Non sarò breve.
1. C’è uno scenario di anni che sta a monte delle “giornate di Ponticelli”. E in assenza di un qualsivoglia segnale da parte del sindaco sarebbe atto dovuto che almeno il presidente del consiglio comunale di Napoli riunisse subito il consiglio, per un dibattito pubblico dove ricostruire con attenzione le premesse di questa crisi di inaudita violenza, che vanno reperite, almeno a partire dal dicembre del 2003, data in cui il comune di Napoli fece una delibera a favore dell’accoglienza di
rom in una struttura di Via Botteghelle.
Quali sono stati i passi fatti per integrare i
rom nel quartiere, le proposte disattese, i passaggi partecipativi effettuati o meno, i fattori di accumulo delle tensioni, le differenti opzioni scelte o scartate? In democrazia non è mai inutile, quando scoppia una crisi, rivederne le cause con cura davanti alla cittadinanza. Si farà? Oggi io sono pessimista. Non si farà. Perché non ci sono più sensibilità politica in senso proprio né la santa abitudine alle procedure minime. Non c’è più tenuta alcuna.

2. Così oggi accade a Napoli che ci si debba misurare emotivamente con i nudi fatti, per come scuotono ciascuno di noi.
Ne elenco una sequenza, senza ordine ma così come mi riviene alla mente. Mentre la prefettura aveva annunciato agli uffici comunali l’intenzione di ricorrere a uno sgombero legale dei campi, per ragioni igienico-sanitarie, avviene, dinanzi alle telecamere della Rai, che bande di giovani e meno giovani, spesso con precedenti di mala, assaltano le baracche
rom e le bruciano lanciando molotov dai motorini, mirando non solo ai luoghi ma alle persone. Nelle strade vicine si dice, a loro convinto sostegno, che lo fanno per “vendicare i furti di bambini”.
Sarebbe, insomma, questa la risposta all’episodio di intrusione in una casa del quartiere da parte di una minorenne, subito assicurata alla giustizia e sulle cui circostanze e responsabilità la magistratura stava già indagando. Ma, interrogati dai molti giornalisti presenti sui luoghi, i giovani, divisi in piccoli gruppi di incursori, ammettono altro: che le attività illegali dei
rom fanno aumentare la presenza, per loro fastidiosa, della polizia nel quartiere e che i
rom sono loro diretti concorrenti nell’accumulazione di ferro, alluminio e rame, rubato e non, da rivendere. Tanto è vero che, bruciato un campo, i poliziotti sono costretti ad allontanare le bande di predatori che intendono “riprendersi rame e ferro”. “Non è ora il momento” – dicono. I vigili del fuoco intervengono per spegnere i roghi. E vengono scherniti in modi indicibili mentre si assicura loro che, in ogni caso, si tornerà all’assalto con nuove molotov le quali, nel nostro codice penale, sono classificate armi da guerra. Ma la polizia non interviene. Donne del quartiere, davanti alle tv nazionali e locali, ballano e urlano come nelle feste delle orde; e esaltano la vendetta contro un’intera comunità nomade, rea di essere tutta intera “ladra di bambini”.

Viene fatto un ultimatum di sgombero campo dopo campo. Ma non dallo stato come è avvenuto a Bologna o a Roma. No. Qui lo stato ha da tempo perso ogni monopolio della forza. E’ un diktat recapitato non si sa come e da chi ai
rom assediati. E’ avvalorato da pezzi sparsi di camorra di quartiere o così si dice e si ripete ai giornalisti. Come dire: siamo noi del “sistema” a proteggere la popolazione del quartiere dagli zingari cattivi, a fare non già da ronde ma da incursori incendiari.
E così resta il fatto che roghi e minacce producono una fuga notturna di circa 500 persone, protette da sparuti gruppi di poliziotti e dai volontari della Caritas che, circondati da una folla pronta e attrezzata al linciaggio, quello vero, ha trovato i furgoni e ha portato, viaggio dopo viaggio, decine di persone fuori dal pericolo sistemandoli per la notta in decine di abitazioni di cittadini civili di questa città. Un esodo dal sapore terribile, avvenuto nel terrore di vecchi, donne, bambini inermi. Che mette per sempre a tacere tutti i tentativi di integrazione di questi anni. Nelle aule del 88° circolo didattico dove tra pochi giorni avrebbe dovuto concludersi un progetto tra bambini
rom riconquistati alla scuola pubblica e altri bimbi del quartiere – un lavoro basato sulla narrazione di fiabe
rom, che uniscono – i bambini di Ponticelli coinvolti piangono: “Abbiamo visto i nostri compagni fuggire piangendo tra la folla inferocita”. Alla fine del saccheggio successivo ai roghi bande di squadristi rovistano tra le povere cose lasciate.
3. Questi eventi inauditi hanno luogo in un clima cittadino di ignomignoso vuoto istituzionale e politico. Più che irresponsabile, delirante. Nessuno che abbia una funzione di rappresentanza politica è lì sul posto insieme alle forze dell’ordine che difendono almeno l’incolumità fisica delle famiglie sotto minaccia fisica. Né un parlamentare né un solo rappresentante di comune o provincia o regione. Tacciono sindaco, governatore e presidente della provincia. E nessuno è in grado di parlare con le due parti. Mentre vengono lanciate le molotov i partiti di destra e il PD all’unisono chiedono lo sgombero e l’immediato smantellamento dei campi. Senza commentare gli eventi fuori da ogni legalità repubblicana.

Il
manifesto del PD resterà nel tempo una vergogna: confonde crisi dei rifiuti e campi nomadi e, nel mezzo del linciaggio, chiede che sia restituita sicurezza ai cittadini di Ponticelli minacciati. Fa molto meglio la mamma della piccola Camilla: “non volevo questo”. Ma c’è anche di peggio: la prefettura e il comune, intanto, si permettono di litigare pubblicamente su dove spostare le famiglie già in fuga e avviene addirittura la disdetta del tavolo di concertazione tra le istituzioni sulla gestione della crisi. E’ un atto di una gravità mai vista prima in Italia nel mezzo di una tale emergenza. Intanto, imperterrito, un
assessore regionale (non mi viene manco più voglia di scrivere il nome) dall’innocentissimo pulpito del palazzo della Regione Campania - decide che è proprio questo il buon momento per scagliare finalmente la prima pietra contro il sindaco e gli amministratori comunali che, a loro volta, sotto la pressione della piazza organizzata dai rappresentanti zonali della loro stessa maggioranza – che è la stessa della regione – avevano pensato bene di dedicarsi a contestare tardivamente quanto deciso dal commissario straordinario in materia di siti per i rifiuti.

4. Comunque molte persone si chiedono: la ragazzina
rom voleva davvero prendersi una bimba secondo quanto è nella paura più profonda, atavica, radicata? I giudici stanno indagando. Vedremo. Ma, intanto, va ricordato qualcosa che si ripete nel tempo nella storia umana. Da sempre - nei confronti delle popolazioni con forte identità autonoma ma in posizione di minoranza e marginalizzate - si ripete, di generazione in generazione, tra le molte accuse ricorrenti, quella di furto dei bambini. Ciò avviene da parte di maggioranze non necessariamente coese, anzi. La maggioranza, attraversata da reali e profonde differenze sociali e culturali, conserva tuttavia pretese di omogeneità; e, proprio perché divisa al suo interno, indica nelle popolazioni di minoranza le alterità, a conferma della propria identità unitaria. Così l’accusa di furto di bambini è stato gettata addosso a ebrei e nomadi in Europa, alle popolazioni di origine africana o ai nativi nelle Americhe colonizzate, alle minoranze tribali entro le differenti zone di altra maggioranza tribale in molte parti dell’Africa, agli armeni in Turchia, ai kurdi in Siria o in Iraq, alle popolazioni autoctone nella Siberia colonizzata, ai nomadi non arabi nel Magreb, ai turcomanni in Cina ecc.
E’ un pericolo, un’evenienza minacciosa che sta lì, ripetuta dalle narrazioni diffuse, che si nutre di leggenda. In questo, la funzione degli stereotipi, che vengono diffusi e ripetuti spontaneamente, è di avallare o indurre o diffondere conformismi di massa o di gruppo, confermando il già noto o più esattamente il presunto noto, facendolo apparire come qualcosa di ovvio e di scontato.
Gli stereotipi si possono identificare con il senso comune o sapere di tutti. Non si tratta di una verità ma di una convinzione. Che è riproduttrice di

una disinformazione che serve alla coesione interna di una società che coesa non è. E che permette di rassicurare e di avallare i conformismi sedimentati nel tempo e di demotivare la ricerca, il dubbio, il pensiero divergente. E’ qualcosa di sordido e ripetuto, che oggi gode di un grande megafono nei media. E che si nutre delle categorie del nemico, del minaccioso. Da sempre accadono episodi grandi o piccoli a conferma degli stereotipi. E tali episodi avvengono spesso nei passaggi della storia nei quali le maggioranze sono attanagliate da una condizione o da una sensazione di crescente insicurezza intorno al proprio status economico o alle aspettative di futuro o ai valori dichiarati che non corrispondono più a quel che viene percepita come la situazione effettiva. Come accade oggi nel nostro paese e non solo. E quando le divisioni sociali aumentano senza che siano pienamente rappresentate entro un conflitto codificato e regolato.
E’ in questo tipo di atmosfere generali che, nella storia, accade che qualcuno della minoranza accusata, quasi sempre un singolo “in rappresentanza di tutti”, spesso più fragile, si venga a trovare - nella accusa diffusa da gruppi della maggioranza o anche effettivamente - in una posizione tale da confermare gli stereotipi che sono costruiti addosso alla sua identità di appartenenza. E nella storia ciò accade sovente in territori di confine, lì dove le parti più fragili delle maggioranze si trovano nelle vicinanze o in prossimità o a contatto delle minoranze altre. Come nel caso di Ponticelli, esattamente. E’ in questi contesti particolari e speciali che, poi, prendono forma episodi inventati o anche reali. La ragazzina
rom era lì? Ma cosa stava facendo e come viene rappresentato quel che faceva da quel gruppo in quel momento nell’atmosfera generale e di confine?

Spesso accusati e accusatori sono entrambi in una situazione complicata, strana, intermedia, ambivalente e di reciproca paura. La conferma dello stereotipo si trova ad essere suggerito anche da un agito dell’accusato? Viene confermato dalla convinzione radicata di chi accusa? Insomma se sei considerato ladro di bambini da una enorme maggioranza di persone nel cui mare tu ti muovi come “diverso” da generazioni vi è la possibilità che tu ti trovi, per spinta inconscia o altro, in una situazione intermedia e di confine, ambigua, pericolosa, nella quale fai gesti, esprimi intenzioni, sei presente in luoghi, dici cose che vengono presi, ampliati, ridefiniti e ricostruiti a posteriori – da parte di chi crede in tali stereotipi ed è attanagliato da paure profonde - in modo che tu possa risultare effettivamente “ladro di bambini”. Sì, accade che persone vittime di stereotipi si trovino a vivere una posizione che può confermarli nello stereotipo. Ma tutto ciò, però, può avere luogo solo quando alla crisi culturale e sociale di intere comunità corrisponde la pochezza dei pubblici poteri, privi di quella autorevolezza minima che consente la basilare funzione di dare parola e atto alla legge, a salvaguardia della convivenza civile.
Le foto sono di Philippe Leroyer e sono state scattate a Parigi in occasione di una manifestazione di rom nel dicembre 2007.