19 marzo, 2013

Il punto


Sarò lungo. Ci sono dei momenti nei quali si deve fare un po’ il punto. 
In questo blog da otto anni provo a parlare di politica fuori dal suo linguaggio separato. Provo a parlare di politica come quella cosa complicata che è governare la polis, la nostra grande città che è una comunità anche quando è ferita, inaridita, lacerata, abbandonata o quando c’è la speranza ma fa fatica a diventare atto, costruzione, azione positiva. Sono partito dalla mia città, che si chiama Napoli, Nea polis, città nuova. Come ci si può occupare della propria o della più grande città che abitiamo facendola nuova in senso profondo e perciò anche conservandone le molte parti promettenti, come si fa politica – in senso proprio - oggi? Come la si ripara e innova la nostra grande polis? Come lo si fa insieme – tra chi governa e rappresenta e chi è governato ma deve poter davvero contare nelle decisioni riguardanti il bene comune? Se si guardano i quasi 500 post di questo luogo negli anni, beh, è questo il tema che ho scelto di trattare: i problemi da affrontare, la descrizione del loro carattere complesso, lo stato dell’arte nel mondo su come li si analizza e tratta, il come provare a risolverli. L’ho fatto soprattutto a partire dalle cose che so, che ho studiato e innanzitutto direttamente praticato, le cose che hanno occupato i miei giorni: la scuola e i temi educativi – con in testa i bambini e i ragazzi -, il Sud, l’inclusione sociale. Perché non ho mai avuto altra idea della politica. 

E’ da questo punto di vista che guardo con preoccupazione, dubbio e speranza al nostro Paese che ora è immerso in un passaggio molto difficile. E’ venuta meno la speranza che la volontà popolare indicasse un vincitore certo delle elezioni, per comporre un Governo caratterizzato da stabilità e consenso, che si occupasse subito, in modo anche nuovo ed efficace, delle cose da fare: promuovere un’idea di Europa più comunitaria che tecnocratica, più partecipativa e solidale, capace di concentrarsi sull’uscita da una crisi economica, sociale e culturale profondissima, liberando risorse per avviare la crescita e presto alleviando la morsa di approcci recessivi; mettere risorse e subito per le urgenze sociali e per la scuola; avviare davvero la riforma della politica; dare diritti a chi non li ha, a partire dalla cittadinanza per i bambini nati da genitori non italiani che vivono in Italia, ecc.
Invece siamo in una situazione di stallo - il che contrasta fortemente con le tante urgenze. 
Il voto ha premiato le denunce urlate. I motivi vengono discussi da giorni: Hanno prevalso l’indignazione e la ripulsa radicale per anni in cui troppa parte della politica è restata lontana dalla vita e dalle cose da fare, al riparo con i suoi privilegi, incapace di innovarsi.
Ho questi pensieri, come tante altre persone. 




Come è noto, dal 29 novembre del 2011 sono stato membro del governo Monti. Non me lo aspettavo. Ho accettato di farne parte per contribuire a un’azione che ci togliesse dall’orlo  del baratro e poi per interrompere, almeno, i tagli insensati alla scuola, per avviare le riparazioni che erano, che sono necessarie. So bene che durante questo anno e mezzo, dopo una prima fase in cui molti hanno riconosciuto l’esigenza di serietà nella conduzione della cosa pubblica che Monti ha rappresentato, vi è stata una crescente disillusione perché questa spinta non ha avuto il tratto egualitario che era stato promesso. Quando si chiede alle persone di fare pesanti sacrifici e poi non si dimostra e comunica altrettanta durezza con le diverse “caste” e con le posizioni di rendita e di privilegio troppo diffuse, l’indignazione e la ribellione crescono. A poco è servito lo sforzo mio e di altri per produrre segnali concreti di una diversa tendenza. Lo dico con un senso di vero affaticamento personale.
La parentesi dei “tecnici”, poi, non è servita ai partiti tradizionali per cambiare e innovarsi, per presentarsi ai cittadini con una credibilità maggiore,. Il Partito Democratico - che sento vicino perché più prossimo ai miei temi, più capace di interrogarsi su una riforma della politica, perché difende la prospettiva europea senza assecondarne la trappola tecnocratico-verticistica, perché avversa demagogia e personalismo, perché attento ai diritti di chi ha di meno o viene da lontano – ha saputo innovare le sue procedure democratiche attraverso le primarie e un avvio di ricambio generazionale. Ma non è riuscito a rendere pienamente credibile agli occhi della maggioranza degli italiani la sua proposta di cambiamento, con un “we have a dream” capace di capovolgere – opera non facile, in verità - la deriva sorta e cresciuta intorno alle regressioni individualistiche che sono alla base della crisi profonda del Paese. Non è riuscito ancora – è probabilmente indispensabile un tempo più lungo - a mostrare che non basta la semplificazione del mondo intorno alle categorie rassicuranti di “buoni” e “cattivi”, proporre soluzioni univoche di cui si hanno già le ricette a problemi che, invece, sono complessi e che richiedono processi diffusi di apprendimento e partecipazione plurale mentre li si affronta.  

Resta il fatto che l’Italia ha grande bisogno di Governo perché le urgenze, soprattutto nelle aree e riguardo le persone più fragili della nostra comunità nazionale, non possono attendere. E perché c’è un enorme bisogno anche di tenuta normale delle istituzioni. L’istanza di cambiamento non può seppellire il senso di responsabilità verso questi inderogabili bisogni politici. Che fare allora? 
Intanto penso che servono gesti simbolici forti. Alcuni “vecchi” e vecchi modi devono davvero farsi da parte. Scrivevo anni fa della figura dell’”adulto narciso”, così diffusa nel nostro panorama sociale, culturale e intergenerazionale: una massa critica – ma poco autocritica - di sessantenni, settantenni e ottantenni  incapaci di farsi da parte e cedere il potere rappresenta un break down evolutivo, e non solo per la politica. Al contempo è pur necessario e urgente, per la politica e non solo, che rappresentanza e conoscenza e competenza si avvicinino. Chi governa deve sapere cosa e come fare e deve anche sapere cercare - attraverso una costante sperimentazione deliberativa - come costruire governo buono insieme alle associazioni, agli esperti ma soprattutto ai cittadini nel vivo delle tante polis di cui è fatta la comunità nazionale. Governare oggi vuol dire questo: il sapere affrontare i problemi che vanno risolti con metodo e attraverso processi cognitivi ben organizzati e diffusi, fortemente partecipativi, il che significa istruire cantieri complessi ma che sanno anche decidere, togliendo lo stato italiano dalle sue arcaicità. Un’opera titanica. Ma senza la quale c’è solo il lamento, la recriminazione o la conservazione di élites ormai logore. 
Così, governo e cambiamento devono trovare le faticose vie comuni. E il cambiamento deve investire, oltre le persone, anche le strutture, i linguaggi e i messaggi. Serve subito un discorso pubblico capace di unificare attorno a tre o quattro urgenze nazionali. A partire da: uscita dalla recessione e politiche multiformi per il lavoro, lotta alla povertà, riforma della politica, nuovo investimento per la scuola. 

Alcuni avvenimenti di questi giorni fanno sperare. La scorsa settimana si è insediato nelle aule di Montecitorio il Parlamento più giovane d’Europa, con un altissimo numero di nuovi deputati e tante rappresentanti donne. E proprio loro hanno scelto i due presidenti delle Camere: Pietro Grasso è la seconda carica dello Stato, Laura Boldrini la terza. Due persone che hanno saputo fare bene, che vengono dal mondo di chi si occupa di fare valere i diritti delle persone e i diritti nella società, affrontando le vere emergenze e cercando ogni volta concrete soluzioni, miglioramenti, lavorando insieme agli altri. 
Su questa via è da auspicare - e può accadere - che altre strade si aprano o che, comunque, il tema della polis da governare in modo nuovo trovi proposte, parole, gesti e faccia passi avanti, in una stagione che non potrà che essere lunga, complicata, laboriosa. 
In questo paesaggio di prove e di sfide - va detto anche da chi come me è di cultura laica – c’è la voce del Papa Francesco. Che parla di povertà e di speranza. E che arriva dopo un gesto – le dimissioni di Papa Benedetto - che ha interrogato il mondo sulle grandi questioni della responsabilità, del potere e del suo sano esercizio, del rapporto tra generazioni. E su come il fatto che ognuno sappia e possa riconoscere i propri limiti sia la strada possibile e doverosa per ridiventare comunità operante, capace di reciproco ascolto e di aprire le porte ai cambiamenti veri, che sono faticosi, incerti. In un tempo di profezie urlate che ritornano, alcune parole e gesti ci ricordano che c’è da dissodare, potare e arare e seminare con cura artigianale, imparando e agendo. E che è questo che determina il cambiamento.

4 commenti:

Olindo De Napoli ha detto...

Condivido in toto. Speranza e "break down" evolutivo a favore di nuove energie per la città e per l'Italia, con un occhio però alle competenze e al saper fare.

olindo

pirozzi ha detto...

we have a dream, non ci sono alternative al sentimento urlato derlla negazione, che pure ha, in democrazia, diritto a esistere e a non essare criminalizzato perchè non assomiglia alle nostrte vecchie parole, pensate eterne, un dream che veramente ha una lunga storia, quella dei diritti, che poi è stata tradita, soppiantato dal mito dei benchmark, ossia dall'annulamneto del futuro e del futuro come un cotsrutto, non come un deal già idsegnato e reso obbligatorio all'agire umano. questo urlo sui diritti, forte e semplice, che rimarchi l'origine della democrazia da qui e della politica che qui si fondi, ha bisogno di voci, che sfuggano alla mediazione preventiva del "da un lato e dall'altro", che concepisca e costruisca la mediazione - e la cosapevolezzza dei limiti e dei rischi che ci avvolgono - come una costruzione elaborativa dei punti di partenza; come un campo che costruisca i soggetti nello scambio delle interazioni, a qualunque livello, e non come - ormai ridicolo - discorso che parta dalle identità, fossero anche quelle comunitarie, come prerequisiti definiti. la democrazia, non la nostra forse, ha una lunga tradizione in tal senso, una tradizione creativa e non esecutiva. che qualcuno riprenda questo dream tradito e sommerso dall'ignoranza di un ceto politico vergognosamente incolto, a parte che beceramente conservatore dei propri, trasversali, interessi. che qualche voce si alzi non a profetizzare, ma a riannodare le file con grandi tradizioni della democrazia. pacebbbene

Marcella Santoro ha detto...

«Se non hanno pane, che mangino brioche!» (S'ils n'ont plus de pain, qu'ils mangent de la brioche in francese)...ecco come nascono le rivoluzioni!
quando gli uomini hanno fatto diventare la politica un "lavoro" superpagato e colmo di privilegi è ovvio...naturale...che il popolo prima o poi si ribella.
Era ora!!!

giuseppe veronica ha detto...

Caro Rossi Doria, Don Milani diceva - e non l'hai certamente dimenticato - che non si servono due padroni. Non si può sperare di fare contenta l'Ocse, con i suoi programmi di selezione precoce e doppio binario dell'istruzione, e la povera gente che fa fatica in una scuola che è tornata alla strategia dei compiti a casa e delega alle mamme le proprie funzioni20326. Lascia questo governo, per favore.