Città di Napoli, ottavo anno del secolo, primo dì del mese di luglio. Faceva caldo. E puzzava davvero la monnezza sulle strade di molte periferie e anche del centro. Ormai da mesi e mesi. Tanto che erano sparite le foto sui cartelloni pubblicitari che mostravano la città linda e pinta in barba alla realtà. Neanche l’inventore di quella forma crudele di propaganda – uno scaltro assessore, esperto in un’arte di quel tempo, la “comunicazione” - osava più farli affiggere, tanto era stridente e dunque controproducente, ai fini della sua stessa arte, il rapporto tra quel che i cartelloni mostravano e le stimolazioni che la monnezza recava alla vista e all’olfatto dei cittadini da così tante settimane.
Monnezza era il termine – un nome comune collettivo, usato al singolare, come si fa ancor oggi per altre entità plurali quali gregge o squadra - che allora era d’uso per definire quel miscuglio malodorante fatto, appunto, di più cose: plastica, carte, cartone, rifiuti organici, vetro, acidi, copertoni, ferraglie, materassi e quant’altro. Perché allora in quel di Napoli si usava ancora mettere insieme cose così diverse che si erano consumate mentre in tanti luoghi di Ponente e di Levante già si trattavano in modo differente e secondo le nature diverse di ogni cosa. E in quel di Napoli si usava ancora allora, inoltre, gettare tale monnezza per le strade in buste. Sì, per le strade. Perché le discariche – luogo dove, in barba alla stessa legge di allora si accumulava questa stessa collettiva monnezza tal quale – erano stracolme da anni in quelle lande; ed era divenuto vieppiù difficile trovarne altri di luoghi adibiti a queste discariche senza che gli abitanti delle zone attigue si ribellassero per il gran tanfo che questa monnezza emanava.
Così le buste che contenevano tal monnezza stazionavano per lunghi giorni in mezzo alla città, nei pubblici spazi, in quel avvio di luglio napoletano. E si aprivano. E riversavano il loro multiforme contenuto per le strade, dove, appena pioveva la monnezza prendeva la via dei tombini, allagando le carreggiate regolarmente mentre quando v’era il solleone, come in quelle giornate, le buste e i suoi contenuti venivano bruciati da cosidetti vandali per coprire con la puzza della plastica accesa il tanfo che emanavano. Ma quella plastica bruciata diffondeva a sua volta nell’aere la diossina, una sostanza assai nociva, che invadeva i polmoni soprattutto di anziani e bimbi e contribuiva a favorire dolorose malattie mortali. Quando, invece, ristava per strada, la monnezza nutriva ratti e gabbiani che, ingurgitandola, divenivano giganteschi e ogni tipo di insetti, protozoi, batteri, pronti a colpire animali e umani con infezioni che recavano nomi arcaici: tifo, salmonella, scighella, colera, giardia.
Mentre tutto ciò accadeva, nella fresca brezza della Svizzera a oltre mille chilometri più a Nord, dove la monnezza veniva da tempo già trattata come si conviene, Sofia Loren, una talentuosa attrice e dama di gran portamento di quel tempo, dalla lunga e premiata carriera e ormai già avanti negli anni – che viveva in una villa di lusso a Ginevra e naturalmente possedeva ricche case in ogni dove – veniva a sapere, grazie a un foto inviatele non si sa da chi, che la sua casa d’infanzia in quel di Pozzuoli, mai frequentata negli ultimi settanta anni né di sua proprietà, era circondata, appunto, di monnezza, cosa che le doleva assai.
Povera ignara era, tuttavia, della bella novella. Nessuno, infatti, le aveva comunicato che in quegli stessi giorni la Signora sindaco della bella città di Napoli aveva già provveduto a tutto risolvere riguardo alla monnezza poiché aveva deciso di fare costruire un inceneritore di monnezza ad Agnano, antico luogo termale non distante da Pozzuoli. Sì un inceneritore, detto termovalorizzatore perché, se mai la monnezza non fosse stata umida, il suo bruciare, entro apparecchi in luoghi chiusi, poteva produrre energia. Termovalorizzatore, o, per gli amici, Termo, semplicemente. Così lo si chiamava. E l’eccitamento era stato tale – all’annuncio della Signora sindaco - che qualcuno tra i suoi consiglieri aveva gridato: ecco il Termo di Agnano, in luogo delle vetuste Terme di Agnano. E qualche altro, preso dal medesimo entusiasmo, aveva iniziato a disquisire, sui giornali locali, circa le forme che l’edificio del Termo stesso avrebbe potuto assumere: a guisa di guglie vistosamente colorate, secondo lo stile d’Oriente o dalle forme più lineari e sobrie secondo mode architettoniche più in uso in Occidente. Nel clima generale, sempre più entusiasta, la Signora sindaco della bella città di Napoli, indifferente all’olezzo che il bruciare del sole di quei giorni e i fumi della famigerata diossina spargevano per la città, aveva organizzato una visita guidata per assessori e membri del consiglio comunale, a un Termo molto lodato in quel tempo, sito in quel di Brescia, che pareva divorasse monnezza come un dragone. Le spese di andata e di ritorno erano a carico dei contribuenti perché si trattava evidentemente di un sopralluogo di pubblica utilità in vista della realizzazione del Termo di Agnano.
Ma di tutto questo fattivo ed entusiasta operare la signora Loren, nella sua magione elvetica, nulla poteva sapere e dunque – pare – non riuscisse a darsi pace per la sorte capitata alla sua casa natìa. Nè poteva gioire la signora Loren del fatto che il Termo di Agnano sarebbe stato eretto, con un decor o con un altro, nei tempi consueti e comunque entro il primo quarto del secolo con buona probabilità. Né poteva felicitarsi la signora Loren del fatto che, intanto, entro il tredicesimo anno del secolo e dunque con indispensabile ponderatezza, ogni parte della monnezza si sarebbe potuta dividere l’una dall’altra anche a Napoli - come riconosceva certo Signor Mola, un solerte assessore di allora - così come tanti già da tempo avevano appreso a fare nella stessa città, nonostante che la Signora sindaco e il signor Mola stesso, giustamente prudenti, ritenessero tale pratica certamente saggia ma del tutto prematura e nonostante che già si operasse in tal modo da mezzo secolo nelle città dell’Universo Mondo e ormai da tempo anche nei borghi vicini alla bella Napoli. Né poteva avere soddisfazione l’elegante signora Loren – nella sua lontana Ginevra – del fatto che, in attesa del tredicesimo anno del secolo, l’esercito, entro qualche mese, avrebbe aperto, manu militari e anche a rischio di qualche ferito o peggio, una vecchia cava, fortunatamente lontana dalla natìa e sempre amata Pozzuoli, ove la monnezza, intanto rimasta tale e quale e dunque ancora degna del suo esser nome collettivo, poteva ristagnare a lungo, così come avveniva, in altre cave o grandi scavi, da dieci lustri almeno in giro per quella Terra felice.
3 commenti:
perrfavore pubblicate il testo integrale del vostro appello
Fù condannta per l'evasione fiscale Sofia Loren che fu rinchiusa per 15 giorni nel carcere di Caserta, visti i suoi trascorsi, adesso si preoccupa di napoli dalla lontana svizzera.
no, lasciate stare il povero mola che la valeria gli da già abbastanza gratacapi...: genna, fa caldo...gennà fa caldo...
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