Nel week-end ho visto i documentari sulla scuola che vengono presentati al Film Festival di Torino. E ne ho scritto su La Stampa. Questo è l’articolo che è uscito oggi.
Finalmente la scuola irrompe sulla scena. E smentisce i troppi soloni che la denigrano. Così, ieri al Torino film festival si è visto il bel documentario di Marco Saltarelli: Scuola media. Il mare all’orizzonte e la potenza dell’Ilva che sprigiona fumi fanno da cornice ai ragazzini della scuola media Pirandello di Taranto che si chiedono quali sono i vantaggi e gli svantaggi di un’eventuale chiusura dell’impianto siderurgico. Il grande tema della salvaguardia dell’ambiente e del come conciliarla con l’occupazione si combina con i visi dei ragazzini che si domandano della loro futura salute. E dei padri che perderebbero il lavoro. Cambia scena. E una monaca di clausura, da dietro le sbarre, parla ai ragazzini che sono andati in gita d’istruzione a trovarla. Loro le raccontano che hanno studiato i Promessi Sposi e la monaca di Monza... E lei, con voce ferma, dice loro che devono vivere in modo pieno, come ognuno può fare. E che devono farlo per scelta. E le ragazzine ascoltano. Attente. Poi, quando si allontanano, parlottano tra loro in dialetto. Fitto fitto si dicono le loro cose, le cose degli adolescenti. Di nuovo in classe una professoressa guarda oltre la prima fila e chiama a raccolta – appunto – il gruppo di adolescenti che trama dietro i primi banchi. La scuola, qui come ovunque, è il luogo d’appartenenza potente che riunisce i pari di età. Che hanno in mente e nei discorsi i loro miti, le loro storie, ben più forti delle “cose da imparare” che non hanno più l’ausilio fornito dal senso di colpa. “Vai a scuola per imparare” – ci dicevano i nostri genitori. Erano parole che funzionavano. Sia pure con le normali trasgressioni. Ma è stato eroso il patto implicito che c’era tra i nostri padri e i nostri insegnanti: ora la parola adulta non ha il retroterra di un tempo. Così i docenti devono conquistare ogni metro di attenzione a gran fatica. Convincere il gruppo di adolescenti e poi ciascun suo membro che si sta lì perché conviene imparare è la prima sfida che i docenti si pongono. Il film mostra questo. Ed è una grande faticosa opera quotidiana. Lo rivela la prof. di matematica: “la parola mia vale ogni volta di meno di quella del vostro compagno… com’è possibile?” Lo chiede a loro. E a se stessa. E’ quello che noi adulti che insegniamo ci chiediamo ogni volta. Eppure i docenti sono lì. Ogni giorno lì. Ed è come se ogni volta dicessero: va bene, capiamo, non rinunciate a essere gruppo, a essere ragazzi come siete voi e non come noi. Però fatene qualcosa. Trovate, provate, scoprite in positivo. E così le ragazzine guardano il foglio con il problema di geometria con la prof che, quasi di lato, segue i tentativi che vengono avanti. Il dettato scandito dall’altra prof. rivela una lingua obsoleta. Eppure i ragazzi scrivono, provano a tenere il passo. E le ragazzine suonano mirabilmente i violini. E un ragazzo legge le note. E dalla grammatica che sta sul pentagramma esce musica. Ed è la preside – ora si dice dirigente scolastico – che rivela quel che è davvero al centro di tutte le fatiche: dare grammatiche a ciascuno, grammatiche per leggere il mondo e starci dentro, senza le quali non si saranno cittadini. Perché senza grammatiche non ci sarà scelta.
Domani ci sarà il bellissimo film di Giulia Cederna e Angelo Loy: Una scuola italiana. Sulla scuola d’infanzia Carlo Pisacane di Roma, Tor Pignattara. Dove otto bambini su dieci sono stranieri. Le maestre lavorano con bimbi e mamme intorno al mondo del Mago di Oz e di Dorothy che vi è capitata. Non è solo la metafora della scoperta attraverso l’estraniazione. E’ il laboratorio scelto di una scuola che non solo “tiene botta” ma crea. Perché fa entrare ognuno nel mondo attraverso la porta delle emozioni e delle relazioni autentiche. La recita delle parti del Mago e del Leone, dell’Uomo di paglia e dell’Uomo di latta rapisce maestre e bambini – italiani e siriani, indiani e cinesi, latinoamericani e marocchini, del Bangladesh e del Pakistan. Lo fa mentre preserva le routine che servono a crescere: mangiare insieme, lavarsi le mani, litigare ma dire scusa e riparare, cantare “tanti auguri”, impastare e dipingere, nominare gli animali e i colori, commentare le storie altrui e raccontare le proprie. Civili, competenti, appassionate, le maestre guidono ogni passaggio e si interrogano, con commovente onestà, sui propri errori e sul senso del lavoro. E’ l’Italia migliore. Ma, intanto, fuori dall’edificio, compare - aggressivo quanto patetico - l’urlo dell’odio che chiama a sfasciare tutto questo o l’accanimento imbecille di chi deve mostrare i conflitti in tv, incapace di rispettare l’opera che si sta compiendo.
Ma forse è l’Italiano il protagonista che tiene la trama: la meravigliosa, accogliente lingua franca nella quale tutti i bimbi s’avvicinano alle loro paure, alla loro nuova casa e alla nostalgia per quella lontana, al nominare se stessi e il mondo, a dare ruotine e rito alle sante giornate. Sì, l’Italiano. Che anche le mamme vogliono imparare. Che si può imparare presto e bene. Che serve per andare in prima. In una scuola italiana.
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