è – dal punto di vista educativo – una questione come le altre ma in qualche modo le comprende tutte, proprio per la sua potenza metaforica e la sua universalità.
Perciò è tempo di girare davvero pagina.
E, dopo lo straordinario funerale di Scampia, la città di Napoli, che ama la sua squadra, è chiamata a riprendere una posizione nazionale della quale si è dimostrata all’altezza ieri e perciò – proprio nel nome di Ciro e della sua famiglia – a proporre a ogni tifoseria d’Italia una stagione di pacificazione e di vera riparazione civile.
27 giugno, 2014
Diamo giudizi ma senza bocciare

Da qualche tempo la Francia s’interroga sui voti e sulle bocciature. Questo dibattito di oltralpe è utile anche a noi. Ci aiuta a guardare ai nostri punti di forza o di debolezza. E forse ci suggerisce qualche trasformazione già da tempo matura.
In Italia, come ovunque, sappiamo che bisogna raggiungere presto e bene le conoscenze irrinunciabili, ben descritte nelle indicazioni nazionali dove è detto cosa si deve sapere nelle diverse discipline in seconda, in quinta, in terza media e poi nelle diverse scuole superiori. Perciò, tutti sappiamo che ci vuole qualcuno – la maestra, il prof. – che ti dica: “guarda che questa cosa la sai ma quest’altra non la sai o la sai in parte e la devi e puoi apprendere”.
Il voto numerico è solo un modo, anche abbastanza grossolano, per fare questo. Il principio secondo il quale un adulto educatore vaglia, insieme al suo alunno o studente, le conoscenze e competenze non viene messo in discussione quando si discute del voto numerico. Né in Francia né qui. Quel che si discute oggi in Francia è un sistema centrato su conoscenze misurate solo con prove rigide, secondo scadenze ripetute in tempi non distesi, fin dalle classi elementari, con i docenti a fare medie aritmetiche estenuanti su ogni item di sapere, fino ai decimali e poi o bocciati o promossi. Il dibattito francese guarda finalmente alla possibilità, soprattutto per i più piccoli, di tempi e modi più distesi per favorire e misurare gli apprendimenti – cosa che noi abbiamo iniziato nel 1955.
La Francia, poi, si chiede se abbia senso spingere verso classi separate tutti i bambini in difficoltà (o perché appena arrivati da altri paesi o perché disabili o perché in una qualsiasi situazione di fragilità), dato che altri modelli - come quello italiano – integrano gli alunni con bisogni educativi speciali nella scuola ordinaria dal 1977, con buoni risultati per tutti - secondo l’OCSE.
I nostri vicini si stanno, infine, chiedendo, se la paura della bocciatura sia davvero la leva più utile per apprendere. E questo dibattito ci riguarda, eccome. Quasi tutte le scuole psico-pedagogiche – anche grazie a estese ricerche, ripetute nel tempo e in ogni cultura – pensano il contrario. Noi bocciamo i più piccoli molto di meno dei francesi: 0,2 % alla primaria, 4,3% alle medie. Ma – attenzione! - ancora l’11,8% alle superiori. E bocciamo soprattutto durante la crisi adolescenziale (15-16 anni) e nelle aree del Paese più povere e povere d’istruzione. E la maggior parte di chi viene bocciato entra a fare parte del 17,8% di ragazzi che ritroviamo a 25 anni senza diploma né qualifica professionale; che hanno rare occasioni di recuperare, che faranno lavori con bassi contenuti di sapere o rimarranno inoccupati, con grave danno per loro, per lo sviluppo economico che è fondato sulle conoscenze e per la coesione sociale.
La scuola deve essere più accogliente ma anche più rigorosa, avere percorsi per tutti ma superare gli eccessi di standardizzazione, favorire l’apprendimento laboratoriale rispetto a quello trasmissivo, fare i conti fino in fondo con il carattere permanente della rivoluzione tecnologica con cui i ragazzi si misurano in ogni momento eppure conservare anche modi di apprendere tradizionali.
Ma, detto ciò, non sarebbe meglio strutturare il sistema di conoscenze e competenze richieste per livelli, raggiungibili a scuola o anche dopo la fine della scuola senza dover per forza bocciare? Insomma, è possibile pensare – in Francia e in Italia - a una scuola che abbia un sistema di bilancio partecipativo e di rigorosa certificazione delle effettive competenze sulla base del quale Francesca o Françoise sanno a quale facoltà o programma di apprendimento successivo andare con quanto già sanno o a quale potere andare solo se recuperano quel che non sanno?
Ne vogliamo parlare anche noi?
11 giugno, 2014
Napoli
Dopo le giornate di
Repubblica delle idee a Napoli, che hanno visto 50 mila presenze agli eventi,
ho scritto questa riflessione sul rapporto tra eventi e la mia città, su
Repubblica Napoli del 10 giugno:
In questi giorni di La
Repubblica delle idee a Napoli si sono visti di nuovo i segni di speranze e
proponimenti. E di nuovo, quasi per incanto, a Napoli si è potuto parlare in
modo serio dell’Italia e in Italia di Napoli.
Per i tanti che sono venuti – moltissimi giovani – questo ha
dato un senso di possibilità. In fondo: chi l’avrebbe mai detto che nel caldo
del primo week end da mare si riempissero teatri, corti, piazze, in silenzio
teso, intorno ai grandi temi?
Ma questa volta il sentimento di speranza, autentico, forse
si è finalmente accompagnato a un sano tono guardingo, a una sorveglianza, a
sentimenti e pensieri di difesa. La città non vuole più illudersi per
disilludersi. Ha riempito davvero questo evento. Ma forse con nuovo spirito,
più adulto.
Quando un evento tocca una città, è difficile sapere quanta
sia l’influenza più profonda che provoca, cosa viene stimolato nel tessuto
civile, quali promesse possono sedimentarsi e a quali condizioni gli stimoli -
intorno a idee, analisi, proposte - possono restare più a lungo, nutrirsi per proprio
conto, andare oltre l’evento stesso.
Vedremo se avvengono altre cose, se saranno messe in campo,
da più parti, proposte più lunghe, se si saprà dare continuità, in qualche
forma, a queste stesse giornate.
Vedremo se sarà…
30 maggio, 2014
Opportunità
La vittoria del PD e di Renzi alle elezioni europee è tante cose. L’analisi del voto non la faccio. Dico solo che apre a opportunità, che è una vittoria che, potenzialmente, apre spazi per cambiare le cose, in Europa e in Italia. Sono spazi indispensabili. E sarebbero stati guai grandi se non si fossero aperti.
Le opportunità, però, sono tali se gli obiettivi sono ben definiti e se ci sono delle priorità su cui fare pesare questo voto.
E penso che la priorità vada data ai ragazzi, ai giovani. E tra questi ai giovani più esclusi, più poveri.
In Europa sono molti milioni. Nell’est europeo, in Spagna, in Grecia, in Portogallo e in Italia sono ancor di più in percentuale (per quanto ci riguarda, ieri è uscito il rapporto Istat; vale la pena dargli uno sguardo perché dice molto sull’esclusione dei giovani italiani e sulle loro crescenti povertà.
Insomma, penso che sia davvero urgente che il dibattito pubblico metta al centro le vere priorità per i giovani. E mi piacerebbe che si aprisse un confronto su come rendere effettive, intanto, due priorità per tutti i ragazzi dell’Europa.
Primo. Dare di più ai milioni di ragazzi e ragazze che, nella vita, partono con meno. Zone di educazione prioritaria nelle periferie e nelle aree più deboli in termini di formazione, istruzione ma anche di lavoro protetto che contenga apprendimento. Risorse dedicate a dove maggiore è la percentuale di persone giovani che escono dal sistema formativo. Alcune linee europee comuni su questo ci sono. Alcune buone pratiche e buone reti pure. Vanno rafforzate. Va fatto un Piano urgente. Il semestre italiano – proprio perché noi siamo uno dei paesi con più ragazzi esclusi – può essere l’occasione per avviare un vero riscatto. Nel Piano vanno messe risorse su cose che si sa che funzionano: scuole e percorsi di seconda opportunità, asili nido e ottime scuole d’infanzia e scuole di base nelle aree di massima esclusione, lavoro protetto per i giovani adulti emarginati con tempo per continuare ad apprendere, aiuto anche alle famiglie in maggiore difficoltà e sistemi di mentoring per i bambini e ragazzi più vulnerabili come i rom, sinti e camminanti, i figli di famiglie migranti e/o in condizione di povertà estrema, i drop-out dei quartieri più in crisi.
I soldi per queste cose vanno subito messi fuori dal fiscal compact. Il bilancio europeo, infatti, deve creare opportunità, altrimenti la stessa idea di Europa, già incrinata, presto si perderà. E, perciò, non può più pensare che si difende “l’equilibrio di bilancio” mentre vi è l’iniquo bilancio per le vite di milioni di giovani esclusi.
Seconda priorità. A tutti i ragazzi europei vanno date, rapidamente, le stesse opportunità che hanno nei paesi dove c’è più attenzione alle nuove generazioni. E’ ormai intollerabile – per ragazzi che attraversano l’Europa senza più frontiere da molti anni – vedere che ci sono differenze enormi su come vengono trattati in termini di effettive occasioni per studiare, acquisire autonomia dalla famiglia, trovare lavoro dignitoso, continuare ad apprendere mentre si lavora, avviare un’impresa, poter fare ricerca, poter riprendere gli studi dopo un periodo di lavoro, essere mobili, accedere a sport, cultura, leisure, ecc. Il welfare per i ragazzi deve raggiungere alcuni standard minimi, inderogabili in termini di formazione continua, welfare per quanto riguarda casa per i ragazzi con basso reddito, residenze universitarie, effettivo sostegno all’Erasmus che sia per tutti ma davvero per tutti, trasporti, fruizione di ogni opportunità culturale (musei, mostre, corsi), possibilità di accedere a lavori dignitosi dove si continua ad imparare, possibilità di ingresso per merito nei luoghi di studio e ricerca nonché accesso a spazi dedicati e a occasioni di partecipazione e decisione sulle scelte per il futuro dell’ambiente, delle città, ecc. Per i nostri ragazzi europei di Napoli, Salonicco, Valencia, Oporto o Bucarest devono rapidamente esserci le cose che già funzionano per i ragazzi europei di Berlino, Copenaghen e Rotterdam. Noi italiani, proprio perché sappiamo che oggi per i nostri ragazzi non è come dovrebbe essere, dobbiamo proporre un’agenda per le opportunità effettive dei giovani che sia un potente grimaldello per scardinare un sistema di esclusione che da noi ha intensità e dimensioni intollerabili.
Ecco: il dibattito e l’agenda politica fondati sulla proposta anziché sull’urlo, dopo queste europee, può partire da come fare queste cose?
Le opportunità, però, sono tali se gli obiettivi sono ben definiti e se ci sono delle priorità su cui fare pesare questo voto.
E penso che la priorità vada data ai ragazzi, ai giovani. E tra questi ai giovani più esclusi, più poveri.
In Europa sono molti milioni. Nell’est europeo, in Spagna, in Grecia, in Portogallo e in Italia sono ancor di più in percentuale (per quanto ci riguarda, ieri è uscito il rapporto Istat; vale la pena dargli uno sguardo perché dice molto sull’esclusione dei giovani italiani e sulle loro crescenti povertà.
Insomma, penso che sia davvero urgente che il dibattito pubblico metta al centro le vere priorità per i giovani. E mi piacerebbe che si aprisse un confronto su come rendere effettive, intanto, due priorità per tutti i ragazzi dell’Europa.
Primo. Dare di più ai milioni di ragazzi e ragazze che, nella vita, partono con meno. Zone di educazione prioritaria nelle periferie e nelle aree più deboli in termini di formazione, istruzione ma anche di lavoro protetto che contenga apprendimento. Risorse dedicate a dove maggiore è la percentuale di persone giovani che escono dal sistema formativo. Alcune linee europee comuni su questo ci sono. Alcune buone pratiche e buone reti pure. Vanno rafforzate. Va fatto un Piano urgente. Il semestre italiano – proprio perché noi siamo uno dei paesi con più ragazzi esclusi – può essere l’occasione per avviare un vero riscatto. Nel Piano vanno messe risorse su cose che si sa che funzionano: scuole e percorsi di seconda opportunità, asili nido e ottime scuole d’infanzia e scuole di base nelle aree di massima esclusione, lavoro protetto per i giovani adulti emarginati con tempo per continuare ad apprendere, aiuto anche alle famiglie in maggiore difficoltà e sistemi di mentoring per i bambini e ragazzi più vulnerabili come i rom, sinti e camminanti, i figli di famiglie migranti e/o in condizione di povertà estrema, i drop-out dei quartieri più in crisi.
I soldi per queste cose vanno subito messi fuori dal fiscal compact. Il bilancio europeo, infatti, deve creare opportunità, altrimenti la stessa idea di Europa, già incrinata, presto si perderà. E, perciò, non può più pensare che si difende “l’equilibrio di bilancio” mentre vi è l’iniquo bilancio per le vite di milioni di giovani esclusi.
Seconda priorità. A tutti i ragazzi europei vanno date, rapidamente, le stesse opportunità che hanno nei paesi dove c’è più attenzione alle nuove generazioni. E’ ormai intollerabile – per ragazzi che attraversano l’Europa senza più frontiere da molti anni – vedere che ci sono differenze enormi su come vengono trattati in termini di effettive occasioni per studiare, acquisire autonomia dalla famiglia, trovare lavoro dignitoso, continuare ad apprendere mentre si lavora, avviare un’impresa, poter fare ricerca, poter riprendere gli studi dopo un periodo di lavoro, essere mobili, accedere a sport, cultura, leisure, ecc. Il welfare per i ragazzi deve raggiungere alcuni standard minimi, inderogabili in termini di formazione continua, welfare per quanto riguarda casa per i ragazzi con basso reddito, residenze universitarie, effettivo sostegno all’Erasmus che sia per tutti ma davvero per tutti, trasporti, fruizione di ogni opportunità culturale (musei, mostre, corsi), possibilità di accedere a lavori dignitosi dove si continua ad imparare, possibilità di ingresso per merito nei luoghi di studio e ricerca nonché accesso a spazi dedicati e a occasioni di partecipazione e decisione sulle scelte per il futuro dell’ambiente, delle città, ecc. Per i nostri ragazzi europei di Napoli, Salonicco, Valencia, Oporto o Bucarest devono rapidamente esserci le cose che già funzionano per i ragazzi europei di Berlino, Copenaghen e Rotterdam. Noi italiani, proprio perché sappiamo che oggi per i nostri ragazzi non è come dovrebbe essere, dobbiamo proporre un’agenda per le opportunità effettive dei giovani che sia un potente grimaldello per scardinare un sistema di esclusione che da noi ha intensità e dimensioni intollerabili.
Ecco: il dibattito e l’agenda politica fondati sulla proposta anziché sull’urlo, dopo queste europee, può partire da come fare queste cose?
19 marzo, 2014
Lasciare il timone. Riprendere la via.
Eccomi di nuovo al mio blog. Che riprenderò, pian piano, a curare.
Non sono più Sottosegretario. Ho ripreso servizio nella mia scuola di Trento. Mi sono, poi, preso un po’ di permesso. Ho bisogno di una pausa. Per riprendere la via.
Nelle ultime tre settimane ho lavorato al passaggio di consegne. Penso che sia doveroso e importante consegnare informazioni e suggerimenti utili affinché le cose iniziate possano essere conosciute e concluse o anche migliorate da chi viene dopo di te. Si tratta, in particolare, delle norme attuative del decreto scuola, degli indirizzi dati per l’integrazione degli alunni con bisogni educativi speciali (BES) e quelli per l’integrazione degli alunni stranieri, dei prototipi contro la dispersione scolastica avviati in Campania, Puglia, Sicilia e Calabria e dell’avvio della nuova programmazione dei fondi comunitari 2014-2020, del sostegno alle scuole d’infanzia, primarie e medie per far sì che le Indicazioni per il curricolo siano valorizzate nel lavoro di ogni giorno dei docenti, dell’approccio innovativo dato sui temi della violenza, dell’omofobia e anche del cinema e teatro a scuola, ecc.
Di quello che ho potuto e saputo fare ho dato conto nei bilanci di mandato 2011/2013 e 2013/2014. A questi bilanci voglio aggiungere poche parole sul mio lavoro in Parlamento. Il mio papà ha fatto sacrifici perché vi fosse un Parlamento, avesse poteri, compiti, misura e regolamenti. Ho lavorato ogni settimana in commissione e in aula, assumendo la posizione del Governo, che mi spettava. Ho capito che si tratta di un lavoro artigianale, complesso, che richiede apprendimento ed equilibrio. Ho provato a esercitare questo lavoro al meglio delle mie capacità. Credo di averlo fatto con “disciplina e onore”. Per farlo ho seguito una bussola: mantenere un grande senso di rispetto per il Parlamento. E per i suoi membri. Anche quando appariva che persone o situazioni sembrassero smentire il senso del luogo ho voluto sempre rispettare quel senso. E penso che sia bene fare così. Ringrazio i parlamentari e i funzionari che mi hanno molto aiutato a mantenere questo buon intento.
E’ importante dare conto. Perché quando si governa lo si deve fare per il bene comune. Oggi si tende troppo a irridere a questo spirito. Si tratta, invece, di qualcosa che ha valore e che va ritrovato. Dalla società, dalla politica. E presto.
E’ vero che si governa entro un sistema complesso di vincoli: le leggi, il Parlamento, il bilancio, la parte che spetta al decisore membro del governo che è di indirizzo e la parte che spetta all'amministrazione, gli equilibri e i giochi della politica per come è e anche dei media, la posizione gerarchica di un Sottosegretario nei confronti del Ministro e del Capo del governo, ecc. Tutte queste cose entrano ogni giorno in gioco, contano, determinano. E, insieme, formano il contesto movimentato entro il quale si fa o non si fa. Ma poi ci sei tu che agisci, che scegli, che devi rendere conto. E alla fine, nelle condizioni date, hai fatto o non fatto, hai fatto meglio o peggio. Voglio ora dire che credo, onestamente, di avere lavorato bene. Perché penso che i limiti e gli errori siano stati contenuti e che le proposte e le cose fatte siano state pensate e attuate per l’interesse generale e che possono funzionare e avere efficacia.
Vi è un nesso tra fare un bilancio e chiuderlo con un accorto passaggio di consegne. Chi finisce un qualsiasi mandato deve sapersi allontanare da quel campo e lasciare bene il timone per riprendere la sua via. Alla fine di questi due anni di duplice mandato mi è venuto di riflettere sull'origine della parola ‘governare’. κυβερνάω significa, letteralmente, “reggere il timone”. Se lasci il timone devi raccontare la rotta fatta e i suoi perché. Ma poi devi lasciarlo a chi viene, cedendo davvero la posizione. L’attento governo richiede procedure sorvegliate e buoni passaggi. Queste cose hanno un valore in sé ma, in Italia, assumono un valore ulteriore perché vi è troppa sottovalutazione della cura che il governare e i suoi passaggi, a ogni livello, richiedono.
Ringrazio innanzitutto chi ha lavorato ogni giorno con me. Senza di loro non avrei potuto fare alcunché. Ringrazio ancora tutti quelli che mi hanno aiutato, sostenendo, proponendo, criticando. Insegnanti, dirigenti, studenti, genitori, membri delle amministrazioni e funzionari pubblici, colleghi del governo, parlamentari, amministratori locali, persone delle tante associazioni, studiosi, giornalisti, sindacalisti, imprenditori, cittadini. Tutti.
Ringrazio chi mi ha scritto in questi giorni. Li ringrazio anche per i loro grazie.
Sono stato veramente onorato di avere avuto l’opportunità di occuparmi di scuola da una posizione di governo nazionale dopo essermene occupato da quando ho ventuno anni, come docente e proponente di politiche educative. Mi sento anche sollevato perché sono contento di poter pensare ora ad altro. E sento dentro un’aria di libertà, che proverò a esprimere anche in questo luogo. Libertà di riflettere sulle cose delle quali mi sono occupato e di raccontarle da una posizione di ritrovata indipendenza. Libertà di immaginare la scuola e l’educare guardando al lavoro di chi la fa e al come la si può fare meglio. Libertà di pensare, cercare, provare nuovi modi per impegnarsi.
Non sono più Sottosegretario. Ho ripreso servizio nella mia scuola di Trento. Mi sono, poi, preso un po’ di permesso. Ho bisogno di una pausa. Per riprendere la via.
Nelle ultime tre settimane ho lavorato al passaggio di consegne. Penso che sia doveroso e importante consegnare informazioni e suggerimenti utili affinché le cose iniziate possano essere conosciute e concluse o anche migliorate da chi viene dopo di te. Si tratta, in particolare, delle norme attuative del decreto scuola, degli indirizzi dati per l’integrazione degli alunni con bisogni educativi speciali (BES) e quelli per l’integrazione degli alunni stranieri, dei prototipi contro la dispersione scolastica avviati in Campania, Puglia, Sicilia e Calabria e dell’avvio della nuova programmazione dei fondi comunitari 2014-2020, del sostegno alle scuole d’infanzia, primarie e medie per far sì che le Indicazioni per il curricolo siano valorizzate nel lavoro di ogni giorno dei docenti, dell’approccio innovativo dato sui temi della violenza, dell’omofobia e anche del cinema e teatro a scuola, ecc.
Di quello che ho potuto e saputo fare ho dato conto nei bilanci di mandato 2011/2013 e 2013/2014. A questi bilanci voglio aggiungere poche parole sul mio lavoro in Parlamento. Il mio papà ha fatto sacrifici perché vi fosse un Parlamento, avesse poteri, compiti, misura e regolamenti. Ho lavorato ogni settimana in commissione e in aula, assumendo la posizione del Governo, che mi spettava. Ho capito che si tratta di un lavoro artigianale, complesso, che richiede apprendimento ed equilibrio. Ho provato a esercitare questo lavoro al meglio delle mie capacità. Credo di averlo fatto con “disciplina e onore”. Per farlo ho seguito una bussola: mantenere un grande senso di rispetto per il Parlamento. E per i suoi membri. Anche quando appariva che persone o situazioni sembrassero smentire il senso del luogo ho voluto sempre rispettare quel senso. E penso che sia bene fare così. Ringrazio i parlamentari e i funzionari che mi hanno molto aiutato a mantenere questo buon intento.
E’ importante dare conto. Perché quando si governa lo si deve fare per il bene comune. Oggi si tende troppo a irridere a questo spirito. Si tratta, invece, di qualcosa che ha valore e che va ritrovato. Dalla società, dalla politica. E presto.
E’ vero che si governa entro un sistema complesso di vincoli: le leggi, il Parlamento, il bilancio, la parte che spetta al decisore membro del governo che è di indirizzo e la parte che spetta all'amministrazione, gli equilibri e i giochi della politica per come è e anche dei media, la posizione gerarchica di un Sottosegretario nei confronti del Ministro e del Capo del governo, ecc. Tutte queste cose entrano ogni giorno in gioco, contano, determinano. E, insieme, formano il contesto movimentato entro il quale si fa o non si fa. Ma poi ci sei tu che agisci, che scegli, che devi rendere conto. E alla fine, nelle condizioni date, hai fatto o non fatto, hai fatto meglio o peggio. Voglio ora dire che credo, onestamente, di avere lavorato bene. Perché penso che i limiti e gli errori siano stati contenuti e che le proposte e le cose fatte siano state pensate e attuate per l’interesse generale e che possono funzionare e avere efficacia.
Vi è un nesso tra fare un bilancio e chiuderlo con un accorto passaggio di consegne. Chi finisce un qualsiasi mandato deve sapersi allontanare da quel campo e lasciare bene il timone per riprendere la sua via. Alla fine di questi due anni di duplice mandato mi è venuto di riflettere sull'origine della parola ‘governare’. κυβερνάω significa, letteralmente, “reggere il timone”. Se lasci il timone devi raccontare la rotta fatta e i suoi perché. Ma poi devi lasciarlo a chi viene, cedendo davvero la posizione. L’attento governo richiede procedure sorvegliate e buoni passaggi. Queste cose hanno un valore in sé ma, in Italia, assumono un valore ulteriore perché vi è troppa sottovalutazione della cura che il governare e i suoi passaggi, a ogni livello, richiedono.
Ringrazio innanzitutto chi ha lavorato ogni giorno con me. Senza di loro non avrei potuto fare alcunché. Ringrazio ancora tutti quelli che mi hanno aiutato, sostenendo, proponendo, criticando. Insegnanti, dirigenti, studenti, genitori, membri delle amministrazioni e funzionari pubblici, colleghi del governo, parlamentari, amministratori locali, persone delle tante associazioni, studiosi, giornalisti, sindacalisti, imprenditori, cittadini. Tutti.
Ringrazio chi mi ha scritto in questi giorni. Li ringrazio anche per i loro grazie.
Sono stato veramente onorato di avere avuto l’opportunità di occuparmi di scuola da una posizione di governo nazionale dopo essermene occupato da quando ho ventuno anni, come docente e proponente di politiche educative. Mi sento anche sollevato perché sono contento di poter pensare ora ad altro. E sento dentro un’aria di libertà, che proverò a esprimere anche in questo luogo. Libertà di riflettere sulle cose delle quali mi sono occupato e di raccontarle da una posizione di ritrovata indipendenza. Libertà di immaginare la scuola e l’educare guardando al lavoro di chi la fa e al come la si può fare meglio. Libertà di pensare, cercare, provare nuovi modi per impegnarsi.
21 febbraio, 2014
Lavori in Corso - Bilancio di Mandato
Cari studenti, insegnanti, dirigenti, cari amici e care amiche,
anche al termine di questo breve mandato da Sottosegretario desidero fare un resoconto del lavoro svolto insieme al Ministro Carrozza e alla squadra che ha guidato il MIUR e in particolare sulle mie deleghe, come contributo alla riflessione e alla discussione sui temi educativi e sulle politiche pubbliche, che credo non debba mai venire meno.
Ho avuto, in questi nove mesi, l’opportunità di proseguire il lavoro iniziato e svolto nel corso del mio primo mandato per una scuola contemporanea, personalizzata, inclusiva ed educante. (...)
14 febbraio, 2014
L'agenda che serve al Sud è l'agenda che serve all'Italia
In risposta alle critiche, ma soprattutto per spiegare le ragioni di una scelta politica: investire 15 milioni di euro contro la dispersione scolastica come politica nazionale, preventiva, per la riduzione dei divari. Un mio articolo oggi su Il Mattino.
Il dibattito sui fondi per la lotta alla dispersione scolastica aiuta tutti noi a riflettere. L’Italia attraversa una fase di grande sofferenza. Alle forme persistenti e ormai ben conosciute di esclusione economica e sociale si aggiungono le conseguenze della crisi economica: aumento della disoccupazione, dei giovani inoccupati e precari, delle famiglie impoverite, degli immigrati senza più impiego. I dati Istat non lasciano dubbi: l’emergenza maggiore è al Sud, dove si concentra il doppio delle famiglie povere rispetto al resto d’Italia. Ma anche al Centro-Nord la situazione è in grave peggioramento, complice il disgregarsi dei servizi di welfare locale, che avevano garantito negli anni una tenuta. Secondo la Comunità di Sant’Egidio nella sola città di Roma ci sono 30.000 bambini in povertà assoluta.
Conosco bene le forme dell’esclusione sociale precoce del Meridione. Ho trascorso vent’anni della mia vita a lavorare con i bambini e i ragazzi esclusi a Napoli e gli ultimi due anni e mezzo – nel mio ruolo di Sottosegretario all’Istruzione, insieme all’allora Ministro Barca e alle Regioni stesse – a progettare e monitorare l’uso dei fondi europei non spesi dalle Regioni meridionali per reinvestirli nel contrasto alla dispersione scolastica. E’ per questo che oggi sono attive 206 reti di scuole contro gli abbandoni in Campania, Puglia, Calabria e Sicilia, finanziate con 50 milioni di euro. La lotta alla dispersione al Sud è diventata una priorità delle politiche per la riduzione dei divari sociali. Si tratta di un’occasione importante, dopo i numerosi fallimenti del passato nell’uso delle risorse per il Mezzogiorno. Fallimenti - dovuti sia a scelte nazionali, sia a manifeste mancanze della classe dirigente meridionale - che hanno contribuito negli anni a determinare una riduzione progressiva delle risorse per il Sud e ad alimentare la delegittimazione di ogni politica nazionale incentrata sulla riduzione dei divari ovunque e per tutto il Paese.
A questo strumento dedicato al Sud si è aggiunto pochi mesi fa, con il Decreto “L’Istruzione Riparte”, un ulteriore programma di carattere nazionale di prevenzione degli abbandoni. Le priorità di azione che Governo e Parlamento hanno stabilito sono il contrasto del disagio giovanile causa di abbandoni, il rafforzamento delle competenze di base e anche l’integrazione degli alunni stranieri, presenti, com’è noto, maggiormente nel Centro-Nord. Quando si fanno delle scelte politiche le polemiche non mancano mai. Credo sia giusto riconoscere che il Ministero dell’Istruzione ha scelto una prospettiva nazionale, preventiva, che guarda alla complessità, costruendo uno strumento utile alle scuole per rispondere - con risorse limitate, 15 milioni di euro - a bisogni educativi diversi con azioni diverse e mirate. Questa scelta può servire a ribadire che l’Italia è una e che nella crisi le difficoltà devono unirci.
Ogni giorno mi chiedo se siano sufficienti le azioni e le risorse messe in campo per la lotta alla dispersione scolastica: la risposta è no. Ma so anche che le risorse da sole non promettono successo. Così i decisori pubblici dovranno valutare con accuratezza gli esiti delle politiche già attuate, riprogrammare altri fondi per il 2014-20, dedicare attenzione speciale alle problematiche delle aree interne. E si dovrà poi finalmente cambiare la scuola con una profondità sufficiente e con abbastanza risorse da trasformare in ordinario ciò che oggi è ancora affidato ai programmi straordinari: una didattica più incentrata sui bisogni di ciascuno e una promozione del merito come conquista e non come destino. Tutto questo andrà integrato con politiche anti-povertà e pro-occupazione, che non siano a pioggia né di tipo assistenzialista, in tutto il Paese e soprattutto nel Mezzogiorno. Iniziando da una formazione professionale degna di questo nome, che al Sud non abbiamo saputo costruire.
Se il Mezzogiorno saprà cogliere le occasioni che si presentano e la politica nazionale muoversi in queste direzioni, i divari potranno cominciare a ridursi.
Solo allora, forse, potremo uscire dall’alternativa “rassegnarsi o gridare” per mostrare alle classi dirigenti del Paese che l’agenda che serve al Sud – istruzione, lotta alla povertà e all’esclusione, ambiente, occupazione e imprenditorialità – è la stessa agenda che serve all’Italia.
26 novembre, 2013
Concretezza e azione sociale. La terza via meridionalista di Carlo Borgomeo.
La recensione del libro di Carlo Borgomeo "L'Equivoco del Sud" (Editori Laterza) pubblicata a mia firma su La Stampa del 25 Novembre 2013.
L’equivoco del Sud di Carlo Borgomeo (edito da Laterza) è una chiamata alle responsabilità, comuni e di ciascuno. Il libro si fonda su un rovello antico. Un rovello che è nato con l’Italia unitaria, con il famoso monito di Giuseppe Mazzini: «l’Italia sarà quel che il Mezzogiorno sarà». Un monito che ha ispirato, lungo i decenni, chiunque abbia voluto contribuire a dare una prospettiva al Sud e dunque al Paese intero, da Giustino Fortunato e Gaetano Salvemini fino a oggi. E che ha prodotto una domanda tenace, un rovello appunto: come e con chi fare le cose che servono?
È il rovello delle persone che, concentrate su come risolvere problemi nell’interesse comune, hanno voluto rimarcare una distanza nei confronti di tanta parte delle classi dirigenti meridionali che hanno operato, al contrario, per perpetuare se stesse usando i problemi anziché affrontandoli; e che, nel farlo, hanno tratto vantaggio dalla sterile altalena urlo/piagnisteo.
Borgomeo prova una vera insofferenza verso l’alternativa «lottare o piagnucolare», che sembra sempre intrappolare larga parte della discussione pubblica sul e nel Mezzogiorno. Egli ha, infatti, dedicato il suo impegno al fare concreto, negli ultimi anni come presidente della Fondazione Con il Sud, mettendo insieme le vocazioni più illuminate presenti nelle grandi fondazioni bancarie del Nord con le forze migliori del terzo settore, della scuola pubblica, del volontariato del Mezzogiorno.
Alcune delle esperienze di maggiore successo sono riportate nel libro, come la bellissima avventura della Cooperativa La Paranza dei ragazzi del Rione Sanità di Napoli, che accompagnano i turisti nelle meravigliose Catacombe di San Gennaro. Ma molte altre andrebbero raccontate: dalle cooperative sorte nei beni confiscati alle mafie, fino alla rete Crescere al Sud, che unisce le principali realtà che si battono in campo educativo nelle aree di maggiore esclusione sociale.
L’autore, tuttavia, non sposa la facile retorica delle «buone pratiche». Suggerisce piuttosto che s’impara almeno altrettanto dalle «cattive pratiche» e che servano a poco gli esempi di eroismo irraggiungibile. Nell’azione di Borgomeo - ben oltre le parole del libro - la prospettiva è quella di confrontarsi tra chi opera e di dare parola e, poi, sostenere esperienze tanto concrete quanto promettenti in termini sia di coesione sociale sia di crescita economica. Riportare a scuola i ragazzini; dare forza a imprese che coniugano legalità e approcci ecosostenibili; rimettere in moto produzioni agricole di qualità; rendere concorrenziali e solide le produzioni manifatturiere che hanno resistito alla crisi; trovare nuove soluzioni alle povertà urbane estreme; creare filiere di vera formazione professionale; garantire crediti a chi crea impresa innovativa.
Il libro - che ci accompagna con una sorvegliata e incisiva attenzione ai dati e che attraversa episodi paradigmatici di sviluppo effettivo e di sviluppo mancato nel Mezzogiorno – delinea la necessità e la possibilità di una politica diversa. Attenzione per il divario sociale prima che per il reddito; esigenze territoriali diversificate contro programmazione nazionale rigida; selezione dei destinatari delle agevolazioni e dei fondi sulla base della validità sotto il profilo imprenditoriale e sociale invece che attraverso complicate procedure formali e burocratiche; premialità verso chi realizza, anziché verso le troppe posizioni di rendita; forte investimento sulla partecipazione della comunità e del territorio; costante attenzione ai dettagli del saper risolvere specifici problemi.
Borgomeo mostra sprechi e cattivo governo o peggio ma individua il centro della questione - l’equivoco del Sud, appunto - nell’aver troppo a lungo concentrato l’attenzione, dopo la fase di sviluppo post bellico, su quante risorse fossero stanziate anziché sulla loro destinazione e su un accurato e costante esame degli esiti effettivi. E nell’aver creduto che la soluzione risiedesse solo nella crescita del Pil e del reddito medio, anziché nello sviluppo delle comunità che va fondato su diritti inalienabili quali la legalità, la scuola per tutti, i servizi sociali e culturali esigibili, la possibilità di imprese sane, un credito accessibile, un lavoro raggiungibile.
Dunque, il fallimento della politica e delle politiche viene messo in relazione con una dipendenza da modelli sbagliati. E Borgomeo suggerisce un capovolgimento di paradigma: la coesione sociale va finalmente posta come vera premessa per qualsiasi prospettiva di sviluppo.
Si tratta di una sottolineatura importante, che ha i padri ispiratori nel meridionalismo riformatore del dopoguerra, nel cattolicesimo comunitario, nella cultura liberale e azionista, nelle esperienze di sviluppo locale di cui il Sud ha dato testimonianze d’avanguardia, alte ma inascoltate.
Poiché Borgomeo non si sottrae dal fornire un ritratto impietoso delle classi dirigenti nazionali e meridionali - senza scadere mai nella banalità del «sono tutti ladri» e nei deliri catartici - egli cerca le ragioni storiche e politiche che hanno determinato la pressoché totale mancanza di responsabilità, coraggio, efficacia, una mancanza che ha spinto alla sconfitta o relegato in condizione di minorità proprio quelle esperienze e pensieri passati che contenevano le migliori promesse, disattese.
Così l’analisi di Borgomeo ci chiede di dismettere ogni facile ottimismo, per prepararci davvero a una nuova stagione di fattiva responsabilità nel Meridione e in tutto il Paese.
07 ottobre, 2013
Un parziale lieto fine
Spesso ci sono episodi che avvengono nelle nostre scuole che vale la pena raccontare. Per rendere l’idea dell’impegno con il quale dirigenti, insegnanti, famiglie affrontano le tante difficoltà, soprattutto nei territori difficili.
Diversi giorni fa apprendo dai giornali locali che la scuola Virgilio 4 di Scampia, a Napoli, dove l’anno passato abbiamo presentato in una bella conferenza stampa i prototipi contro la dispersione scolastica – una scuola funzionante, innovativa, importantissima per il territorio – aveva subito il secondo furto in dieci giorni. Numerosi pc, tablet, strumenti musicali, materiali didattici erano stati sottratti.
Ho subito telefonato al dirigente scolastico, Paolo Battimiello, che mi ha raccontato la triste sorpresa per ben due mattine in dieci giorni, la corsa dai carabinieri per fare la denuncia, il grande supporto ricevuto dalle forze di polizia e dall’ufficio scolastico regionale.
Ma ciò che più consola, il grande coinvolgimento delle famiglie dei bambini di fronte a un episodio tanto grave.
Parte un lavoro di squadra: le ricerche dei carabinieri sul territorio e lo sforzo della comunità scolastica per restare unita e mostrare la propria indignazione al quartiere di fronte a un furto che colpisce non soltanto ciascuno dei bambini della scuola, ma l’immagine stessa di Scampia, così spesso oltraggiata e ferita dalle rappresentazioni mediatiche semplificate e dalle sempre dannose generalizzazioni.
Nel pomeriggio buona parte della refurtiva viene ritrovata nel cortile. Gli autori hanno deciso di restituirla, perfettamente integra. Un parziale lieto fine, a cui faranno seguito le ricerche della parte ancora mancante e il doveroso aiuto che siamo pronti a fornire ad una scuola capace e coraggiosa. Che ci ha dimostrato ancora una volta che una scuola – e ce ne sono tante così – è un bene prezioso nei territori difficili e può battersi per la legalità, farsi comunità educante, stringere alleanze importanti con i cittadini di un quartiere, affrontando situazioni difficili.
01 ottobre, 2013
Questi giorni
Mentre in Italia saranno ore decisive per le sorti del Governo, rappresenterò il Ministro Carrozza all'incontro OCSE di Istanbul su scuola, formazione professionale e competenze degli adulti. Siamo indietro, soprattutto sulla formazione degli adulti. Dirò che il Governo è impegnato contro la disoccupazione giovanile – ormai oltre il 40% - e contro la dispersione scolastica. Ma per farcela l’Italia ha bisogno di continuità, responsabilità e determinazione su questi temi. E’ impossibile affrontare le emergenze cambiando Governo ogni anno. La crisi politica di questi giorni mette in pericolo il decreto sull'istruzione e futuri provvedimenti.
Le larghe intese non erano la strada preferita da molti di noi. Ma si è scelta questa difficile via e dover interrompere il lavoro ora, in questo modo, comprometterebbe anche gli sforzi fatti per la discontinuità con il passato, che per la prima volta hanno portato nuove risorse per la scuola.
Non sarà facile rispondere alle domande dei colleghi dell’OCSE. Spiegare il perché di tutto questo. Spero di ricevere buone notizie per il nostro Paese.
09 settembre, 2013
La scuola riparte
Sarà un inizio anno scolastico da ricordare in modo positivo. Proprio oggi - mentre riprendono le lezioni in molte scuole in tutta Italia - il Consiglio dei Ministri ha approvato il Decreto Scuola, Università e Ricerca. E’ il frutto del nostro lavoro nei primi 100 giorni di Governo ed è il primo passo che finalmente si compie per una vera inversione di tendenza nelle politiche per l’istruzione.
Non soltanto il Ministro Carrozza ha mantenuto la promessa dello stop ai tagli (la scuola sarà l’unico settore escluso dalla spending review), ma arrivano le prime vere risorse dopo la stagione dei tagli 2008-2011.
Il Decreto del Fare aveva stanziato 450 milioni per l’edilizia e ora il Decreto Scuola aggiunge altri fondi per aiutare le scuole e gli Enti Locali ad accedere a mutui agevolati della Banca Europea degli Investimenti ed altre agenzie internazionali del credito.
Il Decreto prevede altre, significative risorse in capitoli decisivi per l’inclusività e la qualità del nostro sistema scolastico.
Una prima risposta per i ragazzi sono 100 milioni per le borse di studio. E’ un investimento consolidato, che dal 2014 sarà a bilancio dello Stato ogni anno. E poi ci sono risorse per alcuni strumenti di welfare studentesco, come i contributi per trasporti e mense. C’è un finanziamento per il comodato d’uso dei libri di testo e norme più stringenti in materia di tetti di spesa per gli stessi.
Il contrasto alla dispersione scolastica acquisisce finanziamenti in più per estendere ed integrare le azioni in corso e per aprire le scuole al pomeriggio.
E’ un testo che si rivolge anche ai docenti e al personale, affrontando questioni aperte da tempo e rilanciando in tema di stabilità e continuità didattica. Infatti si prevede un piano triennale di assunzioni su tutti i posti liberati dal turn over e su quelli vacanti e disponibili, per il triennio 2014/16, per 69mila docenti e 16mila ATA. Si assumeranno più ispettori. Si abroga la norma che prevedeva il transito dei docenti inidonei nei ruoli amministrativi, il che ridarà quelle posizioni al personale ATA. Insomma: si darà certezza a molte migliaia di docenti e a ragazzi e famiglie. A partire dai più fragili. Oltre 26mila docenti di sostegno verranno assunti a tempo indeterminato, garantendo la continuità didattica a 52.000 alunni oggi assistiti da docenti precari.
Riparte poi, finalmente, la formazione in servizio per i docenti, con priorità alle aree a rischio socio-educativo, alle competenze digitali e ai percorsi scuola-lavoro.
E’ un provvedimento che immette nell’agenda politica concetti e parole importanti per la scuola e per il Paese: più istruzione, più opportunità, più coesione. E lo fa con un primo investimento di 400 milioni di euro. E’ il primo segno “+” dato alla scuola dopo tanti anni e tante difficoltà per studenti, famiglie e personale.
So bene che non tutto sarà magicamente risolto con questo decreto e che alcune questioni importanti rimangono aperte. Il nostro impegno continuerà anche nei prossimi mesi per riportare a regime gli investimenti nel settore e per seguire con cura le azioni previste dal decreto.
Oggi, però, registriamo che una ripartenza è possibile. Inizia il nuovo anno scolastico e la scuola italiana riparte.
Auguri di buon lavoro a tutti noi!
Il comunicato stampa di Palazzo Chigi
Le slide “L’istruzione riparte”
Il video della conferenza stampa
06 luglio, 2013
Primo mese
Il primo mese del nuovo mandato da Sottosegretario è passato, tra appuntamenti fissi per il mondo della scuola e qualche prima novità.
Tra gli appuntamenti fissi, la fine dell’anno scolastico e gli esami di maturità. I temi della maturità a me sono piaciuti perché portavano dentro il mondo per come è e alle grandi questioni aperte per le nuove generazioni. Ho proposto una riflessione sulle bocciature, intervistato sul tema da Panorama, che tenga insieme il patto educativo tra il ragazzo e gli insegnanti e la scelta finale del collegio docenti. Che deve essere per il ragazzo comprensibile. Occorre comunque e sempre sottrarsi a semplificazioni e generalizzazioni quando ci si confronta sui temi educativi.
Molto grave, invece, l’episodio di Nola, dove la guardia di finanza è intervenuta durante lo svolgimento dell’esame di Stato in un sospetto “diplomificio”. Durante lo scorso mandato mi ero personalmente impegnato per il varo di nuove norme restrittive, ma tutto si era fermato in Parlamento. Il Ministro Carrozza ha annunciato di voler subito riprendere questo percorso: mi sembra cosa buona e giusta, utile a colpire cose inaccettabili e anche a difendere il senso di un sistema pubblico integrato tra scuole statali e scuole paritarie.
Ho avuto modo di partecipare a nome del Governo al dibattito nell’aula della Camera al gran completo attorno alle mozioni di tutti i gruppi parlamentari sulle risorse per la scuola. Da allora sto parlando, nel merito delle cose da fare per la scuola nelle condizioni date, con parlamentari di tutti i gruppi. Comunque quello è stato un momento di forte unità nazionale e di confronto vero sulle priorità, a partire dalle linee programmatiche già presentate dal Ministro Carrozza. Ho espresso la mia soddisfazione per questa unità di intenti, che trovo importante e non scontata. Insomma, finalmente tutto il Parlamento della Repubblica concorda che i soldi per la scuola sono investimenti in sviluppo e coesione del Paese.
Ora occorre mettere insieme un po’ di risorse attorno ad alcune priorità realizzabili in poco tempo.
Mi pare un’ottima notizia che l’Unione Europea abbia dato il via libera ad un po’ di investimenti per la crescita: ritengo che l’edilizia scolastica possa pienamente rientrare tra queste priorità. Serve molto alle scuole e alla messa in sicurezza, dà lavoro alle imprese.
Ma servirà anche - più prima che poi! - capire quante risorse si possono mettere sulla qualità dell’istruzione e sul diritto allo studio. Anche questo è investimento in sviluppo, al pari delle misure già varate per sostenere l’occupazione dei giovani. Va bene affrontare l’emergenza, ma le politiche per i giovani devono diventare mainstreaming: pervadere l’agenda politica del Paese, dall’istruzione, al welfare allo sviluppo economico.
Vanno bene i primi passi, aiutano. Ma non bastano, non bastano più.
I primi cento giorni del Governo saranno un primo momento per capire se si riesce davvero ad andare in questa direzione.
Tra gli appuntamenti fissi, la fine dell’anno scolastico e gli esami di maturità. I temi della maturità a me sono piaciuti perché portavano dentro il mondo per come è e alle grandi questioni aperte per le nuove generazioni. Ho proposto una riflessione sulle bocciature, intervistato sul tema da Panorama, che tenga insieme il patto educativo tra il ragazzo e gli insegnanti e la scelta finale del collegio docenti. Che deve essere per il ragazzo comprensibile. Occorre comunque e sempre sottrarsi a semplificazioni e generalizzazioni quando ci si confronta sui temi educativi.
Molto grave, invece, l’episodio di Nola, dove la guardia di finanza è intervenuta durante lo svolgimento dell’esame di Stato in un sospetto “diplomificio”. Durante lo scorso mandato mi ero personalmente impegnato per il varo di nuove norme restrittive, ma tutto si era fermato in Parlamento. Il Ministro Carrozza ha annunciato di voler subito riprendere questo percorso: mi sembra cosa buona e giusta, utile a colpire cose inaccettabili e anche a difendere il senso di un sistema pubblico integrato tra scuole statali e scuole paritarie.
Ho avuto modo di partecipare a nome del Governo al dibattito nell’aula della Camera al gran completo attorno alle mozioni di tutti i gruppi parlamentari sulle risorse per la scuola. Da allora sto parlando, nel merito delle cose da fare per la scuola nelle condizioni date, con parlamentari di tutti i gruppi. Comunque quello è stato un momento di forte unità nazionale e di confronto vero sulle priorità, a partire dalle linee programmatiche già presentate dal Ministro Carrozza. Ho espresso la mia soddisfazione per questa unità di intenti, che trovo importante e non scontata. Insomma, finalmente tutto il Parlamento della Repubblica concorda che i soldi per la scuola sono investimenti in sviluppo e coesione del Paese.
Ora occorre mettere insieme un po’ di risorse attorno ad alcune priorità realizzabili in poco tempo.
Mi pare un’ottima notizia che l’Unione Europea abbia dato il via libera ad un po’ di investimenti per la crescita: ritengo che l’edilizia scolastica possa pienamente rientrare tra queste priorità. Serve molto alle scuole e alla messa in sicurezza, dà lavoro alle imprese.
Ma servirà anche - più prima che poi! - capire quante risorse si possono mettere sulla qualità dell’istruzione e sul diritto allo studio. Anche questo è investimento in sviluppo, al pari delle misure già varate per sostenere l’occupazione dei giovani. Va bene affrontare l’emergenza, ma le politiche per i giovani devono diventare mainstreaming: pervadere l’agenda politica del Paese, dall’istruzione, al welfare allo sviluppo economico.
Vanno bene i primi passi, aiutano. Ma non bastano, non bastano più.
I primi cento giorni del Governo saranno un primo momento per capire se si riesce davvero ad andare in questa direzione.
07 giugno, 2013
Buoni programmi
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Foto da "Banchi di scuola" di Carla e Giorgio Milone |
La settimana scorsa il Ministro Maria Chiara Carrozza ha conferito le deleghe: a me spetta occuparmi – tra le tante cose - della scuola di base, dei bisogni educativi speciali, dello status dello studente, della legalità e del contrasto alla dispersione scolastica. E di formazione e reclutamento degli insegnanti.
Sono compiti importanti, molti dei quali in continuità con ciò a cui ho lavorato nello scorso mandato. Cercherò di svolgerli al meglio nel tempo che ci sarà dato in questo Governo.
Che ha bisogno di uno slancio, mi pare. A partire dalle buone notizie che ci arrivano dall'Europa: l’Italia esce dalla procedura di infrazione e questo potrà significare – speriamo presto - qualche margine d’azione in più per far ripartire gli investimenti in sviluppo, occupazione ed equità. E’ essenziale che tra queste priorità ci sia la scuola. Lo ha ribadito anche il Ministro Carrozza portando alla discussione in Parlamento le linee guida del suo mandato su scuola, università e ricerca.
Intanto ci sono un paio di buone novità per Napoli: ho incontrato i lavoratori di Città della Scienza, che aspettavano da mesi e mesi gli stipendi. Abbiamo trovato una prima intesa su tempi certi per effettuare i pagamenti, a partire da questo mese.
E per la prima volta dopo anni, in Campania aumentano gli organici: 250 posti in più per la scuola di base. Si riuscirà così a coprire totalmente la domanda di tempo pieno e prolungato.
E’ un segno di sensibilità verso un’area difficile. So bene che le ristrettezze si sentono anche altrove, ma da qualche parte occorre cominciare e speriamo presto di poter pensare a un’azione più estesa.
Diversi casi di cronaca – tra cui la terribile morte di Fabiana in Calabria - hanno nuovamente portato alla ribalta un tema delicatissimo. La fragilità dei ragazzi, che arriva a fare e farsi male. Si richiama - a volte anche a sproposito - il bullismo. E ci si chiede come sia possibile e cosa poteva, doveva fare la scuola per evitare tutto questo. Da un lato la scuola è chiamata a svolgere compiti sempre più estesi, nel campo della socializzazione e della relazione con l’altro. D’altra parte deve difendere la sua mission principale: essere un luogo in cui si apprendono conoscenze e competenze in maniera formalizzata. Anche in questo caso Carrozza ha fatto un passaggio importante nelle linee guida presentate alle Camere, sulla domanda complessa e confusa di educazione a cui le scuole devono rispondere.
Il Miur deve trovare le strade per affrontare la questione insieme alle scuole, a partire da quanto di buono già si fa, per essere luogo di costruzione e sperimentazione di relazioni positive, belle, vere. Serve aprire una discussione, cominciare a porre le giuste domande senza aver fretta di trovare le risposte. E’ in questo ambito che vanno inserite tutte le azioni contro l’omofobia, per la prevenzione della violenza sulle donne e contro ogni odiosa discriminazione. Ci stiamo interrogando attorno a tutto questo.
Uno spunto originale viene dai ragazzi del liceo Fermi di Aversa, i compagni di scuola di Emanuele. Che mi hanno scritto le loro proposte, che spero di discutere presto insieme a loro.
E Cesare Moreno ci propone invece una discussione costituente – a tratti sanamente provocatoria -da farsi nei più alti luoghi della Repubblica attorno ai temi educativi.
A me piacerebbe che anche questo spazio diventasse parte di questa discussione. Come si educa alla relazione. Come comunicare tra scuole e tra scuole e Ministero quello che si fa in questo ambito, i risultati, le criticità. Come rispondere alla grande domanda educativa che ci giunge in forme sempre nuove dai ragazzi e dalle famiglie.
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